home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Vangelo della vita e cultura della morte
Torino, 15 febbraio 1992

Il Vangelo della Vita e le insidie di una cultura di morte

Il modo con cui è stato formulato il tema della nostra riflessione suggerisce subito l’esistenza di un dramma. Ne indica chiaramente "i personaggi": Il Vangelo della Vita e una cultura di morte. E la trama della tragedia: si tratta di uno "scontro", ma di uno scontro non in campo aperto, non ostentato, si tratta piuttosto di uno scontro condotto con insidie, qualcosa di sottile, di mascherato. A me è chiesto questa sera di riflettere su questo evento drammatico. Lo farò, parlandovi prima delle "personae dramatis" (e questo sarà il primo punto della mia riflessione), poi, in secondo luogo, dello scontro fra i due personaggi e del campo in cui questo scontro accade (e questo sarà il secondo punto della mia riflessione) e in conclusione del suo esito.

1. Personae dramatis: Vangelo della vita - cultura della morte

Per capire profondamente che cosa sta accadendo, è necessario in primo luogo che noi abbiamo una percezione netta del Vangelo della Vita e di una cultura di morte. Questo primo punto della mia riflessione ha semplicemente il compito di aiutarvi a raggiungere questa percezione.

1. 1. Il Vangelo della Vita

"Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se ha meritato di avere un tanto nobile e tanto grande Redentore, se Dio ha dato il suo Figlio, affinché egli, l’uomo, non muoia, ma abbia la vita eterna. In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè Buona Novella. Si chiama anche cristianesimo" (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 10). Ecco: nel suo nucleo essenziale si ha qui la configurazione del Vangelo della vita, nella sua dimensione oggettiva-divina e nella sua dimensione soggettiva-umana.

Il Vangelo della vita è in primo luogo un atto di Dio stesso: una sua decisione che prende corpo in una precisa storia concreta, la storia umana del Figlio fattosi uomo. Di fronte ad un uomo che è caduto in una corrente d’acqua ed è incapace di nuotare e quindi destinato a morte sicura, chi sta sulla riva può fare tre cose per salvarlo. O gli insegna come si fa a nuotare, nella speranza che abbia il tempo di impararlo e la forza di farlo. O gli getta una corda sperando che possa prenderla ed abbia la forza di tenerla stretta fino alla riva. Oppure, infine, si getta egli stesso nella corrente, lo stringe con tutta la sua forza e lo trascina a riva, sperando che egli non si divincoli.

L’uomo, ciascuno di noi (come vedremo meglio in seguito), si trova immerso nella corrente che lo trascina a morte sicura, incapaci come siamo di nuotare. Dio non si è accontentato della riva della sua beata e sicura eternità di insegnare all’uomo, a ciascuno di noi, come si fa a nuotare, quale è la via della salvezza. Nella sua disperazione, l’uomo non aveva né il tempo di sentire questa dottrina, né la forza di metterla in pratica. Dio non si è neppure accontentato di lanciare nell’acqua una corda di salvataggio: l’uomo, ciascuno di noi è troppo stanco per aggrapparsi. Dio si è buttato in acqua. Ha condiviso la nostra condizione di disperati e votati alla morte. Ha lasciato la sua riva, beata e ferma, e si è immerso nelle nostre acque infide e travolgenti. Ha stretto a sé l’uomo ("con la sua Incarnazione il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo") e lo ha trasportato sulla sua riva: sulla riva della sua eterna beatitudine. "O ammirabile scambio. — esclama la Liturgia cristiana — Il Creatore ha preso un’anima ed un corpo ed è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d’uomo ci donò la sua divinità" (Ottava del Natale, II Vespri, 1a Antifona). Il dono della sua divinità, l’arrivo della "terra ferma" dell’Essere e della Vita, accade precisamente, originariamente nel fatto del suo divenire uomo. Non ci ha insegnato a nuotare; ci ha liberati dalle acque.

Che cosa ha spinto Dio a prendere questa decisione così singolare? Esiste, cioè, una "ragione" in tutto questo, una ragione che lo renda in qualche modo "intelligibile"? "Cur Deus homo"?, è il titolo della grande opera anselmiana. È rischioso cercare una risposta alla domanda di intelligibilità. La tentazione infatti latente è quella di giungere ad una "spiegazione" che giustifichi con ragioni necessarie e necessitanti ciò che è semplicemente accaduto: Dio si è gettato in acqua per liberarmi. E lo stesso Abramo direbbe a questo punto: "Se hai capito, allora non è più Dio che hai capito". E, dall’altra parte, la Rivelazione tutta esclude che ciò che è accaduto, sia accaduto solo per caso. Né casuale, né necessario. Che cosa allora? Semplicemente, la gratuita necessità dell’amore è la spiegazione di ciò che è accaduto.

L’intima intelligibilità, l’intrinseca ragione della decisione divina di lasciare la Sua riva, prenderci e trasportarci all’altra riva, si pone oltre la dialettica necessità-casualità. È l’intima intelligibilità, l’intrinseca razionalità dell’amore: è ciò che da Agostino in poi, la tradizione cristiana chiama l’ordo amoris (si veda il libro di R. Bodei Ordo Amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, il Mulino, Bologna 1991. È un libro degno di essere meditato, anche se spesso discutibile). È l’ordine proprio dell’amore. Solo chi almeno una volta ha sperimentato l’amore, capisce ciò che sto dicendo.

L’espressione di questa "logica", la sua più perfetta espressione è la passione di Cristo: una passione perfettamente inutile, cioè non-necessaria. "Una sola goccia del suo sangue può salvare il mondo intero" scrisse S. Tommaso. "Nimia charitas" dice S. Paolo: amore eccessivo. Amore cioè che eccede, sorpassa, supera ogni regola razionale; che spezza ogni misura creata. E tuttavia c’è in questa scelta della passione una ragionevolezza, una sapienza nascosta, dice S. Paolo, così forte da rendere stolta ogni saggezza umana.

Questa stessa logica, la logica della gratuita necessità dell’amore, si mostra anche nel fatto che questo amore ha in se stesso, ed esclusivamente in se stesso, la sua ragione d’essere. Ciò che spinge Dio a prendere la decisione di cui stiamo parlando, non è qualche supposto merito o diritto ad essere liberato, presente in chi sta annegando. La gratuità è mancanza di motivazione estrinseca dell’amore come tale: chi ha lavorato una sola ora si vede ricompensato come chi ha lavorato un’intera giornata. Egli può fare del Suo ciò che vuole: "tale è… il grande favore ingiusto / della mia grazia eternamente giusta" (Charles Peguy, Il mistero dei Santi Innocenti, Jaka Book, p. 404).

Ho cercato di balbettare qualcosa sul Vangelo della vita, considerato nella sua dimensione oggettiva, cioè sul Vangelo della vita in quanto esso consiste in atto di Dio medesimo. È la decisione del Verbo di farsi carne per liberare l’uomo, mosso da niente altro se non da un’inspiegabile amore, condiscendenza verso l’uomo stesso.

Vorrei ora dire qualcosa sulla dimensione soggettiva del Vangelo della Vita: considerarlo dal punto di vista dell’uomo. Nella coscienza dell’uomo si accende una luce che genera uno stupore immenso: sorge la consapevolezza della dignità della propria persona (e di ogni persona) e lo stupore di fronte ad un’inspiegabile grandezza.

La consapevolezza della propria dignità, come ha finemente osservato Sören Kierkegaard, dipende dal "referente" con cui ci misuriamo. Se una persona ritiene che il suo valore dipenda da ciò che possiede, se misura se stesso con il metro dei beni che possiede, allora anche la misura della sua dignità è limitata, condizionata. Il suo medesimo "se stesso" possiede una misura limitata. Il Vangelo della vita confronta l’uomo e lo misura con una misura infinita. È l’amore gratuito di Dio che sente, di cui si sente il termine, che gli svela la misura di se stesso, la condizione della sua dignità. Sorge la coscienza di essere in possesso di una dignità infinita e se ne stupisce. Se ne stupisce, poiché vede "quale valore deve avere… davanti agli occhi del Creatore" se Questi ha inviato Suo Figlio in una carne simile alla nostra. E lo stupore genera una certezza: che ora è possibile la beatitudine, poiché è possibile "passare dall’altra riva". Lo stupore genera il gusto di vivere.

Possiamo sinteticamente concludere la descrizione del "primo personaggio del dramma", il Vangelo della Vita, nel modo seguente. In Cristo e per Cristo, Dio si è rivelato pienamente all’uomo e si è definitivamente avvicinato a ciascun uomo. Nello stesso tempo, in Cristo e per Cristo, l’uomo ha acquistato piena conoscenza e coscienza della sua dignità, della sua singolare preziosità, dell’incondizionato valore della sua persona, del senso della sua vita.

1. 2. La cultura della morte

La S. Scrittura, nel libro della Sapienza (1, 16), parla di persone che ritenendo amica la morte, "si consumano per essa, e con essa concludono alleanza, perché sono degni di appartenerle" (letteralmente, di essere la parte di essa). Penso che sia difficile fare una presentazione più semplice e più profonda del secondo "personaggio del dramma", della cultura della morte. È la cultura che ha concluso alleanza con la morte, ritenendola amica dell’uomo, anzi ritenendo se stessi eredità ad essa dovuta: degni di essere sua parte di eredità. Il volto di questa cultura è così perfettamente delineato.

Essa nasce dalla consapevolezza, che si radica nel cuore dell’uomo, che l’uomo è degno di appartenere alla morte: che questa appartenenza definisce l’identità della persona. Si faccia bene attenzione. Non si tratta né di disperazione né di rassegnazione. La "cultura della morte" si limita a constatare. Si censura ogni domanda riguardante il "prima" e il "dopo" dell’arco temporale di questa esistenza. La domanda sul "prima": da dove veniamo? chi/che cosa sta all’origine del suo esserci? La domanda sul "dopo": dove andiamo? verso chi/che cosa siamo incamminati come meta definitiva? sono ugualmente giudicate o prive di significato veritativo o, se ne hanno uno, l’uomo non può rispondervi. È il rifiuto di guardare in faccia il proprio destino, di nominarlo: ci si limita a parlare di caso o di necessità come spiegazione del tutto.

Il rifiuto di guardare in volto il proprio destino coincide con la negazione esistenziale di Dio, che è il carattere tipico dell’ateismo contemporaneo. Esso infatti, consiste nel dire semplicemente: "che Dio esista o non esista, non è poi cosa tanto importante, dal momento che nell’uno o nell’altro caso non cambia nulla della mia esistenza". E l’esito è precisamente di ritenere di essere eredità data alla morte: "sono degno di essere la parte di essa". Un esito che si esprime nel nichilismo, la forma più alta dell’auto-meschinizzazione: fare quello che pare e piace, dal momento che tutto è uguale, poiché nulla vale. Un esito che si esprime nel relativismo, la forma più alta della sterilità spirituale: tutte le opinioni meritano rispetto, dal momento che tutte hanno lo stesso valore. Un esito che si esprime nella presunzione, la forma più alta della stupidità umana: io dipendo esclusivamente da me stesso. La coincidenza della consapevolezza di appartenere alla morte con la negazione esistenziale di Dio si esprime nel nichilismo, nel relativismo, nella presunzione propri della cultura della morte.

L’appartenenza, o meglio la coscienza dell’appartenenza, genera l’alleanza. Dice, infatti, il testo della Sapienza: "e con essa concludono alleanza". In che cosa consiste, cosa significa quest’alleanza che la cultura stringe con la morte? Possiamo comprenderlo partendo da un famoso pensiero di Pascal: 268 (157) La grandezza dell’uomo. - La grandezza dell’uomo è così manifesta che la si inferisce perfino dalla sua miseria. Infatti, ciò che è natura per gli animali, noi lo chiamiamo, nell’uomo, miseria; per quanto riconosciamo che, poiché la sua natura è oggi simile a quella degli animali, è decaduta da una natura migliore, che un tempo era la sua.

Infatti, chi si considera infelice di non essere re, se non un re spodestato? La gente considera forse Paolo Emilio infelice perché non era più console? Al contrario tutti lo consideravano fortunato di esserlo stato, poiché la sua condizione era di non esserlo sempre. Ma si considerava Perseo così sfortunato di non essere più re — poiché la sua condizione era di esserlo sempre —, che si considerava strano che sopportasse ancora la vita. Chi si considera infelice per aver solo una bocca? Chi non si considererebbe infelice di avere solo un occhio? Forse non è mai venuto in mente di affliggersi perché non si hanno tre occhi, ma non ci si da’ pace a non averne.

"269 (394) Tutte queste miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di grande signore, miserie di un re spodestato".

Ci sono, dunque, due modi di considerare le nostre miserie e di farne una diagnosi: le nostre miserie sono tutte naturali; le nostre miserie non sono naturali, ma sono di origine libera. La loro sorgente è la natura; la loro sorgente è la libertà.

Riconosciamo subito che ciò di cui si sta parlando è la verità del peccato originale. Non a torto, Pascal ha visto profondamente che questo era un nodo dello scontro, del dramma di cui stiamo parlando. Se l’uomo ritiene che le sue miserie, anche la più grande di tutte, la morte, siano un fatto naturale e, dunque, inevitabile, due sono gli atteggiamenti possibili nei loro confronti.

Il primo atteggiamento. Esso nasce da un disprezzo totale della natura, cosiffatta cioè così male fatta e nel segno (gnostico) di una distruzione totale di questa natura, di questo mondo, per la creazione di un mondo del tutto nuovo, di una nuova natura umana. Si crea cioè una sorta di "amicizia con la morte" come via di liberazione. Dostoevskij ha descritto in pagine mirabili questa sorta di auto-esaltazione mortale, di auto-distruzione che prova il rivoluzionario. Ma più oggi sono disposti a credere in un tale sogno.

Esiste un secondo atteggiamento. Poiché queste sono miserie naturali, esse sono ineliminabili ed invincibili: su tutto dice l’ultima parola la morte. Non si ha più il rifiuto disperato, ma l’accettazione, appunto una specie di alleanza con la morte. Essa è ritenuta l’ultimo senso di tutto e, pertanto, ciò che fa perdere valore definitivo ad ogni realtà.

Si ha, nell’uno come nell’altro caso, una vera e propria alleanza con la morte: la morte come liberatrice dal male e/o come ostetrica di una esistenza nuova: la morte come rivelazione della nostra verità ultima, della nostra identità: niente di niente.

Esistono dei segni di questa alleanza che la cultura ha stretto con la morte: segni che nella loro spaventosa ambiguità possono comprendersi solo nel contesto di questa alleanza. Questi segni sono: la droga e l’omosessualità. La droga è la ricerca della morte per raggiungere la vita, l’amore dell’autodistruzione come gestazione di un’esistenza diversa. L’omosessualità è la più radicale separazione che si possa pensare e vivere fra sessualità e dono della vita. Ed ora abbiamo il suggello definitivo di questa alleanza. Presso ogni cultura non alleata con la morte, il sangue e il sesso sono i simboli reali fondamentali della vita e della gioia. Nella nostra cultura alleata con la morte, essi (sangue e sesso) sono diventati i veicoli della morte nell’AIDS.

Dobbiamo ora interrompere la descrizione del "secondo personaggio" del dramma, la cultura della morte. In sintesi, il secondo personaggio può essere presentato nel modo seguente. L’uomo appartiene radicalmente alla morte e niente/nessuno può vincerla. La nostra esistenza deve allearsi con essa, accettandone la legge: la distruzione/negazione della presenza di un senso nella realtà.

Ecco abbiamo schizzato il volto dei due personaggi del dramma: Dio e la morte; il Vangelo della vita e la cultura della morte. Nel punto seguente, dobbiamo ora descrivere lo scontro drammatico fra queste due realtà: è il dramma vero e proprio; è l’azione drammatica.

2. Lo scontro fra Vangelo della vita e cultura della morte

È importante che individuiamo il luogo in cui lo scontro avviene, il dramma si compie. Questo scontro avviene in primo luogo nel cuore dell’uomo, di ogni uomo e, quindi di conseguenza nella società umana: l’uomo che porta dentro di sé questo dramma, da’ origine ad una società drammatica.

2. 1. Il dramma si consuma, in primo luogo, nel cuore di ogni persona

È la dimensione del dramma che troviamo già descritta nel libro della Genesi (3, 1-7): è l’originario scontro che ciascuno di noi ritrova in se stesso, nelle profondità del suo essere personale, ogni giorno.

(A) Se facciamo bene attenzione alle parole del Tentatore, che è la perfetta incarnazione della cultura della morte, esse si costruiscono attorno ad un "non è vero che…": lo scontro avviene a livello, per così dire, veritativo. La cultura della morte insidia il Vangelo della vita partendo sempre dallo sforzo di allontanare l’uomo dalla verità del suo rapporto con Dio Creatore. È l’intelligenza umana la prima dimensione della persona ad essere insidiata ed è nell’intelligenza che Vangelo della vita e cultura della morte si affrontano.

L’ingresso nella vita è l’atto di fede: "chi crede in me non morirà in eterno" e l’ingresso della morte è il rifiuto o, almeno, l’allontanamento dalla verità contenuta nella Parola di Dio, nel Verbo, mediante il quale è stato creato.

Se, infatti, l’uomo si allontana da questa verità, è come scardinato dall’essere, manca della terra solida sulla quale poggiare i suoi piedi. Bisognerebbe a questo punto leggere molte pagine dei due più grandi diagnostici del nostro tempo, Kierkegaard e Nietzsche.

"Non pregherai mai più, non adorerai mai più, non riposerai mai più in una fiducia senza fine — è questo che ti neghi: fermare il passo davanti a un’ultima saggezza, a un ultimo bene, a un’ultima potenza, e togliere i finimenti ai cavalli dei tuoi pensieri — non c’è un assiduo custode e amico per le tue sette solitudini — tu vivi senza la vista delle montagne, che portano neve sulla cima e ardori nel cuore — non esiste per te nessuno a retribuirti e a correggerti in ultimo appello — non esiste più nessuna ragione in ciò che accade, nessun amore in ciò che ti accadrà — più non si dischiude al tuo cuore un asilo di pace, in cui ci sia soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo contro una qualsiasi ultima pace, tu vuoi l’eterno ritorno di guerra e pace: uomo della rinuncia, in ogni cosa vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza!" (F. Nietzsche, Idilli di Messina. La gaia scienza - Scelta di frammenti postumi - Mondadori, Milano 1971, p. 158).

In sostanza, quando un uomo si chiede seriamente se esista o no una verità sull’uomo, se la progettazione della propria esistenza è necessariamente confrontata con un significato o fine che precede e giudica la progettazione stessa oppure tutto è esclusiva creazione dell’uomo: allora, in quel momento, nel cuore di quell’uomo, il Vangelo della vita si sta scontrando con la cultura della morte. Il Verbo, fattosi uomo, testimonia questa verità e l’uomo, nel cui cuore la cultura della morte ha già seminato la sua insidia, dice: "e che cosa è la verità?". Fede ed incredulità: fede come assenso alla Verità - incredulità come allontanamento dalla Verità. È il primo atto dello scontro che avviene nel cuore di ogni uomo, fra Vangelo della vita e cultura della morte.

(B) Il secondo atto è già implicito nel primo e ne è uno sviluppo coerente. Se la persona si radica, si incardina nella Verità del Verbo che crea e salva, essa si colloca in un’attitudine di profonda obbedienza all’essere amato. Nella misura, cioè, in cui ogni essere partecipa della bontà e bellezza del Creatore. È l’ordine dell’amore: l’amore che è ordine e l’ordine che è amore. Se, al contrario, la persona si sradica, si scardina dalla Verità del Verbo che crea e salva, essa si colloca in una profonda attitudine di disobbedienza. Le parole della tentazione, l’insidia della cultura di morte inducono alla trasgressione del limite creaturale: assai più profondamente della negazione del limite stesso. Quale limite? "quando voi ne mangereste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come dei, conoscendo il bene e il male". È il limite che rimane invalicabile alla volontà e alla libertà dell’uomo, come essere creato. Dio creatore è infatti l’unica e definitiva fonte dell’ordine morale del mondo da Lui creato. La cultura della morte insidia l’uomo, ogni uomo, convincendo l’uomo a diventare fonte autonoma ed esclusiva nel decidere del bene e del male. L’autonomia ella morale, l’affermazione che è l’uomo, la sua coscienza a decidere in ultima istanza ciò che è bene e ciò che è male sono le insidie della cultura della morte al Vangelo della vita.

(C) Il terzo atto è descritto stupendamente da Kierkegaard nel suo capolavoro filosofico La malattia mortale, con le seguenti parole:

"Quell’io che egli disperatamente vuole essere, è un io che egli non è (perché) voler essere l’io che non è, in verità è proprio il contrario della disperazione: cioè il disperato vuole separare il suo io dalla potenza che l’ha posto. Ma questo, nonostante tutta la sua disperazione, egli non lo può fare; nonostante tutti gli sforzi della disperazione, quella potenza è più forte di lui e lo costringe ad essere quell’io che egli non vuole essere. Ma allora è pur vero ch’egli vuole sbarazzarsi di se stesso, di quell’io che egli è per essere quell’io che egli ha escogitato… il tormento di non poter sbarazzarsi di se stesso" (trad. di Cornelio Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 629).

Fin che l’uomo rimane dentro questo scontro e non accede al Vangelo della vita, si trova a vivere nella falsità. Vuole essere ciò che non è; non vuole essere ciò che è. È una condizione di paranoia spirituale, di divisione interiore. Essa ha un nome: disperazione.

Chi ha saputo descrivere meglio questa situazione di disperazione, non poter essere ciò che si vuole perché si vuole essere ciò che non si è, è stato Agostino, nella fine analisi che egli fa del famoso furto delle pere (cfr. Confessioni 2. 4, 9 - 6, 14).

"Il prigioniero voleva imitare una libertà monca… con una tenebrosa similitudine di onnipotenza? Eccolo: questo servo fuggitivo dal suo padrone, che ha raggiunto un’ombra! O putredo, o monstrum vitae et mortis profunditas".

2. 2. L’estensione dello scontro nella società

Ma questi tre atti del dramma, dello scontro fra il Vangelo della vita e la cultura della morte non accadono solo nel cuore dell’uomo: nella sua intelligenza, nella sua volontà, nella sua esistenza. Questo scontro avviene anche nell’ambito della società. Anche nella società umana si consuma lo scontro drammatico fra Vangelo della vita e cultura della morte. Cerchiamo ora di descrivere brevemente lo scontro "sociale" che rispecchia perfettamente lo scontro nel cuore umano.

(A) A me sembra che, a livello sociale, l’insidia della cultura della morte al Vangelo della vita consista in primo luogo nell’elevazione del consenso maggioritario a criterio di verità e quindi nell’educazione intesa come rispetto di tutte le opinioni. O forse meglio: nel "convenzionalismo" come criterio ultimo e nel "liberalismo teoretico" come progetto educativo globale. In ogni modo, tento di spiegarmi.

Già Platone aveva visto chiaramente che esistono due modi fondamentali per concepire la giustizia e di conseguenza l’assetto giuridico-istituzionale della società umana. E lo sviluppo successivo del pensiero occidentale non ne ha individuati altri al di fuori di quelli. Ciò che è accaduto è che essi sono stati pensati in maniera più o meno sofisticata.

La prima visione della giustizia è la convergenza di interessi opposti. E pertanto la società umana dovrà realizzarsi, assettarsi giuridicamente-istituzionalmente in modo tale che siano assicurate regole procedurali che consentano ad ogni interesse opposto di porsi e di cercare una convergenza. Riflettiamo brevemente, ma seriamente su questa definizione di giustizia e di società giusta.

Si noti fin dall’inizio, poiché questo è di decisiva importanza teoretica, che non esiste e non può esistere una "convergenza" diciamo "ideale", dal momento che gli "interessi" dell’uomo mutano continuamente e non si può mai ipotizzare in che cosa e come questi interessi si oppongano. Detto in altro modo, è ovvio che gli interessi dei singoli non possono essere sottoposti ad un giudizio razionale che ne affermi la verità o la falsità. Essi sfuggono, per la loro natura stessa, alla possibilità di questo giudizio: sono dei fatti ed i fatti sono semplicemente constatabili. Chiedersi: "è giusto avere questo desiderio, questo interesse? È giusto volerlo accontentare?" è semplicemente privo di senso. Ecco perché non può mai esistere una "convergenza ideale".

Tuttavia ci sono almeno due ragioni che costringono ogni individuo a tener conto degli altri: lo scontro fra interessi e la limitazione delle risorse a disposizione. Ed è per questo che si ha la necessità di trovare un punto di convergenza: questa ricerca è la ricerca della giustizia. Ed è a questo punto che vediamo in azione un altro principio fondamentale in questa visione della giustizia.

Poiché non esiste possibilità di dare un giudizio di valore sui vari interessi opposti e quindi non esiste la possibilità di istituire un’obiettiva gerarchia di valori fra essi, l’unica condizione necessaria e sufficiente per il raggiungimento di una convergenza è che ciascuno possa affermare il proprio interesse, nel dialogo con l’altro, fino a che si arrivi ad un consenso. Si dovranno quindi creare le condizioni necessarie e sufficienti perché sia possibile questa comunicazione. La giustizia è dunque esigenza procedurale, non sostanziale. Qualora questa esigenza sia rispettata, la convergenza così raggiunta attraverso il consenso sarà senz’altro da ritenersi giusta.

Nel contesto di questa visione della giustizia, l’aborto, cioè la soppressione (l’uccisione) di un individuo umano, può essere pienamente — cioè senza contraddire quell’impostazione — giustificata. Possibilità che si dimostra almeno da due punti di vista. Il primo è che quando l’interesse del concepito, cioè di essere lasciato vivere, si scontra con l’interesse della madre o di altri, questo scontro non potrà più essere risolto richiamandosi ad un diritto alla vita fondato semplicemente sul puro fatto di essere uomo: questa fondazione è esclusa precisamente da questa visione della giustizia. Anche in questo caso si deve ricorrere al principio della procedura comunicativa. Ma da questa il concepito resta escluso, ovviamente. Quindi, la sua vita è lasciata al beneplacito della società. Il secondo punto di vista che dimostra la possibilità di giustificare l’aborto dentro questa visione è che in questa visione risulta l’impossibilità di fondare l’esistenza di diritti umani fondamentali ed universali che precedano il loro riconoscimento sociale.

La seconda visione della giustizia potrebbe essere descritta in questi semplici termini: la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che è dovuto in ragione del suo essere stesso.

Notiamo subito il punto essenziale nel quale questa definizione di giustizia differisce da quella precedente. L’uomo non è solo soggetto che desidera il suo proprio bene: è la concezione materialistica della persona umana. Egli è ordinato ad un bene che corrisponde al suo essere-persona: che gli è dovuto come persona e che pertanto è dovuto ad ogni persona umana.

Esistono dunque diritti (cioè esigenze incondizionate di beni umani) che sono semplicemente fondati sulla persona, che scaturiscono dalla persona stessa.

La società è giusta tanto quanto a ciascuna persona è assicurata la possibilità di raggiungere quei beni umani cui la persona è ordinata.

Nel contesto di questa visione, l’aborto è semplicemente ingiustificabile. Per due semplici ragioni fra loro connesse. La prima è che in questa visione il diritto alla vita è il diritto primo nel senso che esso rende possibile ogni altro. La seconda è che in questa visione l’unico titolo necessario e sufficiente per possedere questo diritto è l’essere un individuo umano: nulla di più. Chiaramente, allora, questa visione non potrà mai, in nessun caso e per nessuna ragione, giustificare l’aborto. Esso deve sempre essere considerato un atto ingiusto, anche se ovviamente le sanzioni possono variare.

Se continuiamo a riflettere su questo scontro sociale, vediamo che esso è causa ed effetto al contempo di due progetti educativi profondamente diversi. L’uno è impiantato dentro il Vangelo della vita, l’altro nella cultura della morte.

È nella misura di una sana ragione quella di essere completamente disponibile alla realtà: di lasciare che la realtà sia ciò che è. Lo spirito di chi ama veramente la verità, desidera semplicemente di essere nella verità: di conformare i propri desideri alla verità e non di conformare la verità ai propri desideri. È per questo che una persona così scopre una verità prima sconosciuta, "non corregge da esaminatore, ma ne gode da scopritore" (S. Agostino, De libero arbitrio, 2, 12, 34).

Questa attitudine tuttavia implica anche, e soprattutto, quella umiltà interiore, cioè di avere una visione di sé vera. In particolare di non collocarci sopra la verità, ma al di sotto. Di non ritenere che sia vero solo e ciò che decidiamo che è vero. Di non attribuire alla propria ragione un potere creativo della verità. Siamo al "nodo" della nostra questione.

Il problema, stretto nei suoi termini essenziali, è il seguente: l’essere le cose ciò che sono, da chi, da che cosa dipende? Quale è la sorgente ultima della verità delle cose?

Il progetto educativo che è generato dal Vangelo della vita educa l’uomo alla ricerca della verità: il progetto educativo che è generato dalla cultura della morte educa l’uomo al rispetto di tutte le opinioni, poiché tutte hanno lo stesso valore.

In breve. Il primo atto del drammatico scontro sociale fra Vangelo della vita e cultura della morte è costituito dallo scontro fra due concetti di giustizia che si nutrono di due progetti educativi, fra loro contrastanti. E così sono due assetti, due architetture sociali che si scontrano. È l’esatto specchio di quel primo atto del dramma, quale avviene nel cuore di ogni uomo.

(B) In realtà questo primo atto dello scontro sociale si esprime compiutamente, si sviluppa in un secondo atto che porta alla luce quel contrasto sociale di cui si è appena parlato.

Vorrei partire da una profonda osservazione di S. Tommaso. Egli pensa che la differenza essenziale fra l’amore di Dio e l’amore della creatura consiste nel fatto che mentre l’amore di Dio non è motivato dal bene della creatura, ma è creativo del bene creato stesso, l’amore creato, al contrario, è sempre mosso dalla bontà dell’amato. In altre parole: Dio non ama la creatura a causa della bontà della creatura, ma viceversa la creatura è buona a causa dell’amore di Dio; la creatura ama perché intravede nell’amato qualcosa che lo rende degno di essere amato. Ora, a causa di quello scontro avvenuto nel cuore dell’uomo, se l’uomo cede alle insidie della cultura della morte, nega che esista una bontà che sia indipendente dalla sua volontà. Non amo ciò che è perché è bene, ma è bene ciò che amo e perché lo amo; non amo nella misura in cui è degno di essere amato (cioè do a ciascuno il suo), ma ogni essere è degno di essere amato nella misura in cui decido di amarlo (cioè decido ciò che è dovuto).

Questo comporta l’esaltazione della morte come suprema manifestazione della libertà umana. È qualcosa di allucinante, di paradossale. Nella negazione di una fonte suprema per decidere ciò che è bene e ciò che è male che non sia la libertà dell’uomo, si oppone un fatto "brutale" nella sua ostinazione: il fatto che nessuno ci ha chiesto il permesso di generarci e la morte non ci chiede il permesso di compiere la sua opera in noi. Il fatto puro e semplice del nostro esserci costituisce l’obiezione più elementare alla tesi dell’autonomia creativa. Tuttavia, c’è un modo per affermare questa stessa autonomia di fronte a questa fatto: quello di affermare il diritto alla morte come diritto fondamentale dell’uomo. E quindi: l’aborto è una scelta di civiltà; l’eutanasia è conseguenza della dignità stessa dell’uomo; il mistero della nascita si è trasformato in problema tecnico da risolvere con la procreazione artificiale. Ciascuno è affidato radicalmente a ciascuno e la propria dignità al riconoscimento dell’altro. Da ciò nasce quel senso diffuso di paura reciproca, di sospetto e nello stesso tempo un’esasperata ricerca di garanzie continue. È la radice dell’infelicità che è piantata nel cuore dell’uomo dalla cultura della morte.

In breve, il secondo atto del drammatico scontro sociale fra Vangelo della vita e cultura della morte è costituito dallo scontro fra la comunione interpersonale che è generata dall’amore del Bene e la convergenza di opposti interessi che è generata da chi si definisce come fonte del bene stesso. Si tratta, ancora una volta, di due architetture, di due disegni architettonici sociali fra loro contrari.

(C) Se sul piano personale l’esito, la condizione esistenziale di chi si lascia insidiare dalla cultura della morte è la disperazione, sul piano sociale è la radicale incapacità delle persone di comunicare, la congenita incapacità di amare con l’inevitabile eliminazione del più debole.

3. La fine del dramma: conclusione

A chi riflette seriamente su questo scontro fra Vangelo della vita e cultura della morte sorge inevitabile nel cuore la domanda sull’esito finale di questo scontro.

Nel libro dell’Apocalisse leggiamo una pagina d’impressionante attualità. Il veggente vede il libro nel quale sta già scritta tutta la storia dell’umanità: chi lo legge potrà conoscere fin da ora gli esiti finali delle nostre umane vicende.

Tuttavia quel libro è chiuso con sette sigilli e non si trova nessuno in cielo, in terra, sottoterra che sia capace di rompere quei sigilli, aprire il libro e leggerlo. Il libro fu dato all’Agnello immolato. Egli solo ne può spezzare i sigilli e lo può aprire. Egli solo conosce il segreto finale della storia umana. Ma questo esito finale non ci è estraneo, poiché esso già ci coinvolge: di esso ciascuno di noi è già responsabile nella sua misura propria. È nel cuore di ciascuno di noi che il Vangelo della vita si scontra con la cultura della morte e da come finisce questo scontro dipende quale società stiamo costruendo. E così ciascuno diventa cosciente che non è fuori di sé, ma in sé che deve cercare il germe della fine e del fine. Più precisamente: nell’esercizio della sua libertà chiamata ad accogliere il Vangelo della vita, rifiutando le insidie della cultura della morte. È in se stessi che lo scontro accade.

"Dove è il tuo Dio?". La domanda, che faceva versare lacrime al salmista, può esserci rivolta anche oggi dallo scettico e dal disperato. Può essere rivolta a noi stessi da noi stessi. Ed essa attende risposta. Dov’è? Quale è il luogo della Sua Presenza: luogo, entrando nel quale, dimorando nel quale, l’uomo possa celebrare la festa della sua beatitudine? Trovo la risposta in una mirabile pagina di S. Agostino.

"Quando qui gli uomini celebrano le loro feste anche se si tratta di feste lussuriose, sono soliti collocare alcuni strumenti musicali dinanzi alle loro case, oppure ingaggiare suonatori, insomma suonare qualche musica che lusinghi ed ecciti la sensualità. Udendola che cosa dice chi passa? Chiede di che cosa si tratta. Risponderanno che si tratta di una festa. Ci diranno che è una festa natalizia, oppure che si tratta di nozze, affinché non sembrino fuori luogo quei canti, e la lussuria sia scusata con la festa. Nella casa del Signore eterna è la festa. Non vi si celebra una festa che passa. Il festoso coro degli angeli è eterno; il volto di Dio presente dona una letizia che mai viene meno. Questo giorno di festa non ha né inizio né fine. Da quella eterna e perpetua festa risuona un non so che di canoro e di dolce alle orecchie del cuore; purché non sia disturbata dai rumori del mondo. Il suono di quella festa accarezza le orecchie di chi cammina nella tenda e osserva i miracoli di Dio nella redenzione dei fedeli e rapisce il cervo alle fonti delle acque".
(Enar. In Ps. 41, 9: NBA XXV, p. 1017).

È nella comunione con il Cristo, che è la Chiesa, che si ha quell’esperienza di bene, fonte inesauribile di una speranza che non delude.

Perché in questo luogo che è la Chiesa l’uomo sente come l’eco della festa eterna, è convinto della verità del Vangelo della vita e della falsità della cultura della morte? C’è un detto, una promessa, fatta da Cristo l’ultima sera della sua vita terrena, che ci dona la risposta a questa domanda: "E quando Egli (lo Spirito, il Consolatore) sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio".

Lo Spirito che scruta la profondità di Dio può pienamente, interiormente convincere l’uomo del peccato: dell’ingiustizia insita nella decisione di non credere al Vangelo della vita. Egli fa sentire nel cuore dell’uomo la Verità e l’amore, mostrando per contrarium la menzogna della cultura che porta alla morte. In questa presenza si costituisce la comunione che è la Chiesa, nella quale si ritorna all’originaria alleanza con il Dio vivente: alle fonti della vita.