LIBERTA’ NELLA MODERNITA’: UNA PROMESSA MANCATA
Corso di aggiornamento Insegnanti di Religione
Scuole Medie e Superiori
2 ottobre 1997
La mia riflessione si propone di aiutarvi (modestamente) ad una
lettura ed interpretazione di quel vasto e complesso evento culturale denotato
dal termine modernità. Questa lettura-interpretazione è in
primo luogo un’esigenza della nostra persona, alla quale non possiamo sottrarci:
l’esigenza di veder chiaro, di conoscere la “casa” in cui abitiamo. E noi
siamo, abitiamo nella modernità, non solo ovviamente in senso anagrafico-cronologico.
Ma a sua volta, sapere dove abitiamo e in quale territorio è richiesto
in primo luogo all’educatore. Egli infatti è colui che aiuta, guida,
appunto educa un’altra persona a capire, interpretare il “mondo” in cui
vive.
Vi ho così tracciato il compito intero di queste riflessioni:
sapere dove siamo e dove andiamo per guidare chi arriva per la prima volta
e ci chiede dove è giunto.
Il titolo della mia riflessione implica per sé due grossi
temi o se volete, enuncia due tesi fondamentali. La prima: la chiave di
lettura della modernità è la libertà umana; la seconda:
dopo averne appresa la lezione è necessario prendere congedo dalla
(concezione di libertà propria della) modernità. Un congedo
a tutti i livelli: personale e comunitario; economico, sociale, politico
e pedagogico.
Tutto questo per dire come si svolgerà la mia riflessione.
Si svolgerà in due punti, in corrispondenza alle due tesi suddette.
Ovviamente, dato il tempo a nostra disposizione, il mio discorso sarà
molto essenziale.
1. Libertà e modernità. Vorrei che partissimo dalla considerazione
di ciò che “proviamo” dentro di noi, quando compiamo un atto libero.
L’atto libero è un inizio assoluto, così che ciascuno di
noi non “si sente” causa dell’atto con una causalità piena: è
il mio atto (di cui io rispondo); sono io che agisco. Proviamo a soffermarci
un momento su questa duplice dimensione dell’atto libero.
Parlare di “inizio assoluto” ha qui un significato assai preciso:
l’atto in questione non trova nessuna spiegazione sufficiente del suo porsi
né in ciò che lo precede né in ciò che lo segue.
Ho detto “sufficiente”, poiché ogni nostro atto libero è
sempre preceduto dall’attività deliberativa della nostra ragione.
Ma, come già annotava il poeta Ovidio, “vedo il bene o lo approvo
[ecco l’attività della ragione] e faccio il male”: la scelta non
trova spiegazione in ciò che la precede.
Questa proprietà dell’atto libero ci fa “sentire” causa di
ciò che operiamo in un modo unico. Certamente, anche quando compio
un atto di intelligenza, sono io che capisco. Tuttavia, sono mosso ad agire
(a capire) piuttosto che muovere me stesso ad agire.
La grandezza suprema della persona, la dimensione che la rende
più simile a Dio, è precisamente l’esercizio della sua libertà.
Ma è precisamente in esso (esercizio) che dimora la domanda ultima
sull’uomo: che senso ha l’essere liberi? perché sono libero? quale
è il significato ultimo del nostro essere liberi? A questa domanda
si possono dare due risposte contrarie (e quindi se è vera l’una,
è falsa l’altra). Prima risposta possibile: il significato ultimo
della libertà consiste nell’essere la persona umana chiamata a rispondere
ad un Tu che la chiama ad una comunione di Amore. Dunque: l’atto libero
ha la struttura intima di “risposta”. Ed in questo senso, la libertà
umana non è un primum: essa è preceduta (non cronologicamente)
da un Altro che la pone. Seconda risposta possibile: il significato ultimo
della libertà consiste nella libertà stessa. L’atto libero
non ha pre-supposti: è un primum. La modernità nasce quando
alla domanda sulla libertà e sul suo significato si risponde nel
secondo modo. In questo senso, la modernità trova nel progetto di
una liberazione totale della persona umana il suo fondamentale codice interpretativo.
Ora vorrei offrirvi alcuni spunti per la vostra riflessione al
fine di vedere alcune vie percorse da questo progetto. Così si capisce
meglio in che senso la libertà sia la categoria fondamentale della
modernità. Mi devo però limitare ad un aspetto della questione
che espongo subito.
Il progetto sopra enunciato, per realizzarsi, deve fare immediatamente
i conti con una serie di fatti che testardamente lo contestano. Come si
può dire che la libertà è un qualcosa che non ha pre-supposti,
un primum, quando tu già ti trovi di fronte ad una realtà
che non sei tu a porre, ma nella quale sei stato posto? Questa realtà
è la natura fuori di te; questa realtà è la natura
che è dentro di te; questa realtà sono gli altri che tu ti
trovi di fronte. In una parola: sei stato posto dentro l’universo dell’essere
che tu non hai posto. Il problema della modernità come problema
della libertà diventa il problema di poter disporre di ciò
che si presenta come pre-supposto alla libertà. La libertà
cioè è sentita come “potere di ...”, essendo prevalentemente
esperita come “libertà da ...”.
- Il rapporto uomo / natura è pensato come progressiva
conquista da parte dell’uomo della natura medesima, al fine di poterne
fare ogni uso possibile. La scienza moderna così intrinsecamente
connessa colla tecnologia esprime questo primo e fondamentale percorso
della modernità. Ad un rapporto tendenzialmente contemplativo subentra
un rapporto dominativo.
- Il rapporto uomo / corpo (o la natura che è dentro di
te) si configura in modo analogo. Non possiamo percorrere tutta la vicenda
vissuta dalla modernità nei confronti del corpo umano. E’ sufficiente
dire che il corpo è sempre più pensato come estraneo alla
costituzione della persona: la persona non è il suo corpo. E dire
che la significatività umana del corpo è annullata: è
la libertà che crea ed inventa il significato del corpo. Detto in
altri termini. Il “naturale” che è nell’uomo è a completa
disposizione della libertà: si pensi agli attuali progetti di ingegneria
genetica.
- Il rapporto uomo / uomo è pensato come la contrapposizione
di due libertà in linea di principio assolute, cioè senza
reciproci legami. (Al riguardo è assai significativo la “sorte”
della donna nella modernità: non abbiamo il tempo di fermarci).
L’unica “forma” di incontro possibile diventa il contratto, reso necessario
dal proprio interesse individuale. Il contrattualismo e l’utilitarismo
sono i due codici morali della modernità.
- Infine il rapporto originario uomo/essere è pensato come compito
affidato all’uomo di giustificare il reale, di darne ragione. La nascita
cioè dello spirito non è, come pensava Tommaso, la “simplex
apprehensio entis”. E’ una domanda: “perché esiste l’ente e non
piuttosto il nulla?” L’essere sarà alla fine ridotto alla coscienza
dell’essere.
Forse il manifesto più suggestivo della modernità
è pronunciato da Faust morente:
Aprirò spazi dove milioni di uomini/ vivranno non sicuri, ma
liberi e attivi. /Verdi, fertili i campi; uomini e greggi/ subito a loro
agio sulla terra nuovissima,/ al riparo dell’argine possente/ innalzato
da un popolo ardito e laborioso./ Qui all’interno un paradiso in terra,/
laggiù infurino pure i flutti fino all’orlo;/ se fanno breccia a
irrompere violenti,/ corre a chiuderla un impeto comune./ Sì,
mi sono votato a questa idea,/ la conclusione della saggezza è questa:
merita libertà e la vita solo/ chi ogni giorno le deve conquistare./
Così vivranno, avvolti dal pericolo,/ magnanimi il fanciullo, l’uomo
e il vecchio./Vorrei vedere un simile fervore,/ stare su suolo libero con
un libero popolo./ All’attimo direi: Sei così bello, fermati!/ Gli
evi non potranno cancellare la traccia dei miei giorni terreni. -/ Presentendo
una gioia così alta/ io godo adesso l’attimo supremo. (J.W.
Goethe, Faust Urfaust, vol. secondo, ed. Garzanti, Milano 1994, pag. 1041)
2. Una promessa mancata. Il testo di Goethe è assai fine: esso
è già percorso dal dubbio! Ecco infatti il commento di un
grande esperto:
“L’ultimo monologo riassume ancora una volta il credo di Faust. Questa
volta in una parola inequivocabile: libertà, che, come la vita,
va riconquistata ogni giorno. Per questo l’uomo deve restare eternamente
inappagato: se si fermasse, sarebbe schiavo (v. 1710).
Faust ha pronunciato le parole della scommessa (vv. 1699-1700)? Sì,
E no. Le ha pronunciate, ma ha premesso un condizionale: direi (v.11581).
Il tempo verbale, in una prima redazione al futuro (Werd’ ich sagen), venne
corretto da Goethe per maggior chiarezza. Ma il significato non cambia:
anche se Faust avesse detto «dirò», un futuro non equivale
a un presente, non è realtà ma desiderio, non è certezza
ma rischio, non è appagamento ma sogno, speranza o tutt’al più
presentimento.
Chi ha vinto la scommessa? Mefistofele, mente legalista e formale,
è ben sicuro di averla vinta lui. Faust, se fosse vivo, non esiterebbe
a considerarsi il vincitore.
Ma è morto, e l’ultima parola resta al diavolo, che trionfa
sul suo antagonista, concedendosi anche una sfumatura di compatimento.
(J.W. Goethe, Faust Urfaust, vol. secondo, ed. Garzanti, Milano 1994, pag.
1342)
La modernità è stata una promessa mancata? La mia
risposta è affermativa. Prima tuttavia di esporla, vorrei fare una
precisazione assai importante.
Dicendo che la modernità è una promessa mancata,
non intendo dire rozzamente che essa non ha aiutato l’uomo a raggiungere
dei “guadagni spirituali” che devono ritenersi definitivamente acquisiti:
basti pensare alla medicina e alla democrazia politica. Non sto facendo
cioè un bilancio nel senso di distribuire sui due piatti “pro” e
contra” la modernità, per verificare poi da quale parte si fissi
la lancetta. La mia domanda è più semplice e quindi più
profonda: una promessa di libertà, quale è stata fatta all’uomo
dalla modernità, è sensata oppure è una promessa che
non poteva essere mantenuta? E’ a questa domanda che rispondo, dicendo
che la modernità è una promessa mancata.
La modernità vive fino a quando, nonostante tutti gli
scacchi subiti, si continua a ritenere sensata quella promessa. La modernità
finisce quando si attribuiscono gli scacchi non alla difficoltà
insita nella realizzazione, ma alla insensatezza della domanda come tale.
Comincio col richiamare l’attenzione sul fatto che già
durante lo svolgimento della vicenda e dentro essa, alcuni grandi spiriti
avevano radicalmente rifiutato questo processo. Uno dei fondatori della
scienza moderna, B. Pascal, fu il primo critico della interpretazione scientista
della realtà. Il marchese De Sade ha già dimostrato in anticipo
dove portava quel modo di considerare il corpo. A. Rosmini fu un grande
critico della democrazia contrattualistica e utilitarista. E S. Kierkegaard
rimane il “profeta” vero della modernità come promessa che non poteva
essere mantenuta. Ma non è su questa linea che voglio continuare,
quanto piuttosto indicare il “vicolo chiuso” in cui sono finiti i quattro
percorsi di cui ho parlato nel punto precedente.
Il problema ecologico sta ad indicare che il rapporto uomo-natura
è arrivato a configurarsi in modo tale che esige di essere ripensato
integralmente. Certo: la soluzione non è il passaggio da una libertà
senza natura ad una natura senza libertà, come sembra proporre una
certa ideologia ecologica. Tuttavia l’aver tolto, in linea di principio,
ogni confine fra cultura e natura, ha finito per evacuare completamente
la soggettività umana.
Il vincolo chiuso in cui si è cacciato il rapporto della
persona col proprio corpo, quale si è andato configurando nella
modernità, è dimostrato e dalle difficoltà insormontabili
in cui si dibatte la bioetica dal punto di vista della meta-etica cui ispirarsi
e dalla dottrina etica della sessualità. Vorrei fermarmi un momento
a considerare questo secondo aspetto. L’etica contemporanea della sessualità
è caratterizzata da un sistema di sconnessioni, tutte generate dalla
separazione del corpo dalla persona o della spersonalizzazione del corpo
e correlativa scorporazione (disincarnazione) della persona. Esse (sconnessioni)
sono: la sessualità dall’amore (e reciprocamente); la sessualità
dalla fecondità (e reciprocamente). In una parola: esercizio della
sessualità e matrimonio non sono (non devono essere) correlati.
La prima sconnessione ha finito col ridurre la sessualità ad un
gioco o comunque ad un’attività che non implica per sé alcuna
serietà. Il rapporto della reciprocità originaria, quello
fra l’uomo e la donna, è pensato come una contrattazione nella quale
ci si scambia liberamente un bene di cui fornire per un certo tempo: il
proprio corpo. La seconda sconnessione ha condotto ad una effettiva de-responsabilizzazione
della persona nei confronti della propria sessualità, poiché
ha rinchiuso il soggetto sempre più ermeticamente dentro di sé.
Il rapporto uomo-uomo dominato dal codice morale del contrattualismo
e dell’utilitarismo, ha cacciato la società civile in una via lungo
la quale non può trovare che l’anomia profonda.
La convivenza civile oggi infatti si è veramente cacciata in
un vicolo chiuso. Diviene sempre più profondamente incapace di costruire
una vera comunità umana, di dare origine ad un popolo nel senso
forte del termine. Per quale ragione? per essersi costruita su una visione
della persona umana ridotta ad un individuo mosso ad agire solo dalla ricerca
del proprio utile. E’ questa riduzione che attiene sia all’essere dell’uomo
(la persona umana è considerata originariamente un individuo) sia
all’agire dell’uomo (l’individuo è mosso ad agire solo dalla ricerca
del proprio utile), a rendere impossibile una vera comunità umana.
Consideriamo in primo luogo la riduzione attinente all’essere
umano. Essa consiste nel passaggio, compiuto all’interno del percorso della
modernità, dalla definizione dell’essere umano come persona alla
definizione dello stesso come individuo. E’ una svolta davvero “epocale”,
della quale non ci rendiamo conto pienamente, tanto è vero che il
dire “individuo” o “persona” è per noi sinonimo. Ma c’è una
diversità sostanziale: anche le piante, anche gli animali sono individui,
ma non sono persone.
L’idea e l’esperienza di persona denota la realtà di un
soggetto che sussiste in se stesso (non come parte di un tutto) e per se
stesso (non finalizzato al bene di un tutto di cui egli sarebbe una parte).
Ma un soggetto che si trova originariamente, cioè per sua stessa
costituzione o natura, in relazione con le altre persone. A causa
di questa sua condizione ontologica, la persona, ogni persona è
irripetibile, non entra a far parte di nessuna serie. E’ la realtà
più perfetta, più preziosa che esista: il mondo intero vale
meno di una sola persona. Quando si riduce la persona a mero individuo?
Quando si nega che ogni uomo sia costituzionalmente o naturalmente in relazione
con l’altro; quando si nega che l’uomo sia capace di autotrascendersi,
cioè di cercare il bene dell’altro in quanto altro; e quindi si
affermano soltanto diritti e non doveri. Di conseguenza la società
non esiste e non è pensabile indipendentemente dagli interessi degli
individui: si sta assieme se, nella misura in cui e fino a quando ho un
interesse per farlo. La società umana nasce dal compromesso di interessi
opposti e la giustizia non è altro che una ragionevole composizione
di egoismi contrastanti.
Ci siamo già addentrati nella riduzione antropologica
attinente all’agire della persona. Essa consiste nel ritenere che
o comunque nel vivere come se, ciascuno sia mosso ad agire solo dal proprio
interesse individuale. Ad un esercizio della propria razionalità
teso alla conoscenza di un bene che è tale non solo per me, ma in
sé e per sé e quindi per ogni persona ragionevole, subentra
un esercizio della propria razionalità semplicemente auto-interessata.
In tale esercizio della propria razionalità può radicarsi
solo un esercizio della propria libertà governato non più
dalla c.d. regola d’oro: “fai all’altro ciò che vuoi che l’altro
faccia a te”, ma da quella che venne chiamata la regola di rame: “fai all’altro
quello che l’altro fa a te”.
Perché una tale visione è incapace di dare origine
ad un vera società umana, ad un popolo nel senso più forte
del termine? Perché il fatto umano originario che fa sì che
una moltitudine di persone diventi ciò che chiamiamo comunità
o società umana è che ciascuno sia capace di intravedere
e di volere un bene che sia veramente bene comune. Cioè: il bene
della persona umana come tale e quindi di ogni persona singolarmente presa.
Se questo “auto-superamento cognitivo (= non conosco solo i miei interessi)
e morale (= non voglio solo il mio bene proprio)” non fosse possibile,
saremmo inevitabilmente condannati ad una mera distribuzione di vantaggi.
Come non ricordare a questo punto il poeta Eliot? “Siamo gli uomini vuoti/
siamo gli uomini impagliati/ che appoggiamo l’un l’altro/ la testa di paglia”.
E siamo così arrivati al punto centrale che spiega il
mancato mantenimento della promessa della modernità: l’aver elevato
la persona, meglio il singolo a misura della realtà. In questa “opzione”
(poiché di questo si tratta) trovo la sua origine ultima, quella
perdita di ogni punto di riferimento, che caratterizza oggi il nostro
modo di vivere la nostra esistenza “eticamente neutra”.
Conclusione: congedarsi dalla modernità. Che sia necessario congedarsi
da questa vicenda, pochi oggi lo negano. Il problema è di capire
come congedarsi. Ci si può congedare in tanti modi: sbattendo la
porta; prendendo ciò che ci serve o altro ancora. Le difficoltà
anche pedagogiche in cui ci dibattiamo, nascono dal non aver ancora individuato
il modo con cui congedarsi dalla modernità.
Nella crisi della scuola si rivela oggi più che mai questa
situazione. Una scuola che, in quanto sistema formativo, non trasmette
più alcuna interpretazione sensata della realtà, è
già morta. E può trasmettere solo morte. La soluzione non
è di caricarla di altri compiti (l’educazione sessuale, alla salute,
civica e altro ancora), come se potessero essere svolti dalla scuola.
La vostra presenza è ormai l’unica offerta di una interpretazione
sensata e ragionevole della realtà.
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