Aspetti morali della regolazione naturale della fertilità e delle problematiche
connesse alle nuove tecnologie auto-diagnostiche
Milano 15 novembre 1997
La formulazione del tema indica chiaramente i due momenti in cui esso
deve essere svolto. Esso esige una riflessione generale circa il problema
morale della regolazione della fertilità ed una riflessione specifica
attinente alle nuove tecniche auto-diagnostiche. Saranno questi i due punti
del mio intervento.
1. Riflessione generale
La proposta di una regolazione naturale della fertilità,
quale viene fatta dalla Chiesa, ha conosciuto in questi ultimi trent’anni
(1968: pubblicazione di Humanae Vitae) una singolare vicenda che dona molta
materia di riflessione. Una vicenda che ha percorso, semplificando un poco,
le seguenti tappe fondamentali.
Una prima tappa è costituita dalla discussione sulla verità
di quanto insegnato da HV. Non è la verità dell’insieme,
dell’intero insegnamento sulla procreazione responsabile che è messo
in questione. E’ la verità della proposizione, formalmente insegnata
da HV, che afferma essere ogni e singolo atto contraccettivo intrinsecamente
illecito.
La seconda tappa è costituita da due eventi “teologico-antropologici”
di grande importanza per la vita della Chiesa. Il primo è stata
la progressiva radicalizzazione della contestazione ad HV. Essa non si
è limitata al tentativo di dimostrare falsa la proposizione centrale
di HV. L’argomentazione giunse alla formulazione di una complessa teoria
etica generale sulla base della quale non solo il singolo punto non trovava
più giustificazione razionale, ma l’insieme dell’etica sessuale
coniugale. Il secondo evento è stato il Magistero di Giovanni Paolo
II circa una vera e propria teologia del corpo umano, di cui la Chiesa
non era mai venuta in possesso prima. E’ così abbiamo assistito
ad un “confronto-scontro” fra due antropologie che generano due etiche.
Questa situazione ecclesiale ha trovato il suo sbocco finale nell’Enc.
Veritatis splendor e nel suo naturale completamento, l’Enc. Evangelium
Vitae.
La terza tappa è costituita più che da una tappa
propriamente detta, dallo sviluppo culturale (si fa per dire) accaduto
nel mondo, cioè nella società civile in cui la Chiesa ha
vissuto il suo approccio al problema della procreazione umana. I fatti
che hanno caratterizzato questo sviluppo culturale sono, mi sembra, fondamentalmente
due.
Il primo è costituito dalla progressiva disintegrazione
di quell’insieme, di quell’intero costituito dal rapporto sessualità-amore-matrimonio-procreazione.
Ciascun “elemento” è connesso all’altro e nel momento in cui uno
di essi viene estratto e compreso fuori dell’insieme, muta il significato
e del singolo elemento e dell’insieme.
Il secondo è costituito dalla progressiva conclusione
di quell’insieme suddetto dentro alla sfera del “privato”. Esso cioè
appartiene ai desideri dell’individuo, nei confronti dei quali è
impossibile esprimente giudizi che possano esibirsi come universalmente
validi. Ma nello stesso tempo si pensa sempre più “il pubblico”
al servizio del “privato”, essendo lo Stato concepito sempre più
come la coesistenza di opposti egoismi. Esso deve riconoscere come convivente
coniugale sia la comunità etero-sessuale sia la comunità
omosessuale; esso deve assicurare “il figlio ad ogni costo”, senza interferenze
nelle decisioni del singolo.
Mi sembra che questo sia la condizione in cui oggi si svolge
il vostro lavoro. Quale sono allora le principali implicazioni o i principali
aspetti morali di esso?
Presuppongo alcuni dati alla risposta che ora cercherò
di dare a questa domanda. Presupponendoli, mi esimo dal dimostrare, anche
se essi ovviamente stanno alla base e sono principio di ciò che
andrò dicendo.
Questi presupposti sono fondamentalmente due: la possibilità
di giungere ad una conoscenza sufficientemente certa dei giorni infertili/fertili
nel ciclo femminile, è ormai teoricamente dimostrata e praticamente
raggiunta; la proposizione che afferma l’obiettiva (ratione obiecti, cioè)
malizia dell’atto contraccettivo è da ritenersi quanto meno indubitabile
da parte del fedele cattolico. Su questi due presupposti non vado altre
al richiamo, dal momento che il primo appartiene alla scienza ed il secondo
è qui semplicemente dato per scontato. Ed ora cerco di rispondere
alla domanda.
In una situazione spirituale come la nostra, non è più
permesso dare per evidenti quelle percezioni che sono alla base di un consenso
interiore a quanto la Chiesa oggi propone. Il primo problema di un educatore
è di far scoprire la verità della proposta fatta. Essendo
una verità riguardante il bene della persona, consentirvi implica
un coinvolgimento totale della persona. Una persona che vive un esperienza
di profonda, interiore disintegrazione. La prima, fondamentale dimensione
morale di questa problematica è di mostrare la corrispondenza fra
la proposta e i desideri più profondi del cuore. E’ la pedagogia
del “maestro interiore”. Mentre prima della situazione attuale era forse
possibile dare per scontato questa “presenza dell’uomo a se stesso”, oggi
l’assenza della persona da se stessa (l’esteriorità di cui parlava
Agostino) le impedisce di cogliere quella corrispondenza. E questa spiega
molte difficoltà pratiche.
La difficoltà più seria, mi sembra, è duplice.
Da una parte la separazione presente nel vissuto di molte persone, del
corpo dalla persona e quindi, la difficoltà a vedere nel gesto sessuale
una significatività veramente ed interamente personale.
Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su un altro aspetto
della problematica. La seconda (non per importanza!) difficoltà
è costituita dalla scarsità (altri arrivano a dire: dall’assenza)
di educatori nella Chiesa. L’educatore è più che un maestro,
anche se non si può essere educatori senza essere maestri. La Tradizione
cristiana parla di paternità spirituale. Voglio fermarmi un momento
su questo punto: già il grande Newman aveva intravisto in questa
mancanza di educatori uno dei problemi centrali della Chiesa moderna. La
vostra proposta non si riduce all’insegnamento di alcune verità
sulla sessualità e sulla persona umana: in tal caso basterebbe insegnare
ad usare bene la propria ragione. Cosa assolutamente necessaria, ma non
basta. La vostra proposta non si riduce all’insegnamento di un insieme
di regole di comportamento: in tal caso basterebbe conformarvi le proprie
scelte. Cosa assolutamente necessaria, ma non basta. E’ un modo di vivere
la sessualità coniugale, che può essere soffocato o esternato
dall’orgoglio del cuore e da un’istintività ribelle. Un modo di
vivere: chi cerca di “imparare” un modo di vivere di solito non si rivolge
ad un professore; si rivolge ad uno che conosce per esperienza diretta
quel modo di vivere e sia capace di trasmetterlo. E’ la vita che trasmette
la vita: è una relazione umana nel senso intero del termine.
2. Riflessione specifica
Tenendo conto di tutto questo, possiamo ora passare ad una analisi più
dettagliata dei problemi morali legati alle nuove tecniche di auto-diagnosi.
Comincio da una riflessione generale. In sé e per sé
queste nuove tecniche non comportano particolari, meglio specifiche difficoltà
morali. Essi generano una conoscenza di cui posso fare buon uso (avere/non
avere figli quando è giusto avere/non avere figli) o fare cattivo
uso.
Tuttavia essi pongono in realtà problemi oserei dire più
profondi, sui quali assai acutamente ha attirato l’attenzione il dott.
Barbato nella sua introduzione.
Vorrei cominciare con un’osservazione generale. Una delle cause più
gravi dell’impoverimento spirituale, culturale, di cui soffre l’uomo oggi
nella civiltà occidentale, è di pensare che ci siano problemi
umani, profondamente umani, che siano risolvibili tecnicamente. Cioè,
risolvibili senza che ci sia bisogno di essere virtuosi, meglio di un esercizio
virtuoso della propria libertà. Si tratta dell’esito definitivo
di quel positivismo che è risultato di fatto vincente nella nostra
cultura. Questo esito consiste nella ricerca di una “meccanica dei valori
che sia in grado di liberare l’individuo dal fardello della scelta morale”
(P. Donati, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, ed.
AVE Roma 1997, pag. 323). E’ il tentativo permanente di “sgravare l’uomo”
dalla sua libertà. “Entriamo così nel nucleo stesso della
verità evangelica sulla libertà. La persona si realizza mediante
l’esercizio della libertà nella verità. La libertà
non può essere intesa come facoltà di fare qualsiasi cosa:
essa significa dono di sé. Di più: significa interiore disciplina
del dono” (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie 14,4).
L’arrivo e il mercato di questi nuovi strumenti di auto-diagnosi che
può raggiungere una fetta di popolazione che non ha mai avuto un
serio approccio antropologico ed etico al valore della procreazione responsabile,
pone un serio problema. E’ o potrebbe essere un’ulteriore spinta a quell’impoverimento,
anzi alla negazione pensata e/o vissuta della verità dell’amore
coniugale: la verità del dono di cui parlava il S. Padre.
Ed è a questo punto che emerge il danno umano causato dalla
mancanza di educatori da una parte, e dall’altra dal fatto che probabilmente
la diffusione di quei mezzi sarà affidata non a chi ha un approccio
“educativo” al problema.
Dunque, in conclusione, queste nuove tecniche sono un’ulteriore prova
di alcune necessità sempre più urgenti. La necessità
di una ripresa da non interrompere mai della fondazione antropologica della
dottrina della Chiesa; la necessità di preparare veri “educatori
alla verità del dono”, cioè alla libertà.
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