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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Le religioni nell’area mediterranea: dialogo o conflitto?
Trieste 21 settembre 2001

Nel suo perentorio dilemma la formulazione del tema della nostra tavola rotonda non lascia alcun spazio al dubbio. Penso che nessuno oggi sostenga che fra le religioni dell’area mediterranea ci debba essere conflitto e non invece il dialogo.

In realtà qui si tratta di riflettere in profondità sul rapporto esistente, meglio che deve esistere fra le tre grandi religioni dell’area mediterranea. Le mie riflessioni andranno in questo senso.

Ma devo ulteriormente precisare la prospettiva del mio intervento con una premessa, prima di entrare in tema.

Ciascuno di noi è portatore di una storia: non può essere diversamente. Tuttavia il mio intervento prescinde, nella misura del possibile, da essa. In che senso? Nel senso che si devono accuratamente distinguere i fatti di una religione dalla religione stessa. In forza di questa distinzione non si devono ritenere responsabili le religioni che condannano i fatti proprio dei fatti condannati. Non si devono così scambiare le infedeltà delle persone alla loro fede professata colla fede stessa che condanna quelle infedeltà medesime. Cercherò di vedere la fede [cristiana] nella sua diciamo "pura specie logica". E’ corretto imputare ad una fede religiosa solo quei comportamenti che da essa derivano logicamente e non quelli che derivano da principi pratici opposti.

In questo senso preciso la mia riflessione non si atterrà minimamente al piano storico.

1. Le tre religioni dell’area mediterranea si presentano come "religioni rivelate", come cioè religioni che hanno il loro fondamento, la loro radice e la loro scaturigine dalla Rivelazione di Dio. La consistenza di quest’autopresentazione ed i titoli con cui la si esibisce sono di ben diverso valore quando trattasi della religione ebraica e/o cristiana, e quando trattasi della religione islamica.

Il loro fondamento: esse si presentano non come "favole umane sapientemente inventate", ma come costituite da un fatto di cui Dio stesso è responsabile, il fatto di avere rivolto la sua parola all’uomo, di aver parlato all’uomo. La loro radice: il fatto della Rivelazione è ciò che continuamente fa essere e vivere la religione, anche se la permanenza della Rivelazione dentro la storia degli uomini è diversamente pensata nell’ambito di ciascuna della tre religioni. La loro scaturigine: l’esperienza religiosa continuamente nasce dall’ascolto della parola di Dio [Ascolta, Israele…], dall’ascolto che è l’obbedienza, la sottomissione di tutto l’uomo.

Perché ho insistito tanto su questa proprietà, sulla connessione delle tre religioni colla Rivelazione divina? Perché è essa a definirne l’identità.

Da ciò deriva che il tema della verità è un tema centrale nelle tre religioni mediterranee: l’estinzione della passione per la verità significa sempre tradimento della propria fede religiosa. Per due ragioni almeno.

Dire che "Dio ha parlato all’uomo" significa che esiste un Dio personale che rivolgendosi all’uomo ha qualcosa da dirgli di preciso al quale chiede che l’uomo dia una risposta ugualmente precisa. Non si tratta di mere emozioni o di mere produzioni simboliche compiute dall’uomo: non è un consegnarsi a superstizioni.

Dimenticare la dimensione veritativa della religione significa scindere Dio dalla religione. "Certo non si vuole fare a meno di questo sentimento dell’alterità del divino, di questa particolarità del fattore religioso, si vuole poterne disporre in una forma molteplice. Ma il fattore religioso, in ultima analisi, non costituisce un vincolo se viene a mancare la volontà di Dio, la presenza di Dio. Da questo punto di vista non ci troviamo tanto in una crisi religiosa – le religioni addirittura prolificano – quanto piuttosto in una crisi del ruolo che si riconosce a Dio" [J.Ratzinger, Dio e il mondo, San Paolo ed., Milano 2001, pag.60].

Donde deriva nelle religioni rivelate l’indebolimento spesso fino all’estinzione della passione per la verità? Da almeno due ragioni direttamente attinenti alla nostra riflessione.

La prima è la paura di etichettare come verità ciò che è solo opinione o perfino errore. E la seconda, sulla quale vorrei più lungamente riflettere è la connessione che si afferma essere necessaria fra l’affermazione di una verità rivelata e l’intolleranza verso chi non assente a questa verità. E’ su questo punto che ora vorrei lungamente fermarmi, considerandolo uno dei nodi del nostro incontro-dibattito: si deve rinunciare al coraggio di dire che ciò che dice la fede è vero per non generare intolleranza nel tessuto sociale? Il dialogo esige come costo la messa fra parentesi della fede nella Rivelazione? Possiamo accettare questa supposta necessità?

In ordine al culto che noi dobbiamo a Dio non è indifferente ciò che noi pensiamo di Lui. Sarebbe ben strano un culto dal quale restasse estraneo la ragione, la capacità di pensare, cioè la dimensione costitutiva della persona creata. Nel momento in cui la persona assentisce a ciò che la Parola di Dio dice circa Dio stesso, circa la persona umana, circa il mondo, è necessario che rifiuti il suo assenso a ciò che è contrario. Se ciò non accade, è dovuto o alla disperazione scettica di poter conoscere il vero o alla disitima del vero che è contenuto nella Rivelazione divina. L’uscita da questa posizione esistenziale può alla fine giustificarsi solo negando che possa accadere qualcosa come "Rivelazione-Parola di Dio all’uomo": che Dio nella sua infinita trascendenza possa parlare all’uomo. Cioè: l’amara constatazione che l’uomo possa e debba solo contare su se stesso. Esiste un testo notissimo della Bibbia cristiana che esprime in forma stringente quanto sto dicendo:

"La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto" [Eb 4,12s].

"Ora, mettendoci a nudo, la parola di Dio scopre bene e denuncia anche le nostre divisioni, che non soltanto sono reali ed innegabili, ma che appaiono anche umanamente insuperabili, anzi, irrinunciabili. Non vogliamo, senza mai desistere dallo sperare e dal pregare, farci illusioni che non servirebbero a nessuno: non vogliamo mentire davanti a Dio e davanti agli uomini. Le nostre divisioni non si basano su equivoci da chiarire o su fraintendimenti da dissipare, né su stati d’animo da superare semplicemente con benevolenza e lo slancio dell’amore" [U.Neri, Ho creduto perciò ho parlato. L’intelligenza della fede, EDB, Bologna 1997, pag.126].

Da questa obbediente sottomissione alla Verità che ci è stata donata deriva l’intolleranza ed il conflitto? E’ esattamente il contrario. Per le seguenti ragioni.

La prima. L’assenso della persona alla Verità che ci è stata rivelata è un atto eminentemente sintetico della persona: in esso convergono ragione, libertà ed affettività. E’ quindi atto che può scaturire solo dall’intimo della persona. Esigerlo colla forza è un non senso. Perciò qualsiasi interpretazione di una fede religiosa che congiungesse religione e forza e ravvisasse nel possesso della verità un titolo di superiorità coattiva, sarebbe un non senso. Senza dire che una tale posizione sotto il pretesto di influire positivamente sui costumi umani nasconderebbe spesso l’insidia dell’ipocrisia.

La seconda. La ragione ultima per cui la convivenza umana fra due persone che danno il loro assenso ad una verità ritenuta rivelata non deve essere il conflitto, ma il rispetto, anzi l’amore è che ogni uomo deve essere amato. Questa esigenza non si fonda sull’indiscernibilità del vero, né sull’importanza secondaria della sua affermazione, né sull’obiettiva uguaglianza di ogni opinione, ma sull’uguale diritto di ogni uomo ad essere amato da ogni uomo. Diritto ultimamente fondato sul fatto che Dio ama ogni uomo, ed all’uomo non è dato odiare ciò che Dio ama. Il giudizio di errore enunciato circa la dottrina tenuta da una persona non comporta l’odio nei suoi confronti, in quanto il precetto della carità non soffre eccezioni! "Certo non bisogna sacrificare la verità a nessuna cosa, nemmeno alla concordia, ma qui non si tratta di sacrificare che l’odio, che la temerarietà, che la leggerezza" [A.Manzoni, Osservazioni sulla Morale cattolica, a cura di R.Amerio, vol.II, R.Ricciardi ed., Milano 1966, pag.522]. La costruzione di una comunità di uomini vera, fondata cioè sul rispetto dovuto da ogni persona umana ad ogni persona umana per il solo e semplice fatto che è oggetto dell’amore di Dio, non è un compromesso o una transazione fra fedi religiose, ma una legge morale assoluta fondata sull’ordine stesso dell’essere. Credo che in questo la responsabilità di tutti noi credenti figli di Abramo sia oggi particolarmente grave. Responsabilità che si deve esprimere in due formule essenziali: "ama la verità e perseguita l’errore" e quindi "ama ogni uomo perché e come è amato da Dio". Il nostro futuro dipenderà in tutto dalla nostra fedeltà a questa responsabilità.

2. Ma proprio a causa di quella rispettosa chiarezza cui voglio improntare la mia riflessione, non posso nascondermi e censurare una domanda inevitabile. Una volta visto che devono essere dissociate a livello di pensiero prima che di prassi l’affermazione della verità rivelata e l’intolleranza offensiva verso qualsiasi altra persona, è innegabile che ogni fede in una verità rivelata possiede una dimensione essenzialmente missionaria. Nei Vangeli questo risulta in modo assai suggestivo dal racconto dei primi incontri dell’uomo con Cristo: i primi incontrati non possono tacere. E c’è una ragione profonda di questo comportamento: la Verità conosciuta è un bene così grande che l’amore dovuto all’uomo chiede di desiderare per ogni uomo il possesso di quella verità. Non sentire questo desiderio significa indifferenza verso il bene dell’altro oppure neghittosa ipocrisia.

Ma è inutile nascondersi che proprio in questo confronto si annidano oggi le maggiori difficoltà di rapporto. Sto parlando, e lo voglio sottolineare con la massima chiarezza, della difficoltà non politiche: quelle di cui devono farsi carico i capi di Stato secondo le leggi morali che regolano l’attività politica. Sto parlando delle difficoltà di carattere esclusivamente religioso, attinenti cioè al dialogo fra le tre grandi religioni mediterranee in quanto religioni essenzialmente missionarie.

Vorrei ora riflettere su queste difficoltà non in maniera analitica, ma ponendomi dal punto di vista sintetico quale mi viene offerto dalla fede cristiana che professo. Ed il punto di vista sintetico viene offerto dal modo con cui il cristianesimo pensa il rapporto fra Gesù Cristo ed ogni uomo: greco o barbaro, giudeo o pagano, uomo o donna, schiavo o libero, direbbe S.Paolo. Ed è su questo che vorrei ora brevemente riflettere.

Nell’etica cristiana, in un certo senso, esiste un solo comandamento: il comandamento dell’amore del prossimo, che negli scritti giovannei è sinonimo della fede in Cristo [cfr. 1Gv 3,23]. La sinonimia è dovuta al fatto che nell’amore del prossimo si realizza il nostro essere una cosa sola con Cristo: si realizza per così dire la promessa dell’amore di Cristo. Nel e col primo Adamo l’uomo si è moltiplicato e diviso, con e nel secondo Adamo, Cristo, tutta la moltitudine degli uomini è chiamata a divenire uno solo. E’ ciò che S.Paolo dice: "Non vi è più né uomo né donna, né schiavo né libero, né greco né barbaro, ma tutti siamo un solo uomo [eis in greco] in Cristo Gesù" [Gal 3,28]. Nella prospettiva cristiana quanto più si è nella comunione con Cristo e tanto più si arriva ad essere una comunione interpersonale fra noi. Facendoci uno, ha reso necessario che ci amiamo gli uni gli altri: in Lui non possiamo più sentirci e pensarci divisi da alcuno, separati gli uni dagli altri, ma dobbiamo vivere questa unità nel dono reciproco. Si tratta di affermazioni che hanno un significato primariamente ontologico, non etico. Trattasi di una visione riguardante l’essere delle persone, meglio la loro condizione ontologica; non di un comandamento. Nella visione cristiana, il primato non compete alla legge, ma alla grazia; non al comandamento, ma al dono: non all’etica, ma alla liturgia.

L’unità di cui sto parlando non consiste in un e non comporta un disfacimento della propria identità: nulla viene disfatto. Ogni persona rimane interamente. Non dimentichiamo che sia la fede ebraica che la fede cristiana giudicano il simbolo della torre babilonese un simbolo satanico. Il modello dell’unità è quello attuata paradigmaticamente da Dio nel giorno della Pentecoste. Gli Apostoli non parlavano la stessa lingua eppure si comprendono perfettamente. "La pluralità non viene soffocata, ma la sintonia del cuore la trasforma in unità interiore… Dio vuole l’unità. Tutta la sua azione nella storia mira a questo; per questo Cristo è venuto nel mondo; per questo crea la Chiesa" [J.Ratzinger, op.cit. pag. 127]. Le scelte di Dio non sono mai per escludere altri. Chi è scelto lo è perché faccia da tramite perché gli altri entrino concretamente nell’Alleanza col Signore. Ciò che muove la missione della Chiesa, dai suoi primi passi avvenuti a Gerusalemme la mattina di Pentecoste, è la certezza che tutti i popoli "sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi delle promesse" [Ef 3,6] fatte ad Abramo ed alla sua discendenza per sempre.

Conclusione

La mia conclusione riflette in maniera più esplicita le preoccupazioni che porto dentro come Vescovo, come responsabile cioè di una comunità cristiana. Poterle esprimere in un contesto come questo mi sembra un’occasione privilegiata, una grazia del Signore.

L’Occidente sta morendo perché è giunto al termine ultimo, al capolinea di un percorso iniziato nel momento in cui ha pensato che l’uomo fosse capace di vivere, anzi fosse se stesso nella misura in cui fosse in una misura sempre maggiore "creatore-produttore di sé stesso". Sradicato da ogni appartenenza si è perduto: "il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: dove sei?" [Gen 3,8]. Dove sei? "Sei nella divinità che ti ha promesso il serpente" scrive S.Efrem "o nella morte che io ho decretato per te" [in CSCO 153,40]. È un uomo privo di dimora perché ha abbandonato la sua dimora originaria: l’Alleanza colla Sapienza creatrice. Di qui la contraddizione in cui versa: da una parte una domanda-bisogno sempre più pressante di ritornare a casa, di senso; dall’altra ogni sentiero sempre interrotto.

Forse la vera, ultima domanda che viene fatta dall’uomo alle tre grandi religioni del Mediterraneo è che mentre passa da una cella della prigione, qualcuno gli dica: basta; è finita la tua prigione. "Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù" [Is 40,2]. Questa buona notizia può essere offerta solo dalla Parola di Dio attraverso chi in essa ha creduto.