DOLORE, SOFFERENZA, MORTE: COME E PERCHE’ INTERVENIRE
Aula Magna delle Cliniche Nuove, Arcispedale S. Anna
19 settembre 1997
I tre termini presenti nel titolo generale di questo Seminario
vanno tutti nella stessa direzione di significato: denotano l’essere umano
come esposto continuamente alla sua fine. E’ una condizione che l’uomo
in parte condivide con ogni organismo vivente ed in parte vive in un modo
unico. “Solo l’uomo fra tutte le creature sa che deve morire, solo lui
piange i suoi morti, seppellisce i suoi morti, ricorda i suoi morti. La
mortalità è stata considerata a tal punto segno di riconoscimento
della conditio humana che l’attributo «mortale» è stato
monopolizzato per l’uomo” (H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi
del principio di responsabilità, ed. Einaudi, Torino 1997, pag.
206). Dunque: quando si parla di dolore, sofferenza, morte si deve sempre
essere consapevoli che si parla di una condizione che definisce la persona
umana come tale.
Queste semplici osservazioni introduttive sembrano talmente ovvie
da rischiare la banalità. In realtà esse ci indicano già
la risposta sintetica alla domanda centrale del nostro Seminario: “dolore,
sofferenza, morte: come e perché intervenire?”. La risposta è:
nel modo adeguato alla dignità di una persona umana. Le ragioni
(perché intervenire) e le modalità (come intervenire) sono
dettate dalla singolare preziosità di ogni persona umana. Ma forse
ancora una volta l’affermazione sembra talmente generica, ed anche ancora
una volta ovvia, da risultare scarsamente operativa per risolvere il problema
(o i problemi) che ci interessa questa mattina. Tuttavia non è affatto
così. Tocchiamo il nodo teoretico e pratico di tutta la questione
della pratica odierna sia della medicina che della infermieristica: esiste
un “proprium” della dignità umana, in forza del quale ogni singolo
essere umano ha in sé e per sé un valore incommensurabile?
Incommensurabile significa che non ha un corrispettivo con cui possa essere
scambiato, che non esiste uno scopo così grande da giustificare
l’uso anche di una sola persona come mezzo per raggiungerlo. Ora questa
affermazione di una dignità (così intesa) della persona umana
è stata in larga misura perduta oggi. “Quando dico «perdita»
intendo ovviamente alludere al fatto che il pensiero e la società
moderna non riescono più - al loro interno - a dare un contenuto
sostantivo, proprio (autonomo), e non omologabile ad altri esseri viventi,
della costituzione di ciò che è umano. Tutt’al più,
si prende atto di una «diversità», ma poi la relativa
dignità (e sostanza) è rimandata all’indeterminato, e trattata
sempre e solo come pura possibilità” (P. Donati, Pensiero sociale
cristiano e società post-moderna, ed A.V.E., Roma 1997, pag. 91).
Un’etica della professione sanitaria o nasce da una visione chiara della
dignità dell’uomo oppure finisce coll’essere ridotta a decisioni
puramente utilitaristiche.
Vorrei allora procedere, distinguendo la mia riflessione in due
punti (molto sinteticamente), cercando di indicare nel primo punto alcuni
elementi fondamentali che entrano nella costituzione della dignità
della persona, e nel secondo punto di individuare alcuni criteri operativi.
1. Quando si parla di dignità della persona umana (ammalata o
non), essa deve essere pensata almeno all’interno di tre coordinate.
1,1. L’uomo (e ciò che è umano) ha uno status diverso,
laddove comparabile, superiore rispetto agli altri esseri viventi. Cioè:
essere qualcuno è più che, è altro che essere qualcosa.
La trascendenza della persona è la prima e fondamentale coordinata
di un’affermazione della dignità della persona, che non voglia essere
vuota di senso. Le più recenti ricerche ai confini fra bio-genetica,
informatica e scienze della mente ne offrono più di una ragione.
Questa trascendenza impedisce ogni considerazione della persona
che la riduca ad oggetto di cui poter disporre, anche per i fini più
nobili.
1,2. La persona è essenzialmente segnata, fin dalla sua origine,
dalla reciprocità, cioè dal suo essere in relazione con altre
persone. La società umana non è solo ed esclusivamente un
artefatto umano. Essa è richiesta dalla stessa costituzione intima
della persona umana. La società umana, la creazione dei rapporti
con le altre persone umane non è solo frutto di contrattazioni:
essa risponde ad esigenze insite nella persona. Cioè: non ogni rapporto
sociale ha la stessa qualità. La sua qualità deve essere
misurata dalla sua capacità di far “incontrare” le persone. Questo
significa reciprocità.
1,3. La persona umana è segnata fin dal suo sorgere, dal non
appartenersi radicalmente. Non sei stato tu a decidere di esistere: la
vita è stata donata. Questa caratteristica della nostra vita indica
il carattere fondamentale che delinea quella reciprocità di cui
parlavo. Un carattere che può essere molto semplicemente indicato
nel modo seguente: così come è stata ricevuta, così
la vita chiede di essere donata. L’amore è la vocazione che struttura
l’essere della persona.
Trascendenza, reciprocità, amore sono le coordinate fondamentali
della dignità della persona umana. Le difficoltà profonde
di cui soffre la nostra vita quotidiana, nascono dalla progressiva “trasformazione”
di esse. Si nega sempre più l’esistenza di un confine fra l’umano
ed il non-umano; la reciprocità è sempre più intensa
come una contrattazione di tutto; la donazione è sempre più
sostituita dal calcolo di una “dare-avere” che deve sempre chiudersi almeno
in parità, in termini dei propri interessi individuali.
2. Vorrei ora individuare alcuni criteri che devono regolare le modalità
di intervento sulla sofferenza umana, criteri discendenti da quella visione
della dignità sopra appena schizzata.
Il caso della persona ammalata è particolarmente significativo
per il discorso che stiamo facendo. “Il suo stato fisico, la sua vulnerabilità
psichica, il rapporto di dipendenza dal medico, l’atteggiamento di arrendevolezza
e di interdizione che gli deriva dalla cura, tutto ciò che è
connesso con il suo stato d’animo e con la sua situazione fa del malato
una persona meno padrona di sé di quanto non sia la persona sana”
(H. Jonas, Tecnica ... cit. pag. 104). La “cura” dunque, la vigilanza cioè
per custodire nella relazione coll’ammalato il giusto riconoscimento della
sua dignità, deve essere costante nel personale sanitario. Mi limito
ad indicare alcuni “criteri di intervento” o, se volete, alcuni contenuti
di quella vigilanza di cui parlavo.
2,1. “Nel corso della cura il medico ha obblighi nei confronti del
paziente e di nessun altro. Non è l’avvocato della società
o della scienza medica o della famiglia del paziente o dei suoi compagni
di sventura o di coloro che in futuro soffriranno della stessa malattia.
Soltanto il paziente conta quando è affidato all’assistenza del
medico. Già secondo la semplice legge del contratto bilaterale (in
analogia, per esempio, al rapporto tra avvocato e cliente con il suo concetto
etico-professionale del «conflitto di interessi») il medico
è vincolato a non consentire che nessuno altro interesse entri in
competizione con l’interesse del paziente alla sua guarigione. Ma, evidentemente,
entrano in gioco regole ancora più elevate di quelle puramente contrattuali.
Possiamo parlare di n sacro rapporto di fiducia. In senso stretto il medico
è per così dire solo con il suo paziente e con Dio.” (H.
Jonas, Tecnica... cit. pag. 103).
E’ questo il significato profondo del detto: “secondo scienza e coscienza”.
2,2. La vita non deve essere prolungata ad ogni costo umano, sociale
ed economico. Da ciò derivano due sotto criteri.
(a) E’ lecito alleviare il dolore anche con analgesici che hanno
come effetto collaterale di abbreviazione la vita del paziente.
(b) La normale assistenza è in ogni caso dovuta, non cure
assolutamente straordinarie o sproporzionate per tenere comunque in vita
un paziente.
Conclusione
Ciò che tutti oggi percepiscono come esigenza prioritaria
è l’umanizzazione del rapporto col paziente. Esso resterà
mera utopia se non si ricupera una chiara visione della dignità
della persona umana ed una riforma vera della socializzazione della pratica
della medicina. Penso che siamo tutti consenzienti.
Ma una volta ammesso questo, rimane da chiedersi: chi in concreto
ha il dovere di umanizzare il rapporto col paziente? Ovviamente coloro
che vivono in primis questo rapporto. Senza una profonda educazione della
coscienza di ogni medico ed infermiere, si cadrebbe in una delle più
stolte illusioni: pensare che sia possibile un’organizzazione sociale così
perfetta da rendere superflua la virtù degli uomini.
Ma non solo. Esiste anche una responsabilità istituzionale.
Ma questo non è più materia del nostro Seminario.
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