INGEGNERIA GENETICA: PROBLEMI ETICI GENERALI
7 novembre 1997
Vorrei iniziare la mia riflessione con alcune constatazioni molto semplici.
01. La discussione attinente alla procreatica artificiale ha
occupato uno spazio assai grande sia nell’opinione pubblica sia nella riflessine
dei teologi e filosofi. Non così grande interesse ha suscitato la
c.d. ingegneria genetica che resta ancora ampiamente assente da quella
riflessione. La cosa sconcerta: la procreatica artificiale riguarda un
numero non molto elevato di persone, l’ingegneria genetica può riguardare
potenzialmente tutti. E’ uno dei temi principali della bioetica futura.
02. Quando si affrontano temi come questi, è necessario
guardarsi da due attitudini che sono ugualmente irragionevoli, ed il nostro
primo dovere è di ... usare la nostra ragione. E’ irragionevole
ritenere che la ricerca scientifica sia a se stessa legge, che cioè
essa debba essere governata esclusivamente dal raggiungimento della sua
propria finalità: la eco emotiva di quest’attitudine è l’ingenua
esaltazione di fronte ad ogni nuova scoperta scientifica o risultato tecnico.
Ma è ugualmente irragionevole ritenere che in linea di principio
ogni “novità” sia da rifiutare: l’eco emotiva di questa attitudine
è una sorta di paura e di rifiuto immotivato. Che cosa dunque ci
è chiesto? Di “ricorrere alle risorse estreme della nostra ragione
morale per trattare questa che è la più delicata di tutte
le questioni in un’epoca in cui la teoria etica è purtroppo più
che mai insicura di se stessa” (H. Jonas).
03. Quale è questa più delicata questione, nata dal fatto
che la professione medica oggi si trova sempre più costantemente
a confronto colla genetica?
Vorrei fermarmi un momento nella risposta a questa domanda, non certo
per causare in voi nessuna delle due attitudini predette, ma perché
possiamo prendere coscienza del problema nei suoi termini reali. Quale
è il “nodo etico” di questa situazione dell’ingegneria genetica?
Questo. Mentre finora la tecnica aveva avuto a che fare con materie inanimate
(di solito metalli), dalle quali produceva mezzi non umani per l’utilità
dell’uomo, ora la persona umana stessa può essere l’oggetto diretto
della propria ingegneria, più precisamente la sua costituzione fisica
ereditaria. Tutto il problema etico dimora dentro a questo fatto. Ed io
questa sera vorrei riflettere brevemente, ma spero non superficialmente
sopra esso. Non posso cioè addentrarmi in tutti e singoli capitoli
di una bioetica della ingegneria genetica. Non è questo il luogo
per farlo. Mi limiterò a individuare alcuni criteri fondamentali
che devono guidare la soluzione di quei problemi.
1. Esiste uno “spartiacque” fra i vari modi di affrontare quel problema,
i modi di procedere alla sua soluzione e le soluzioni medesime offerte:
una sorta di “scriminante” che le colloca fin dal principio su due versanti
contrari. Questo “spartiacque” o “scriminante” viene alla luce quando cerchiamo
di rispondere alla seguente domanda: supposto che ora la persona umana
stessa può essere oggetto della sua propria ingegneria, in base
a quale criterio fondamentale si deve discernere un intervento da parte
dell’uomo sull’uomo “buono” da un intervento “non buono”?
La risposta che sembra essere oggi di fatto dominante è
la seguente: se le conseguenze prudentemente previste sono per il benessere
di un maggior numero di persone, la ricerca-sperimentazione-intervento
è da ritenersi ragionevolmente legittimato. Trattasi di un criterio
consequenzialista-utilitarista.
Consequenzialista: ciò che legittima l’agire del genetista
sono le sue (dell’agire) conseguenze. Utilitarista: le conseguenze di cui
si parla sono da pensarsi in termini di utilità-benessere di un
maggior numero di persone.
Questo criterio è ampiamente contestato e in quanto intende
esibirsi come esclusivo, rifiutato da chi si fonda nel suo discorso etico,
sull’affermazione del valore assoluto di ogni e singola persona umana.
In forza di questo valore, nessuna persona umana può di fatto essere
usata come semplicemente un mezzo per un qualsivoglia scopo, sia pure di
altissimo valore morale. La persona è elevata sopra ogni prezzo:
non può entrare in nessun calcolo di utilità anche per un
insieme di altre persone umane. Cioè: il bilanciare l’utilità
di uno contro l’utilità di più che uno, in humanis non ha
senso.
La ragione per cui oggi esiste una controversia bioetica così
profonda, è costituita dal fatto che la coscienza occidentale ha
smarrito l’unità nel criterio fondamentale di giudizio. Vive nel
contrasto fra il criterio utilitarista ed il criterio personalista. La
riflessione etica riguardante la genetica ha il merito di portare ormai
allo scoperto questa questione di fondo.
Non vi sembri che ci siamo allontanati troppo dalla nostra questione.
Ed infatti già da questa riflessione discende un corollario pratico
di fondamentale importanza.
Se si accetta come criterio di base il criterio personalista,
si deve concludere che ogni intervento deve avere una finalità terapeutica
attinente cioè al bene della persona su cui si interviene (cfr.
Giovanni Paolo II, All. del 29-10-1983), altrimenti è da considerarsi
illegittimo. Nella conferenza tenuta al CNR nel corrente anno, il prof.
Dallapiccola si muove su questa linea, quando scrive:
“Gli esempi sopra riportati dimostrano che la biologia molecolare sta
rivoluzionando la medicina. C’è da augurarsi comunque che queste
tecniche non prendano mai il sopravvento sulla clinica e si limitino a
svolgere il ruolo che loro compete, di semplici strumenti di diagnosi al
servizio della clinica. Tuttavia, la tipologia dei testi molecolari assegna
loro potenzialità che possono prevaricare i confini della medicina
tradizionalmente intesa”.
Se si accetta come criterio di base il criterio utilitarista,
non si potrà accettare coerentemente quest’esclusività della
finalità terapeutica o, il che equivale, la subalternanza della
biologia molecolare alla clinica.
Un altro corollario pratico è che l’affermazione e la
“tenuta” del c.d. principio dell’autonomia è pienamente coerente
con quello personalista, ma non con quello utilitarista. Il principio dell’autonomia
o della non-direttività significa e comporta la garanzia del rispetto
della libertà individuale.
Dunque: il problema etico dell’ingegneria genetica, più
di ogni altro capitolo della bioetica, pone allo scoperto ciò che
sta alla radice dell’attuale dibattito bioetico.
2. Esiste un’altra dimensione della problematica etica generale attinente
all’ingegneria genetica, strettamente connessa con quella precedente: è
la considerazione etica che si deve fare del corpo umano. La domanda è
grave: è il corpo un costitutivo essenziale della persona per cui
sono di fatto intercambiabili e mai separabili oppure è più
semplicemente un apparato materiale che è dato alla persona come
condizione dell’esercizio delle sue facoltà superiori? Nel primo
caso, il corpo è qualcosa che io sono; nella seconda prospettiva,
esso è qualcosa che io ho. Se nella coscienza personale, se nell’impresa
scientifica risulta dominante la seconda prospettiva, la domanda fondamentale
che manifesta compiutamente il rapporto col corpo, è la seguente:
che cosa posso farne? Tendenzialmente, la possibilità tecnica non
può più coerentemente subire limitazioni da parte di istanze
ad essa estranee, come è quella etica. Il tema della corporeità
che la cultura occidentale, da Platone in poi, si è portato dentro
come problema mai risolto, torna oggi prepotentemente ad imporsi. Ed infatti,
“è questa compresenza di soggettività e di oggettività,
di essere e di avere, ciò che costituisce il paradosso centrale
del nostro essere uomini” (P. Prini), mai pienamente riducibili né
a mero apparato organico né a mero spirito.
Ovviamente non è questo il momento, e non ci è
chiesto di farlo, di affrontare in sede puramente teoretica il problema
del corpo umano. Vorrei piuttosto proseguire, e ormai concludere, allo
stesso modo come ho fatto nel criterio etico fondamentale, di cui ho parlato
nel numero precedente. Vedere cioè subito come a seconda che prevalga
l’una o l’altra prospettiva sul corpo umano, muta l’approccio alla problematica
etica dell’ingegneria genetica.
La considerazione del corpo come apparato materiale a disposizione
della persona porta tendenzialmente ad un giudizio di disponibilità
del medesimo, in linea di principio illimitata. Conduce o meglio non è
escluso che conduca ad una sorta di biotecnologia totale. Se al contrario
prevale una considerazione del corpo-persona, il genetista ben difficilmente
si spingerà altre al fatto puramente negativo di correggere o preservare
da difetti ereditari. Prescindendo infatti da altre considerazioni etiche
anche più profonde, egli è consapevole di dover rispondere
a qualcuno su cui sta agendo e non solo di qualcosa che sta manipolando.
“Il dilemma morale di ogni manipolazione biologica sull’uomo che vada
al di là del fatto puramente negativo di preservare da difetti ereditari
è proprio questo: che la possibile accusa del discendente contro
colui che l’ha creato non trovi più nessuno che sia in grado di
rispondere e pagare e nessun mezzo di risarcimento. Questo è un
campo in cui si possono commettere crimini in completa impunità,
della quale gli uomini d’oggi - poi uomini di ieri - sono certi di fronte
alle loro future vittime. Questo, da solo, li obbliga (ci obbliga) a un’estrema,
scrupolosa cautela nell’applicare sull’uomo il potere crescente della biologia.
Qui è consentito soltanto preservare dalla disgrazia, non sperimentare
una nuova felicità. L’uomo, non il superuomo sia il fine. Benché
sia in gioco qualcosa di più grande e di metafisico, la semplice
etica della convenienza è sufficiente per proibire già agli
inizi la manipolazione dei genotipi umani; sì, per quanto male possa
suonare all’orecchio moderno: già nella zona franca della ricerca
sperimentale.” (Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi editore,
Torino 1997, pagg. 153-154).
Conclusione
Concludendo, consentitemi di leggere una pagina del Faust:
Aprirò spazi dove milioni di uomini/ vivranno non sicuri, ma
liberi e attivi. /Verdi, fertili i campi; uomini e greggi/ subito a loro
agio sulla terra nuovissima,/ al riparo dell’argine possente/ innalzato
da un popolo ardito e laborioso./ Qui all’interno un paradiso in terra,/
laggiù infurino pure i flutti fino all’orlo;/ se fanno breccia a
irrompere violenti,/ corre a chiuderla un impeto comune./ Sì,
mi sono votato a questa idea,/ la conclusione della saggezza è questa:
merita libertà e la vita solo/ chi ogni giorno le deve conquistare./
Così vivranno, avvolti dal pericolo,/ magnanimi il fanciullo, l’uomo
e il vecchio./Vorrei vedere un simile fervore,/ stare su suolo libero con
un libero popolo./ All’attimo direi: Sei così bello, fermati!/ Gli
evi non potranno cancellare la traccia dei miei giorni terreni. -/ Presentendo
una gioia così alta/ io godo adesso l’attimo supremo. (J.W.
Goethe, Faust Urfaust, vol. secondo, ed. Garzanti, Milano 1994, pag. 1041)
Il testo di Goethe è assai fine: pur nella esaltazione di un
progetto di liberazione totale, esso è già percorso dal dubbio!
Ecco infatti il commento di un grande esperto:
“L’ultimo monologo riassume ancora una volta il credo di Faust. Questa
volta in una parola inequivocabile: libertà, che, come la vita,
va riconquistata ogni giorno. Per questo l’uomo deve restare eternamente
inappagato: se si fermasse, sarebbe schiavo (v. 1710).
Faust ha pronunciato le parole della scommessa (vv. 1699-1700)? Sì,
e no. Le ha pronunciate, ma ha premesso un condizionale: direi (v.11581).
Il tempo verbale, in una prima redazione al futuro (Werd’ ich sagen), venne
corretto da Goethe per maggior chiarezza. Ma il significato non cambia:
anche se Faust avesse detto «dirò», un futuro non equivale
a un presente, non è realtà ma desiderio, non è certezza
ma rischio, non è appagamento ma sogno, speranza o tutt’al più
presentimento.
Chi ha vinto la scommessa? Mefistofele, mente legalista e formale,
è ben sicuro di averla vinta lui. Faust, se fosse vivo, non esiterebbe
a considerarsi il vincitore.
Ma è morto, e l’ultima parola resta al diavolo, che trionfa
sul suo antagonista, concedendosi anche una sfumatura di compatimento.
(J.W. Goethe, Faust Urfaust, vol. secondo, ed. Garzanti, Milano 1994, pag.
1342).
Probabilmente l’ingegneria genetica ha ogni giorno più
il merito di porci davanti il problema della legittimità di un uso
della nostra ragione al servizio di un processo di liberazione troppo utopico
per non lasciarci nel deserto di una delusione.
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