LECITO E/O POSSIBILE
Incontro studenti Liceo “L. Ariosto”
Ferrara 22 novembre 1997
1. Vorrei cominciare col farvi prendere coscienza, più profonda
consapevolezza di una domanda che tutti ci portiamo dentro. Quella domanda
che dà il titolo a tutta la nostra riflessione: tutto ciò
che è possibile, è lecito? Lo faccio riferendomi ad un episodio
tragico in verità, nel quale forse la coscienza dell’uomo occidentale
per la prima volta si sentì trafiggere il cuore della propria esistenza
da quella domanda.
Socrate è in carcere, condannato ingiustamente a morte
e nella notte precedente alla esecuzione, viene visitato da un amico, Critone,
che gli fa una proposta: fuggire dal carcere e mettersi in salvo. La cosa
è “tecnicamente” possibile: i carcerieri sono già stati debitamente
pagati, cioè corrotti: al Pireo c’è già la nave che
lo porterà lontano da Atene. Si tratta ora di convincere Socrate.
Il dialogo costituisce il CRITONE, opera davvero straordinaria di Platone.
Quale è il nucleo della discussione fra i due? Eccolo in breve.
Critone sostiene che Socrate deve fuggire, perché il suo
rifiuto avrebbe conseguenze dannose sia per i suoi (di Socrate) figli sia
per i suoi amici (cfr. Platone, Critone, traduzione, introduzione e commento
di G. Reale, ed. la Scuola, Brescia 1981, pag. 19-21). Cioè: ciò
che decide se il possibile è anche lecito sono, alla fine, le conseguenze
del nostro agire, misurate secondo l’opinione della maggioranza. Alla domanda
quindi se tutto ciò che è possibile, è lecito, Critone
risponde: tutto dipende dalle conseguenze del tuo agire.
Socrate risponde che prima di chiederci, di verificare quali
sono le conseguenze delle nostre scelte, è necessario sapere se
ciò che facciamo è giusto o ingiusto (cfr. ibid. pag. 33,
c-d), poiché “non dobbiamo darci affatto pensiero di quello che
dicono i più, ma solo di quello che dice colui che si intende delle
cose giuste e di quelle ingiuste, e questi è uno solo ed è
la stessa verità”, dal momento che “non il vivere è da tenere
in massimo conto, ma il vivere bene” (ibid. pag. 31). Dunque, in questo
dialogo platonico è già posta la domanda di fondo: ogni nostra
azione è eticamente indifferente (fino a quando non ne prendo in
esame le conseguenze) oppure esistono azioni che in se stesse e per se
stesse sono sempre e comunque ingiuste? E’ la domanda centrale di tutta
la nostra riflessione di questa mattina.
Vorrei, prima di procedere oltre, richiamare la vostra attenzione
precisamente sul problema delle conseguenze del nostro agire. Quando diciamo
“conseguenze del nostro agire”, a che cosa pensiamo? Se riflettiamo
con attenzione, noi pensiamo quale utilità può avere ciò
che faccio (o quale danno può causare) oppure, noi pensiamo quale
piacere può provocare ciò che faccio (o quale dolore può
provocarmi). Pertanto, se noi pensiamo che la distinzione fra ciò
che è tecnicamente possibile e ciò che è anche lecito
fare, dipende dalle conseguenze, è come dire: è lecito ciò
che è utile e/o piacevole; è illecito ciò che è
dannoso e/o spiacevole. Dunque, Socrate ha torto: non esistono azioni che
in se stesse e per se stesse sono sempre e comunque ingiuste, ma solo azioni
utili o dannose, azioni piacevoli o spiacevoli. Proviamo ad ammettere che
questa riduzione del giusto all’utile e/o al piacevole, sia vera. La prima
conseguenza è che tutto il valore del nostro agire e quindi del
nostro vivere (non sto parlando del vivere, ma del vivere bene) e quindi
tutto il valore della nostra persona dipende dalle circostanze storiche
in cui ci troviamo a vivere. Siamo semplicemente e totalmente orme di sabbia
che l’onda del mare della storia fa e disfa, a suo piacimento. Infatti,
ciò che è utile oggi non necessariamente lo è domani;
ciò che è piacevole per me, non necessariamente lo è
per gli altri; ciò che è utile per me può essere dannoso
per un altro. Quindi delle due l’una: o si lascia ciascuno libero di perseguire
il proprio utile/piacevole oppure si viene ad una convenzione in forza
della quale si stabiliscono delle regole di condotta che rendano possibile
una coesistenza di opposti individui. Poiché ben pochi sono convinti
della verità della prima ipotesi, ne tralascio ora per brevità
la considerazione.
Vedete allora che chi accetta il criterio consequenzialista come
criterio di distinzione fra ciò che è possibile tecnicamente,
e ciò che è lecito, giunge coerentemente alla conclusione
seguente: i criteri per discernere ciò che è solo tecnicamente
possibile da ciò che è anche giustamente praticabile sono
quelli che vengono di volta in volta stabiliti per convenzione (o maggioranza).
Già Socrate aveva previsto questo: se si nega che esistono azioni
ingiuste sempre e comunque, è giocoforza cadere sotto il dominio
dell’opinione dei più, delle convenzioni sociali (cfr. op. cit.
pag. 31-32).
Ma viene da chiedersi: e in base a quale criterio devo accettare proprio
i criteri convenzionalmente stabiliti? Leopardi annotava acutamente nel
suo Zibaldone, che non esiste legge capace di obbligarmi alle leggi. Ma
soprattutto, non ci si può non chiedere: tutto l’umano è
materia di convenzione? oppure esiste una specie di “zoccolo duro”, non
contrattabile perché precisamente è la condizione che rende
possibile ogni ricerca seria di criteri?
Ecco siamo veramente arrivati al momento decisivo di tutta questa
nostra riflessione, che può essere semplicemente formulato così:
esiste o non esiste una realtà dietro la parola “persona umana”?
questa parola denota qualcosa anzi qualcuno che merita un rispetto assoluto
ed incondizionato oppure è un semplice flatus votis che riceve contenuto
dall’opinione dei più? Quando dico io o quando dico tu non dico
in realtà niente di reale oppure dico solo una conversazione sociale?
Vi dicevo che questo è il punto decisivo: da esso dipende il nostro
modo di essere liberi ed il significato che ha per noi l’essere liberi.
La libertà come esperienza di ciò che è vero e di
ciò che è bello oppure come esperienza di una scelta fra
ciò che è indifferente.
Ora capite il significato profondo dell’affermazione che esistono
azioni in se stesse e per se stesse sempre e comunque ingiuste. Esistono
azioni che sono tali in quanto negano la verità della persona: compiendole,
la persona deturpa se stessa. Se neghi che esita questo “se stessa”, per
ciò stesso neghi che esistano azione sempre e comunque ingiuste.
2. Alla domanda “tutto ciò che è possibile, è lecito?”
dunque rispondo negativamente, poiché ciò che è possibile
tecnicamente è anche giustamente praticabile solo se non nega la
verità della persona. A questo punto però sorge una domanda
di non facile soluzione: come posso sapere se una pratica scientifica nega
la verità della persona? Attraverso , fondamentalmente, l’uso della
mia ragione.
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