Fede cristiana e metafisica del dono
In Il Nuovo Areopago, anno 3 numero 4 (12) inverno 1984
L’importanza del problema dei rapporti fra filosofia e teologia può essere vista sia dal punto di vista del filosofo sia dal punto di vista del teologo. È da questa seconda prospettiva che intendo sviluppare la mia riflessione sul tema propostomi.
Salvezza e conoscenza
Nel primo articolo della Somma Teologica, S. Tommaso si chiede se per la salvezza dell’uomo sia necessaria una conoscenza "praeter philosophicas disciplinas". La risposta affermativa è dimostrata, per il S. Dottore, dal fatto che, da una parte, Dio ha chiamato l’uomo e lo ha destinato ad un fine che supera ogni sua naturale possibilità di conoscenza e, dall’altra, dal fatto che, essendo l’uomo un soggetto spirituale e libero, deve orientarsi consapevolmente e liberamente al suo fine: orientamento che esige la conoscenza del suo fine ultimo.
La struttura teoretica di questa pagina della Somma focalizza il nodo essenziale della nostra problematica e ci aiuta a individuarne i termini essenziali.
La salvezza eterna alla quale l’uomo è destinato ed in vista della quale l’uomo è stato creato, è un puro dono, nei confronti del quale egli non può avanzare alcun diritto. Ma, in quanto e precisamente perché è la salvezza dell’uomo, questi deve conoscere questo dono con una conoscenza tale da poter compiere quelle scelte e quelle decisioni libere che lo orientano ad essa. I termini essenziali, pertanto, del problema mi sembrano due: la salvaguardia della soprannaturalità del dono; la possibilità e la necessità di una conoscenza umana del dono medesimo. Qualunque soluzione che, in un modo o nell’altro, negasse uno di questi due termini risulterebbe per ciò stesso falsa, in quanto non rispettosa o della intera verità del cristianesimo o della intera verità dell’uomo. Con una formula sintetica, potremmo dire che tutta la questione dei rapporti fra filosofia e teologia, è la questione della "conoscenza del dono".
In questo tentativo continuo di costruire un "sapere del dono", la teologia è costretta ad istituire un rapporto con la filosofia. Infatti, la teologia — nella sua accezione classica di "fides quaerens intellectum" — costituisce lo sforzo di avere una intelligenza del Dono (o meglio: il radicarsi sempre più profondo della verità del dono nel terreno della intelligenza) e, pertanto, essa costituisce il momento di passaggio della Verità Rivelata dentro il pensiero umano. Dall’altra parte, sarebbe errato ritenere che l’intelligenza umana, incontrata dalla fede che diviene teologia, sia come una cera vergine, disponibile ad essere comunque plasmata dalla figura della fede. La conseguenza, pertanto, è che, nello stesso momento in cui la fede vuole radicarsi nell’intelligenza — diviene, cioè, teologia —, essa si incontra con una intelligenza che ha già costruito una "visione" dell’uomo, con una intelligenza, cioè, filosofica.
I due termini essenziali del problema, che ho richiamato poc’anzi, acquistano ora un contenuto più preciso. Il primo, la salvaguardia della soprannaturalità del dono, esige che la visione dell’uomo concepita dalla intelligenza umana non sia tale da rendere impensabile il cristianesimo in ciò che lo definisce, precisamente la categoria del dono soprannaturale e, positivamente, sia tale da rendere possibile all’uomo un sapere quella verità del Dono che lo possa orientare nella sua vicenda temporale. Il secondo, la possibilità e la necessità di una conoscenza umana del Dono, esige dall’uomo una conversione della sua intelligenza ed un atteggiamento di disponibile obbedienza. Volendo ulteriormente precisare concettualmente la nostra domanda, mi sembra che essa si potrebbe formulare in questi termini. Primo: a quali condizioni l’intelligenza umana è in grado di sapere e di conoscere la verità del Dono, in cui consiste il cristianesimo? Secondo: quale visione filosofica è in grado di fare spazio all’ingresso della verità del Dono nell’intelligenza umana?
Non vorrei, tuttavia, limitarmi a rispondere a queste due domande prese in se stesse. Ma vorrei anche mostrare come esse siano contemporaneamente domande fondamentali nella nostra situazione culturale, così da risultare che, quando affrontiamo questi temi, ci collochiamo nel "nodo" del dramma spirituale dell’uomo contemporaneo.
La conversione dell’intelligenza all’essere
Per poter individuare le condizioni per le quali l’intelligenza umana può sapere la verità del Dono nel quale consiste il Cristianesimo, è necessario portare la propria attenzione, innanzi tutto, sul fatto che intelligenza e volontà sono facoltà che emanano dalla stessa realtà spirituale e, alla fine, dinamismo della persona. Da ciò deriva una reciproca influenza fra le due facoltà e, quindi, anche della volontà sull’intelligenza. Alla riflessione agostiniana, secondo la quale "non intratur in veritatem nisi per charitatem" fanno eco le parole di S. Tommaso, secondo le quali anche l’atto intellettivo è "imperato" dalla volontà libera: "intelligo quia volo". Pensare che l’attività dell’intelligenza possa prescindere in ogni modo e in ogni caso dalle condizioni essenziali della persona che la esercita, significa non conoscere la verità dell’uomo.
Ciò premesso — e questa premessa meriterebbe una più lunga riflessione — a me sembra che la prima e fondamentale condizione affinché un’intelligenza umana possa sapere la verità del Dono è che sia un’intelligenza convertita all’essere: è la conversione, da parte dell’intelligenza, all’essere. La cosa può sembrare strana. Chi parla di "conversione", infatti, denota un atto di correzione di una tendenza, di un orientamento, di un cammino giudicati errati. Ma, d’altra parte, l’intelligenza non è naturalmente tesa, orientata, intenzionata all’essere? Che senso, quindi, può avere di parlare di "conversione dell’intelligenza all’essere"? Si tratta, dunque, innanzi tutto di determinare rigorosamente il significato di questa espressione e, poi, di mostrare come questa sia la condizione fondamentale.
Quando si parla di "orientamento o intenzionalità" dell’intelligenza all’essere, si esprime, in realtà, la dimensione più profonda della vita spirituale, intellettiva e volitiva assieme, poiché amare significa amare nella verità. "Primo quod cadit in apprehensione intellectus est ens", scrive infinite volte S. Tommaso. La vita spirituale si sveglia, ha il suo inizio in questa "apprehensio" nella quale la persona umana si apre in generosa disponibilità all’incontro colla realtà, poiché questa diviene intenzionalmente presente nella persona umana medesima. Ed è in questo adeguarsi della persona alla realtà, in questo lasciarsi da essa misurare che l’intelligenza diviene vera e la volontà buona, dando sia la prima che la seconda la risposta dovuta, la risposta giusta: quella risposta dovuta e giusta che è essenzialmente l’atto di "consentire" all’essere di ciò che è. In questo senso A. Forest ha potuto definire lo spirito "attraverso l’ampiezza e l’affinità che gli permette di affermare l’altro e di ritrovare se stesso nell’esperienza di questa unione" (in "Connaissance et amour", dans Jacques Maritain, son oevre philosophique, Paris 1948, pag. 113, 122).
Qual è l’ampiezza di questa "apertura" dello spirito? Quale è il termine ultimo di questo orientamento intenzionale che lo definisce come tale?
In quanto intenzionato alla totalità del reale, lo spirito umano è radicalmente disponibile ad una conoscenza e quindi ad un amore che non possono essere soddisfatti che nella visione dell’essenza stessa della Causa prima di tutto ciò che è. È importante notare che quando S. Tommaso parla di un "adpetitus naturalis vivendi Deum" presente nell’intelletto creato, egli intende descrivere la natura della intelligenza ("naturalis") non nel suo genere di facoltà, ma nella sua specie di intelligenza. È l’intelligenza come tale, in quanto intelligenza, che è intrinsecamente tesa alla visione di Dio. Questo "desiderio" non si aggiunge all’intelligenza già costituita, ma la costituisce come tale, anche se da sé sola non è e non può essere in grado di dare compimento a questo desiderio e, quindi, a se stessa. Ed ancora, questo desiderio è presente nella naturale apertura dell’intelligenza all’essere.
Il peccato fondamentale dello spirito creato è commesso, quando l’uomo distoglie l’intelligenza umana dal suo naturale orientamento all’essere, riducendo la coscienza dell’essere all’essere della coscienza. Nella qq. dd. de Veritate (q. 1, a. 2), S. Tommaso scrive: "res naturales, ex quibus intellectus noster scientiam accipit, mensurant intellectum nostrum… sed sunt mensuratae ab intellectu divino in quo sunt omnia creata, sicut omnia artificiata in intellectu artificis. Sic ergo intellectus divinus est mensurans non mensuratus; res autem naturalis, mensurans et mensurata, sed intellectus noster est mensuratus, non mensurans".
Il testo meriterebbe un lungo commento. Al nostro scopo è sufficiente notare che nella sua luce, possiamo definire quello che ho chiamato "il peccato fondamentale contro l’intelligenza umana" come la decisione base dell’intelligenza umana di costituirsi misura di tutte le cose e, coerentemente, di negare ogni trascendenza della verità nei confronti dell’intelligenza umana medesima. La meditazione metafisica di S. Tommaso richiama alla mente una pagina di S. Agostino, nella quale descrive la sua esperienza della conoscenza della verità.
"Admònituss redire ad memetipsum, intravi in intima mea duce te et potui, quoniam factus est aduitor meus. Intravi et vidi qualicumque oculo animae supra cumdem oculuss animae meae, supra mentem meam lucem incommutabilem… nec ita erat supra mentem meam, sicut oleum super aquam nec sicut coelum super terram, sed superior, quia ipsa fecit me et ego inferior, quia factus ab ea. Qui novit veritatem, novit eam" (Confessionum Lib. 7, 1&, 18; CSEL 33, 157).
Il peccato fondamentale contro l’intelligenza umana è di identificare la "lux incommutabilis" di cui parla Agostino, con la mente umana, negando che quella luce sia "supra oculum animae — supra mentem".
Possiamo ora definire rigorosamente il concetto di "conversione dell’intelligenza all’essere". Essa acquista significato nel contesto culturale attuale nel quale la vera tragedia dell’uomo è stato di aver commesso quello che ho chiamato il peccato fondamentale dell’intelligenza. La conversione di cui parlo è, semplicemente, il ritorno al realismo: il restituire l’intelligenza umana a se stessa, alla sua naturale vocazione di intelligenza dell’essere.
Perché questa conversione è la condizione fondamentale che rende l’intelligenza umana capace di pensare la verità del Dono?
Parlare di "condizione fondamentale" equivale, in questo contesto, a parlare di una "sintonia" che si istituisce fra l’intelligenza umana e la realtà del Dono: una sintonia che rende quella in grado di "ascoltare" la voce di Questo. Noi affermiamo che questa "sintonia" è posta in essere da quella conversione: sintonizzarsi al Dono è convertirsi all’essere.
La donazione ha una sua logica interna che ha il nome della pura gratuità. E se, negativamente, gratuità esclude qualunque necessità che fondi qualsiasi esigenza sia da parte di chi dona sia da parte di chi riceve il dono, positivamente gratuità significa decisione libera di voler bene-ficare chi riceve il dono, in ragione della bene-volenza che ha chi dona. È chiaro, allora, che la logica interna della donazione si identifica puramente e semplicemente colla logica interna dell’atto di amore. In questo senso, a ragione S. Tommaso ha potuto scrivere che il primo dono è precisamente l’amore stesso. Per questo, S. Paolo riconduce sempre tutta l’economia salvifica ad un atto di eterna e libera predestinazione ed elezione.
Come può una intelligenza creata, come quella umana, sapere la verità di questo primo dono che è l’amore stesso con cui Dio ci ha amati? Come può essa essere nella situazione di una intelligenza cui non sia estranea del tutto questa verità?
A guardare le cose con occhio semplice e profondo, noi scorgiamo un fatto: non c’è che un modo che renda possibile l’avvenimento della donazione da parte di chi ne è il destinatario, quello di "accettare il dono", di "consentire al dono". Al donatario non è chiaro di più di questo. Ed allora, all’intelligenza è chiesto solo di "lasciar accadere il dono". Ma che cosa in realtà significa questa disponibilità consenziente, dal punto di vista della facoltà intellettiva? Negativamente, essa significa che il Dono, la sua Verità, non è misurato dalla ragione dell’uomo (cfr. il testo del De Veritate) e questa esclusione avviene o può avvenire in due direzioni: la ragione non è misura del Dono, in quanto esso non viene immanentisticamente ricondotto alle esigenze del soggetto conoscente; la ragione non è misurata dal Dono, in quanto esso non viene pensato come momento risolutivo richiesto dalla evoluzione storica ed ad essa dovuto. Positivamente, essa significa che la ragione è — o vuole essere — puro seno che accoglie, pura passività che è aperta a ciò che è ("intellectus patiens"). È, in una parola, intelletto "convertito pienamente all’essere" e quindi capace di accogliere l’essere nel suo accadere e nel suo presentarsi. In questo senso, la conversione all’essere è l’unica condizione che rende possibile all’uomo di sapere la verità del Dono.
Metafisica e libertà di Dio
Se il sapere la verità del Dono è possibile solo ad un’intelligenza veramente convertita all’essere, questa conversione — da sé sola — non costituisce per sé se non l’attitudine a tale sapere, la capacità di tale sapere. Ma un’attitudine, una capacità deve essere messa in alto, perché dia i suoi frutti. Pertanto a questo punto si pone una seconda fondamentale domanda nel contesto del rapporto fra filosofia e teologia, una domanda che ora cercheremo di formulare.
Se la Verità del Dono deve penetrare nell’intelligenza umana, si dona a conoscere umanamente, questa penetrazione e donazione implica necessariamente un esercizio della ragione umana, la costruzione di una "visione" che, ispirata dalla Rivelazione, è, però, formalmente opera della ragione umana. Essa, pertanto, è costretta a ricorrere per il conseguimento di questo obiettivo a quelle conoscenze che essa ha potuto già raggiungere.
In questo incontro fra fede e ragione, le conoscenze razionali sono da considerarsi puramente strumentali ed, alla fine, quindi, indifferenti oppure la verità del Dono può essere saputa ed espressa solo se incontra una ragione che conosce con certezza alcune verità fondamentali? In altre parole: esiste una metafisica, ed una sola, che sia in sintonia con la verità del Dono? Oppure (il che è lo stesso): la verità del Dono implica una metafisica?
La prima riflessione che si impone al riguardo è che questa metafisica esigita dalla verità del Dono, deve essere tale da mettere al sicuro la gratuità-libertà del Dono da una parte e, dall’altra, la libertà di chi è il destinatario del Dono medesimo, cioè la persona umana. In altre parole: una metafisica che fondi la possibilità di una alleanza interpersonale fra Dio e l’uomo.
A me sembra che il primo ed originario fondamento di questa possibilità è offerto dalla Verità della creazione. È questo un punto centrale. Questa verità, infatti, mostra l’assoluta trascendenza di Dio nei confronti di ogni esistente creato e, dunque, l’assoluta libertà di Dio e al contempo, mostra la presenza di Dio in ogni esistente creato.
Ma, ciò che mi preme soprattutto di far notare è che dalla verità della creazione discende coerentemente una precisa metafisica dello spirito creato, come ha mostrato S. Agostino, per esempio nella sua opera De Genesi ad litteram. Quando il termine dell’atto creativo è uno spirito, un soggetto — qualcuno non qualcosa — questi è pienamente costituito, interamente "formato", quando conosce colla sua intelligenza e riconosce colla sua libertà quell’atto creativo che lo pone continuamente in essere. Questa conoscenza e questo riconoscimento comportano, implicano che lo spirito creato si conosca e si riconosca come Dono: ciò che egli è e il suo atto di essere sono dono dell’atto creativo di Dio. Da ciò deriva ancora che la verità di ciascuno di noi non è inventata dall’uomo, ma è donata da Dio stesso creatore. In questo senso, a ragione Newman poteva scrivere che la verità non si discute, la si venera, poiché essa non è al di sotto di noi, ma al di sopra. Quando una metafisica dello spirito creato è tendenzialmente portata a negare questa trascendenza della verità, identificandola puramente e semplicemente con l’auto-coscienza dell’uomo, essa non ha capito o ha già negato la verità della creazione. La verità di ciascuno di noi ci trascende, ma — nello stesso tempo — è immanente in ciascuno di noi: è noi stessi. Se, da una parte, esiste una "distanza", dall’altra, questa distanza deve essere superata, perché ciascuno di noi sia nella verità se stesso. Ed è in questo spazio, aperto dalla trascendenza della verità, che si colloca la libertà dell’uomo in relazione con la libertà dell’atto creativo di Dio.
Esiste una connessione inscindibile fra l’affermazione della trascendenza della verità e l’affermazione della libertà dell’uomo davanti a Dio: l’affermazione del "caso serio" della libertà umana. Noi siamo stati creati per ciò che Dio ha scelto per noi dall’eternità. Scegliendo la scelta di Dio, noi realizziamo la nostra verità e questa è la definizione stessa di libertà creata: con l’esercizio della mia libertà raggiungo la mia identità in Dio. Ho parlato del "caso serio" della libertà umana. In questa, infatti, sta inserita sempre la possibilità di non acconsentire alla verità: possibilità dovuta al fatto, ultimamente, che nella creatura libertà e verità non si identificano. Quando una metafisica dello spirito creato è tendenzialmente portata a negare la trascendenza della verità, essa è, inevitabilmente, portata a negare la priorità della verità nei confronti della libertà ("bonum praesupponit verum": S. Tommaso) ed a identificare l’una con l’altra. Ma, in questo modo, si fa solo una "retorica" della libertà umana, dal momento che questa diviene possibilità di tutte le possibilità e del contrario di tutte. È in realtà distrutto il "caso serio" della libertà.
Mi sono chiesto: quale metafisica è in grado di aprire lo spazio alla conoscenza della verità del Dono? In quale metafisica questa può radicarsi così profondamente da divenire conoscenza umana in grado di orientare l’uomo in modo tale che "nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia", come dice la liturgia? Posso ora tentare una risposta sintetica a questa domanda. Solo quella metafisica che sul fondamento della verità della creazione, afferma la trascendenza della verità nei confronti dello spirito creato e, conseguentemente, la costitutiva soggezione della libertà umana alla verità. Solo quella metafisica che, per l’affermazione della verità della creazione, è in grado di affermare razionalmente il rapporto Dio-uomo come rapporto di libertà. In una parola: la metafisica della creazione.
Vorrei ora concludere questo terzo punto della mia riflessione con due riflessioni.
La prima. Mi sembra facile notare lo stretto legame fra ciò che abbiamo chiamato la "conversione dell’intelligenza dell’essere" e la "metafisica della creazione". Infatti, la riflessione metafisica non è altro che l’esplicitazione consapevole e logicamente coerente dell’atto originario con cui l’intelletto "apprehendit ens", intuisce l’essere di ciò che è e ne resta stupefatto e meravigliato. Questa intuizione originaria, che apre lo spazio dell’essere, è il vero punto di partenza della metafisica propriamente detta. Certamente essa non costituisce ancora il sapere metafisico propriamente detto: ma questo non si costituisce che nella luce di quella originaria intuizione. Essa è preconcettuale nella misura in cui si produce in un atto di giudizio di esistenza che mette lo spirito in comunione diretta con l’atto d’esistenza di un esistente, e l’intelligenza costruisce il sapere metafisico in un ritorno continuo a quell’atto. Con questo atto si coglie un "mistero" — l’atto di essere — che, nella sua ricchezza, supera l’intelligenza e la spinge fino all’affermazione dello stesso essere sussistente, come Agostino ha mostrato in una pagina memorabile della sua Confessione (10, 6, 8).
La seconda. Quando il punto di partenza della riflessione metafisica è altro da questo, poiché lo si pone non nell’intuizione originaria dell’essere ma nel pensiero che pensa se stesso — non nel pensiero dell’essere ma nell’essere del pensiero —, allora la metafisica che ne nasce, se è ancora corretto parlarne, è una metafisica di esaltazione della soggettività creata, che diviene misura della realtà.
Se, ora, noi ipotizziamo il tentativo di costruire un sapere teologico mediante questa metafisica, il risultato sarà — anche se contro le intenzioni del teologo — lo svuotamento totale della verità cristiana come verità di un Dono fatto dall’Amore assoluto ed incondizionato del Padre. L’ingresso di questa metafisica nel pensiero cristiano costituisce l’unico vero suo pericolo mortale.
Infatti, qualunque cosa si dica sull’avvenimento del Dono, si dovrà sempre intendere sulla base ed alla luce del presupposto fondamentale di una determinazione antropologica del criterio veritativo della Rivelazione. Ogni proposizione rivelata è una proposizione indiretta. Ad essa, infatti, deve sempre premettersi la proposizione principale: "io penso che…", colla conseguenza che la verità non è da cercarsi direttamente e principalmente in ciò che afferma la proposizione indiretta, ma nell’io penso. La verità del Dono è determinata dall’autocoscienza del soggetto: il che equivale semplicemente alla sua distruzione.
A questo punto, credo che risalti in tutta chiarezza l’importanza per il pensiero cristiano che fra teologia e filosofia si istituisca un corretto rapporto. La correttezza del rapporto, dal punto di vista teologico, consiste essenzialmente in questo: che il sapere teologico non si autodistrugga nel momento stesso in cui si costruisce, ponendosi in un sapere metafisico incapace di sapere la Verità del Dono, da cui nasce il sapere teologico stesso.
Al filosofo come tale toccherà, a questo punto, mostrare come l’incapacità di una metafisica soggettivistica immanentista di sapere la Verità del Dono, semplicemente deriva dal fatto che è una metafisica falsa. Conclusione a cui anche il teologo giunge, nel momento in cui vede la contraddizione fra di essa e ciò che è l’amore del Padre che fa dono del suo Figlio Unigenito.
La cultura del nostro tempo e la riduzione della verità
Chi mi ha rivolto gentilmente l’invito a intervenire, non mi ha chiesto di parlare solo del rapporto filosofia-teologia, in se stesso considerato, ma di considerare questo rapporto come fatto di estrema importanza nella cultura europea contemporanea: in un certo senso, di situarne l’importanza in questo contesto culturale. È ciò che mi propongo di fare ora, anche se in maniera estremamente sintetica.
Guardando le cose in profondità, il problema del rapporto filosofia-teologia, o la soluzione che ad esso si dà, è un "luogo" fondamentale nel quale viene pensato il rapporto fra la fede Cristiana ed il significato ultimo dell’esistenza umana. Il testo di S. Tommaso da cui ha preso avvio tutta questa riflessione ha precisamente ridotto i nodi essenziali di questa problematica alla essenziale domanda sul senso ultimo della vita umana: se Dio ha chiamato l’uomo alla sua visione beatifica, l’uomo non può ignorare questa sua destinazione e solo nel Cristo può sapere l’intera verità su se stesso. E l’Europa ha saputo questa chiamata ed ha conosciuto questa verità, al punto che il Vangelo è divenuto una delle radici fondamentali della sua cultura. È per questo che dal modo in cui l’uomo europeo cerca di sapere questa verità dipende il suo destino.
Quale è esattamente la "posta in gioco"? Come ha ben mostrato J. H. Newman studiando la controversia ariana, ci sono due modi fondamentali di accostarci al Mistero Cristiano, il primo — quello che Newman vede incarnato nel movimento ariano — è caratterizzato dalla volontà di "ridurre" il Mistero dentro i confini della razionalità umana, intesa essa stessa riduttivamente come sorgente ultima costitutiva della verità (si veda soprattutto il cap. 20, sez. quinta, n. 4 della prima parte). Il secondo — quello che Newman vide incarnato nella dottrina e teologia nicena — è caratterizzato dalla volontà di accostare il mistero per esprimere la sua gratitudine al Dono e con chiara coscienza che le parole e i concetti umani sono inadeguati ad esprimere il Dono stesso. Il risultato dell’interpretazione ariana fu che il Cristianesimo fu ridotto a misura dell’uomo; il risultato dell’interpretazione nicena fu la "riduzione" dell’uomo alla misura del Cristianesimo. Non soltanto, ma Newman vide nell’arianesimo la prima perfetta espressione di ciò che egli chiamava il "principio liberale", distruttivo non solo del Cristianesimo, ma della religione come tale.
Il dibattito speculativo sui rapporti filosofia-teologia che è presente nella cultura europea dall’Illuminismo in poi è, in fondo, lo stesso nei suoi termini essenziali. Ed, allora, quale è la "posta in gioco"? È la specificità-originalità del Cristianesimo come rivelazione dell’Amore assoluto, incondizionato del Padre in Cristo e, correlativamente ma in secondo luogo, la verità ultima sull’uomo, la sua verità intera. È, in altri termini, se il Cristianesimo deve essere inteso e vissuto come elemento integrante di un progetto di uomo che l’uomo stesso costituisce e inventa (come accade nella teologia della liberazione) oppure se il progetto sull’uomo è costituito da Dio medesimo, creatore e salvatore. Tutta l’importanza della questione è, dunque, legata a questo: è la sorte stessa del Cristianesimo che è in questione.
Ciò che mi sembra importante sottolineare a questo punto è che il modo "ariano" di accostarsi al Cristianesimo è proprio di una ragione "ammalata" come ragione. Voglio dire questo: non è che nei due modi suddetti la ragione umana sia ugualmente retta, cioè fedele a se stessa e che il risultato sia diverso, anzi opposto, nonostante che si abbia in atto la stessa ragione. Al contrario: solo una ragione che ha tradito se stessa funziona nel primo accostamento. Per questo ritengo che il male primo di cui soffre oggi la nostra cultura sia un male metafisico, una crisi di verità, perché non sappiamo più la vocazione naturale dell’intelligenza all’essere. Ed allora non ci sorprende più che un filosofo cristiano possa scrivere: "I sistemi filosofici nascono nel tempo e nel tempo muoiono: il tempo è il modo di esistere di un sistema filosofico […]. Se volessimo assolutizzare un qualsiasi sistema di concetti della ragione naturale, innalzandolo al di sopra del tempo, disconosceremmo e non comprenderemmo il carattere storico della filosofia e del filosofare" (J. Tischner, I metodi del pensare umano, Bologna 1982, pag. 51). È uno dei segni della confusione in cui ormai si dibatte il pensiero cattolico contemporaneo il fatto che si possa scrivere questo e ritenersi filosofo cristiano, anzi filosofo semplicemente.
Come ho già detto, il vero problema per noi oggi è conversione dell’intelligenza all’essere, poiché solo questa conversione consente al cristianesimo di generare una cultura vera.
Che cosa allora fare? La crisi è talmente vasta e profonda che sarebbe illusorio ritenere di poterne uscire facilmente e in breve termine. Consentitemi alcune brevi indicazioni.
La prima cosa è che si costituiscano dei centri di ricerca, di studio, di meditazione nei quali si viva questa "conversione della intelligenza": nei quali la ragione sia restituita a se stessa. Centri di contemplazione metafisica e teologica.
La seconda cosa, ma non meno importante, è che nei centri di educazione cattolica si prenda chiara coscienza, e si agisca di conseguenza, che non qualsiasi uso della ragione è capace di sapere la verità del Dono.
Nella già citata opera, J. H. Newman concludeva la sua riflessione con queste parole: "Il predominio dell’eresia, per quanto prolungato, ha carattere solo episodico; essa velocemente si esaurisce, facendo trionfare la verità. "Ho visto l’empio in gran potere — dice il salmista — fiorire come un verde lauro; io gli sono passato accanto ed ecco era sparito: l’ho cercato, ma non lo si poteva assolutamente trovare in alcun posto". Così i pericoli attuali da cui è circondata la nostra Chiesa ricordano molto quelli del quarto secolo che, come lezioni offerteci da quel tempo antico, sono particolarmente gioiose ed edificanti per i Cristiani di oggi. Ora, come allora si avverte la possibilità futura, ed in parte la presenza, nella Chiesa, di un potere eretico che intende dominarla, esercitando un’influenza di varia natura".
Queste parole conservano la loro attualità. Ciò che preoccupa e spesso sconcerta nella Chiesa di oggi è il giudizio di non rilevanza decisiva che ha il problema di ciò che è vero e di ciò che è falso; nella coscienza di molti fedeli, la convinzione scandalosa che questo sia un problema secondario per la vita della Chiesa: la verità su Dio, la verità su Cristo, la verità sull’uomo. La convinzione che la gloria dovuta a Dio possa prescindere dalle convinzioni intellettuali che possiamo avere nei suoi confronti. Sembra che la testimonianza della verità sia già in partenza sommersa da una domanda condivisa da tanti "e che cosa è la verità?".
Ecco perché la Chiesa ha oggi più che mai bisogno di quei cristiani che — filosofi o teologi — facciano della ricerca o della testimonianza alla verità la loro stessa ragione d’essere. Consapevoli fino in fondo "veritatem esse ultimum finem totius universi" (S. Tommaso, Contra Gentes lib. I, cap. 1).
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