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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Relazione al SIMPOSIO INTERNAZIONALE “EVANGELIUM VITAE E DIRITTO”
VERITATIS SPLENDOR - EVANGELIUM VITAE: IL DESTINO DELL’UOMO
Città del Vaticano, 23 maggio 1996

La mia riflessione sul rapporto fra le due encicliche si limiterà ad una considerazione essenziale. Essenziale in due sensi: essa verterà solo su un “nodo” teoretico che reputo essere il punto di incrocio dei due documenti; essa si limiterà a riflettere su questo “punto di incrocio” in maniera molto scarna.

1. L’INCONTRO DELLE DUE ENCICLICHE

 Per cogliere nella sua rigorosa delimitazione ciò che ho chiamato “punto di incrocio” delle due encicliche, propongo di seguire il seguente cammino. Dapprima percorreremo, con un percorso teoretico interno al documento stesso, l’Enc. Evangelium Vitae (EV) nel suo, direi, svolgimento più “drammatico”. Lo stesso faremo con l’Enc. Veritatis Splendor (VS). Ad un certo momento, vedremo che i due percorsi si incontrano.

1,1. Fra i molti attentati contro la vita, di cui siamo testimoni oggi, due sono che, secondo EV, devono attirare la nostra attenzione soprattutto: gli attentati contro la vita che accadono nel contesto dell’inizio della vita e quelli che accadono nel contesto della fine della vita. Per quali ragioni questi attentati fanno maggiormente pensare? Perché inizio-fine della vita sono i due momenti in cui la libertà della persona è “sfidata” a compiere il suo atto, la sua scelta decisiva: la scelta di fronte a Dio. Questi  due momenti sono abitati da un mistero, sono luoghi sacri dentro questo mondo, nei quali è Dio stesso che si rende presente.
 L’inizio della persona umana, che coincide col suo concepimento, è effetto di un atto creativo di Dio: l’uomo e la donna pongono le condizioni della venuta all’esistenza di una nuova persona umana. Essi aprono solo lo spazio in cui Dio, se vuole, possa compiere il suo atto creativo. Questo evento, la consapevolezza di questo evento fonda la religione come tale, distinguendola da, e contrapponendola ad ogni forma di superstizione o magia. Il senso religioso si nutre del terreno di questa consapevolezza: la consapevolezza del proprio essere, come “essere dipendenti da un Altro”. Possiamo così capire perché l’inizio della vita umana, il trovarsi di fronte alla venuta nell’esistenza di una nuova persona umana provoca la libertà alla sua decisione più forte: quella di fronte alla ragione stessa dell’essere, al “logos” della realtà. Donde viene questa nuova persona? Se è il risultato casuale o necessario di eventi biologici, naturali ed impersonali, essa si riduce ad essere un “momento” di un processo, senza che ad essa possa essere attribuito un io personale ed eterno. La concessione all’uomo di un io eterno (la più grande concessione!) sta o cade assieme all’affermazione della dipendenza nell’essere da Qualcuno, non da qualcosa. L’affermazione della dignità della persona umana ha la stessa sorte dell’affermazione di Dio creatore. Infatti, o sono un io davanti a Dio o non lo sono per niente. Di fronte alla persona neo-concepita, di fronte alla persona neonata, arrivata fra noi, che chiede semplicemente di essere accolta, veramente ogni altra persona si trova posta direttamente di fronte al Mistero di Dio. Mai come in quell’incontro sono vere le parole di Gesù: “quello che avete fatto al più piccolo ... lo avete fatto a me”. E qui, si scopre il significato ultimo della giustificazione dell’aborto, compiuta nella cultura contemporanea.
Consentitemi di attirare la vostra attenzione sul fatto che non ho parlato semplicemente della pratica dell’aborto. Non intendo anzi parlare  di essa. Parlo della giustificazione dell’aborto, cioè di quel fatto “spirituale” che ha condotto a considerare l’aborto come un diritto, una facoltà cioè fondata sull’ordine della giustizia. Che cosa significa questo fatto, mai accaduto prima nella storia dell’umanità? E’ la prima radicale affermazione di un progetto di liberazione fatta coincidere con lo sradicamento della persona dall’essere. Ciò che voglio dire, e su cui ritornerò lungamente più avanti, è che la giustificazione dell’aborto costituisce il compimento di un percorso teoretico-esistenziale. Questo percorso nasce dalla decisione di consegnare l’uomo esclusivamente a se stesso.
 Ma tutto questo si illumina ulteriormente meditando sull’altro estremo della vita: il suo termine, la sua morte. Qui si pone in maniera ancora più provocante la domanda posta all’inizio della vita: quell’essere finito che è la persona umana trova in se stessa la giustificazione  del proprio essere o fuori di essa? In sostanza, il problema posto dall’evento dell’inizio e dall’evento della fine della vita umana è quello di scegliere fra l’auto-giustificazione o l’etero-giustificazione del finito. Nessuno più di Dostojevskji ha visto che questo era il problema posto dalla morte: da chi dipende il morire? E nello stesso tempo nessuno più di lui ha capito che il morire dipende dallo stesso da cui dipende il vivere. Sradicare la persona dal Mistero che dimora in essa, significa soprattutto giustificare il suicidio, anzi nobilitarlo come scelta della vita, della qualità della vita: è l’uomo che deve giudicare quando la sua vita è degna di essere vissuta o non. E questa è la definizione precisa di eutanasia.
 Aborto ed eutanasia, o meglio legittimazione dell’aborto e dell’eutanasia hanno lo stesso significato, perché hanno la stessa origine spirituale. E’ su questa origine che vorrei ora riflettere brevemente.
 Essa potrebbe essere descritta come il progetto, ora giunto al suo compimento, di affermare la persona umana come soggetto la cui definizione originaria e completa è la libertà di scelta. E’ necessario insistere su quella duplice qualificazione. Originaria: niente e nessuno sta prima della libertà di scelta: completa: la persona è costituita interamente dalla sua libertà.
 Volendo addentrarci più profondamente in questo progetto, vediamo che esso si nutre di tre avvenimenti spirituali che lo hanno costituito. In primo consiste nel negare l’orientamento dell’intelletto alla verità. La vita spirituale, continua a ripetere S. Tommaso, nasce con l’apprehensio entis e si nutre continuamente in esso. E’ negato che la coscienza sia originariamente coscienza dell’essere riducendosi l’essere alla coscienza. L’idea di verità è qui colpita alla radice e sostituita dal consenso. Il secondo avvenimento spirituale è costituito dalla conseguente costruzione di un’esperienza di libertà che non si fonda più su nulla se non su se stessa: è auto-fondantesi. E’ essa che costituisce puramente e semplicemente l’esistenza umana. Il terzo avvenimento spirituale è costituito dall’esito finale di tutto questo processo: l’elevazione dell’utile e/o del piacevole ad unico criterio di libertà e di verità. Vi era un solo modo di “togliere” (aufheben, in senso hegeliano) l’inizio e la fine della vita. Affermare che di essi è padrone assoluto l’uomo. Cioè: che di fronte ad essi, la libertà è “indifferente”, dovendo essa decidere autonomamente. E siamo precisamente all’aborto come “auto-determinazione” ed all’eutanasia come “scelta di vivere o non”.
 Quale è stato l’esisto finale di questo progetto? Il puro sensualismo permissivista. L’ “isolarsi da ogni oggettività, da ogni realtà esistente indipendentemente da noi, questo staccamento ha lanciato l’uomo contemporaneo in un’atmosfera ludica nella quale l’unico criterio di oggettività è lo stato d’animo dell’individuo”

1,2. Vorrei ora, ma più brevemente, percorrere un cammino teoretico dentro V.S.
 E’ stato giustamente osservato che il nucleo dottrinale più importante di VS è costituito dall’affermazione dell’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, vale a dire nel sostenere che ci sono comportamenti concreti che sono moralmente cattivi “sempre e per sé, ossia, per il loro oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze”(VS 80). Questo insegnamento sembra, ad uno sguardo superficiale, di poco conto alla fine. In realtà trattasi di un punto di centrale importanza. Di qui inizia il nostro breve percorso teoretico dentro V.S.
 Occorre partire da una idea centrale nell’ antropologia tomista: l’agire libero è la perfezione della persona (actus secundus). Anzi in Tommaso è costante l’affermazione che ogni essere è in vista del suo agire. Insomma, l’agire libero è la pienezza dell’essere personale. Che significa allora quell’insegnamento di VS? Quale è la sua portata? “Nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell’uomo, della sua verità”. (VS 83,1).
 Infatti, l’affermazione dell’esistenza di atti intrinsecamente cattivi implica una certa definizione di libertà, costituita (la definizione) nel suo rapporto colla verità. Che cosa significa “atto intrinsecamente cattivo”? Significa atto che nega l’essere stesso della persona umana in quanto esso è conosciuto dalla ragione pratica dell’uomo. Si ha qui un plesso, una connessione teoreticamente inscindibile di essere (della persona), verità (conosciuta dalla ragione pratica) e libertà. Ed è questo “plesso” che costituisce, mi sembra, il “nucleo essenziale” di VS, nella affermazione della reciproca appartenenza di essere-verità-libertà, un’appartenenza che si afferma e si nega precisamente nell’agire, cioè nella nostra storia quotidiana e nella nostra cultura. Ma forse è meglio che procediamo più analiticamente.
 Ciò che viene qui affermato è che l’essere della persona è dato alla libertà della stessa, nel senso che questa può far essere la persona, dal momento che (prima) la ragione lo ha conosciuto. La libertà non è quindi auto-origine, cominciamento da se stessa, puro ed assoluto inizio, che nulla e nessuno precederebbe. La sua radice sta nell’essere conosciuto dalla ragione pratica, cioè nella verità.
 Con ciò non è tolto valore supremo (ripeto supremo), alla libertà, poiché è essa che ha in suo potere di “far essere” la persona o di negarla. Anzi solo la salvaguardia del plesso “essere-verità-libertà”, quale è affermato da VS, ridona supremazia alla libertà.
 Infatti, se esistono atti intrinsecamente ingiusti, allora è riconosciuto alla libertà un potere negante e, per contrarium, un potere affermante illimitato. Sul piano morale la libertà può “nientificare” la persona, introducendo nell’esistenza con l’atto libero, una privazione di un bene che avrebbe dovuto esserci, ossia il male. Ferisce l’essere più degno che esista, la persona. Così come la libertà possiede il potere di “far essere” la persona, compiendosi questa con quell’atto che le conferisce pienezza  di essere, cioè con l’atto moralmente buono.
 Se invece tutto viene sospeso alla libertà, e questa non ha altro fondamento che se stessa, essa finisce col perdere ogni valore. Se niente è differente, ma se tutto ed il contrario di tutto ha uguale valore, allora alla fine niente è differente e tutto è indifferente; allora non esiste contrarietà e tutto è uguale. E’ come se uno cominciasse a cucire, ma si fosse dimenticato di fare il nodo in fondo al filo! L’esistenza è un gioco.
 Non è difficile vedere, a questo punto, che quel plesso su cui si regge VS di essere-verità-libertà è esattamente il contrario speculare di quel “progetto di liberazione” di cui ho parlato, ripercorrendo EV. Questo progetto è precisamente  l’espulsione dall’esperienza umana del plesso essere-verità-libertà, attraverso la negazione della naturale intenzionalità dell’intelletto all’essere, la negazione che esista un primum nei confronti della libertà di scelta ed infine la nobilitazione del desiderio o interesse dell’individuo come unico criterio di azione. La prima negazione espelle l’essere (della persona) dalla coscienza, riducendolo ad “essere di coscienza”; la seconda espelle la verità dalla definizione di libertà; la terza finisce coerentemente col togliere alla libertà ogni serietà, riducendola alla mera ricerca di ciò che mi è utile o mi piace.

 Ho concluso il primo punto della mia riflessione. Ci eravamo chiesti: dove si incontrano EV e VS? La risposta è la seguente. Si incontrano nella difesa ed affermazione della persona umana, minacciata oggi da un progetto che ha distrutto la “dimora” della persona: la Verità che fa liberi.

2. CHRISTUS HODIE: VERITATIS SPLENDOR E EVANGELIUM VITAE

 Siamo al punto ormai in cui all’uomo è posto una alternativa inevitabile: o arrivare ad una totale auto-distruzione consumata in un gioco leggero oppure alzarsi per incontrarsi col Vangelo della libertà e della vita vera. E’ in questo contesto che la Chiesa deve in primo luogo annunciare il Kerigma evangelico.
 Vorrei a questo punto citare due testi di importanza centrale. “Il Vangelo della Vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù” (EV 29,2). “Bisogna però che noi ... non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso” (VS 83,2). Dunque: il Vangelo della vita è la persona stessa di Gesù: Egli è affascinante splendore della Verità. La soluzione vera della condizione in cui è andato a cacciarsi l’uomo oggi, è solo ed esclusivamente  l’incontro con “l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso”.
 Due sembrano essere oggi, soprattutto, i tentativi di vivere questo incontro, le strade disegnate per giungere a questo incontro, e che al contrario non concludono a nulla.
 La prima è la riproposizione di una tentazione che il cristianesimo si porta sempre dentro, fin dal principio, la tentazione gnostica. Con essa intendo quella tendenza a porre la salvezza dell’uomo fuori dalla storia, che è irrimediabilmente perduta, fuori da questo mondo che non è affetto ridemibile. A porre la salvezza in una sorta di “illuminazione-esperienza-evasione” interiore. Ciò che qui è tolta, è la fisicità, la concreta storicità dell’incontro salvifico della persona.
 La seconda è la via pelagiana, via che non è mai stata definitivamente sconfitta nella coscienza della Chiesa. Essa pensa che esiste un solo modo di incontrarsi con “l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso”, quella di imitare la sua vita, di agire come Lui ha agito.
 Guardando le cose più in profondità, si vede che le due strade nascono da una certezza più o meno consapevole: che oggi  Cristo, nella sua persona, non è più incontrabile, che la sua persona appartenga al passato. Christus heri, e non hodie. Penso che esista una profonda connessione fra il quadro che ho delineato nel primo punto, la situazione spirituale contemporanea alla luce di EV e VS, e la “dimenticanza” della presenza attuale di Cristo, l’assenza di un incontro reale non colla sua dottrina, ma colla sua Persona. Vorrei ora mostrare brevemente questa connessione, alla luce di alcune riflessioni di Pascal.
 La separazione della conoscenza dell’uomo dalla conoscenza di Dio, dell’esperienza che l’uomo ha di se stesso dall’esperienza di Dio, fa perdere all’uomo la consapevolezza di essere un io eterno: genera nell’uomo una sorta di disprezzo di se stesso. La separazione della conoscenza di Dio, dell’esperienza di Dio dalla conoscenza, dall’esperienza che l’uomo ha di se stesso, genera nell’uomo medesimo evasione ed alienazione da se stesso. E’ necessario tenere assieme le due conoscenze-esperienze: è necessario conoscere, incontrare Gesù Cristo, nel quale vedi chi è Dio per l’uomo e chi è l’uomo per Dio.
“In Lui, che è la Verità, l’uomo può comprendere pienamente e vivere perfettamente, mediante gli atti buoni, la sua vocazione alla libertà”. Solo così, si può rispondere alla domanda inevasa sulla libertà, che la modernità ha posto alla Chiesa. Poiché, questa è stata la sfida rivolta alla Chiesa e rimane il grande compito lasciato da svolgere: capire che cosa significa essere liberi.
“Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita” (EV 25,3). Solo nel sangue di Cristo l’uomo ha la conoscenza della verità e del valore della sua persona.
 Ma ciò che è centrale, ciò che definisce lo statuto stesso dell’esistenza cristiana è che l’uomo, oggi, “può comprendere perfettamente ... la sua vocazione alla libertà” e capire “come sia inestimabile il valore della sua vita”, solo se vive l’incontro col Cristo che oggi è presente nella sua Chiesa. Non si tratta di rielaborare una dottrina sulla libertà e sul valore della vita: è ormai troppo tardi per dare questa risposta. Essa ormai cade in un terreno che non è più neppure capace di intenderla. Si tratta di ricostruire dei veri luoghi in cui sia dato all’uomo di oggi, che non è né disperato né allegro, ma solamente annoiato ed indifferente, di vivere l’esperienza della Chiesa che è il Christus hodie. Se non vado errato, questo è il senso ultimo del giubileo 2000: Christus heri, hodie, ipse ed in secola.
 

CONCLUSIONE

 Terminando questa lunga riflessione, mi sono chiesto se non era possibile sintetizzarla in un qualche evento della nostra vita quotidiana: un evento che fosse e semplice e portatore del senso di tutto ciò che ho detto. E mi sono visto davanti agli occhi della mente il semplice fatto di un neo-nato che è entrato in questo mondo. Che cosa in fondo egli chiede? Che gli si dica semplicemente che è bene che sia venuto, che è bene che ci sia. Di fronte a lui il primo atto non deve essere di dubitare se è un bene o no che ci sia, ma semplicemente di affermare che è il ben-venuto.
 In questo sta tutta l’origine del nostro vivere bene o del nostro vivere male: partire dall’evidenza dell’essere, dal fatto cioè che l’essere ci è dato nell’atto del pensare, come qualcosa di originario che non ha bisogno di ulteriori giustificazioni; oppure partire dal dubbio che l’essere abbia in sé e per sé la sua giustificazione e così assumersi l’enorme peso di giustificarlo o rifiutarlo. Il neo-nato sta lì, di fronte a ciascuno di noi, segno di contraddizione che svela i segreti del cuore, proprio come Colui che si è identificato sempre col più piccolo.