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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Il transessualismo: aspetti etici»
11 dicembre 1984


1. Nell’affrontare il problema etico del transessualismo, molte sono le vie percorribili dalla riflessione morale. Dopo matura riflessione ho ritenuto che la più chiara fosse la seguente. Partire dalla liceità morale della terapia chirurgica a cui spesso si ricorre; cercare poi di cogliere le implicazioni antropologiche di questo sempre più frequente ricorso alla chirurgia nel caso del transessualismo; vedere, almeno in modo essenziale, la rilevanza che i risultati della riflessione etica hanno nella elaborazione di una eventuale normativa giuridica civile. Alla fine vorrei affrontare, se il tempo lo consente, il problema del matrimonio dei transessuali e da un punto di vista etico e da un punto di vista canonico. In questo modo abbiamo indicato i quattro punti fondamentali della presente relazione.

 

2. La liceità morale della terapia chirurgica.

Il problema della liceità morale si pone unicamente, mi sembra, a riguardo dell’intervento chirurgico-plastico tendente, attraverso una opera di distruzione-ricostruzione, a co-ordinare il sesso fisico a quello psicologico. Suppositis supponendis, non sembra, infatti, che ponga problemi etici la terapia — che, ovviamente, può essere solo psicoterapica — che tende all’effetto opposto: co-ordinare lo psichico al biologico.

 

2,1. Il primo punto di riferimento, o criterio di soluzione del problema è costituito dal concetto di terapeuticità.

Premesso che lo stato transessuale è uno status anormale e che l’anormalità è di natura psichica (sia pure — se risultasse vera la prima spiegazione eziologica — con fondamento organico), premesse sulle quali c’è un consenso unanime, la domanda etica si pone nei seguenti termini: l’intervento distruttivo-ricostruttivo (de quo in casu) rientra nella fattispecie o definizione di inter vento terapeutico (chirurgico) eticamente lecito, come è definito nella tradizione teologica e nel Magistero della Chiesa? Questo è il problema.

Questa definizione sussiste in due elementi fondamentali: è lecito ogni intervento su un organo del corpo umano, quando esso è, in ragione della sua morbilità, dannoso per tutto l’organismo, oppure quando, pur essendo sano, la sua funzione può arrecare grave danno all’organismo medesimo (caso del tumore alla mammella che può esigere la sterilizzazione).

Ora, l’intervento chirurgico de quo in casu non si giustifica né per la prima ragione (= morbilità dell’organo: essi, in fatti, sono sani. Anche data per certa l’ipotesi dell’eziologia organica, la cosa non muterebbe, in quanto un intervento sul cervello è pura fantascienza ed in ogni caso sarebbe inutile, da ta l’irreversibilità della determinazione sessuale) né per la seconda ragione (= danno arrecato all’organismo dal funzionamento normale di un organo): nessun danno, infatti, è arrecato all’organismo del transessuale dal suo sesso biologico. Si tratta, infatti, di una malattia psichica. Quindi, questo intervento non è moralmente lecito.

L’argomentazione trova conferma nel fatto che la terapeuticità, intesa nel senso etico del termine, ha come effetto o l’ablazione dell’organo nocivo o la soppressione della sua funzione. Ora, nel nostro caso si ha semplicemente un artificio, non una correzione.

Si può obiettare in base ad una interpretazione estensiva del principio di totalità: l’intervento sarebbe giustificabile in quanto esso servirebbe al bene della persona intesa nella sua totalità comprendente anche la salute psichica.

Rispondo, dicendo che

(a) l’obiezione, per essere consistente, deve dare per certo o almeno altamente probabile l’efficacia terapeutica-psichica di un simile intervento. Ora, scorrendo la letteratura scientifica oggi disponibile, i pareri al riguardo sono estremamente discordanti (cfr. Science, n. 205, 21 - 1979).

(b) L’intervento comporta, come primo atto, la castrazione, cioè l’ablazione delle gonadi ed apparato riproduttivo interno colla conseguente perdita definitiva della capacità di procreare, esistente almeno “potenzialmente” in gran parte dei soggetti. Ma se si ammettesse lecita la castrazione per ragioni di salute psichica, in base al principio della totalità, quanto meno sarebbe difficile dimostrare la coerenza di questa ammissione con quanto già insegnato dal Magistero della Chiesa sulla sterilizzazione, esplicitamente proibita per ragioni psichiche. I due casi, infatti, quello qui discusso e quello della sterilizzazione, presentano (a dir poco) analogie consistenti: un intervento sul corpo riguardante un organo sano, per ragioni solo di salute psichica; un intervento per consentire un comportamento sul piano fisico che sia in armonia con un vissuto psichico. Ma, questi due fatti, su cui si fonda l’analogia, sono precisamente il fondamento del giudizio magisteriale sulla sterilizzazione. Quindi, la coerenza fra i due eventuali pronunciamenti (negazione della liceità della sterilizzazione / liceità di questo intervento) sarebbe difficilmente sostenibile. Se, poi, si tiene presente di quanta chiarezza e linearità abbia bisogno oggi la Chiesa su questo punto (cfr. Familiaris consortio n. 31,4, è facile vedere come si debba procedere con estrema prudenza.

(c) Se fosse lecito un intervento chirurgico su un corpo sano, intervento che muta l’aspetto fenotipico originale, in ragione del fatto che questo è esigito dalla salute psichica del soggetto, non si vede come non si potrebbe coerentemente affermare (il che è molto meno) la liceità di un uso dei propri organi sessuali contrario alla loro finalità propria, quando questa fosse esigita dalla salute psichica del soggetto: ma questo potrebbe giustificare l’omosessualità specialmente nel caso del maschio omosessuale primitivo grave ed irreversibile.

 

2,2. Il caso della transessualità è una “situazione limite” e, pertanto, essa implica problemi e pone domande che costringono a portare la nostra riflessione etica alla radice ultima dei principi morali implicati.

In che cosa consiste il “limite”? nella scissione che questa sindrome induce in quell’unità sostanziale in cui sussiste la per sona umana, l’unità di corpo e anima. È una ferita inferta a ciò che costituisce la persona umana come tale. 

La definizione biologica di sessualità umana è data in base ai quattro parametri già indicati nel n.1 e, d’altra parte, la sessualità è parte costitutiva della persona umana (cfr. Dichiarazione Persona umana, 1). Il problema della liceità o non dell’intervento chirurgico di cui stiamo parlando è, alla fine, il seguente: in ordine alla definizione antropologica (sia filosofica sia teologica) della sessualità umana, i parametri biologici sono accidentali, in quanto l’essenza della sessualità consiste nella coscienza che ciascuno di noi ha di se stessi quali maschi o femmine?

Si faccia attenzione, per cogliere il senso della domanda, che, ovviamente, la coscienza di se stessi quali maschi/femmine è — ciò è da tutti come minimo ammesso — comunque in un qualche modo collegato con il corpo. La domanda è se l’essenza, ciò che costituisce formalmente l’identità sessuale di una persona è la coscienza di se stessi, oppure se in questa stessa essenza o costitutivo formale entra anche la sessualità biologicamente definita. È questa la domanda che sta alla radice di tutta la presente problematica.

Se infatti, alla domanda posta si dovesse rispondere affermativamente, si concluderebbe necessariamente che l’intervento chirurgico de quo in casu è senza dubbio alcuno lecito. Una tale risposta affermativa, infatti, implica alla sua base che la biologia sessuale non entra nella costituzione della persona umana — è metafisicamente altra da questa — e, pertanto, su di essa la libertà dell’uomo ha un vero e proprio potere di manipolazione, al punto tale da distruggerne la fenotipia e ricostruirne un’altra, se questa distruzione-ricostruzione fosse esigita dalla coscienza della propria identità sessuale.

Se, al contrario, alla domanda posta si dovesse rispondere negativamente, l’intervento distruttivo-ricostruttivo sarebbe assolutamente illecito in quanto distruttivo della stessa identità personale dell’uomo; l’unica via eticamente percorribile sarebbe quella della terapia psichica. (A questa conclusione, per aliam viam, giunge oggi un sempre maggiore numero di scienziati).

Questa connessione fra risposta che si dà alla predetta domanda e soluzione di questo caso concreto, dà a pensare seriamente. Essa ci mostra che la soluzione implica la nostra definizione di uomo e che, pertanto, essa potrebbe poi avere conseguenze nell’insieme della dottrina etica cristiana.

Personalmente non ho dubbi che definire la persona, in quanto essere sessuato, esclusivamente sulla base della coscienza che l’uomo ha di sé, sia contrario ad una antropologia filosofica vera ed anche all’antropologia teologica cattolica.

La conseguenza è che questo intervento distruttivo-ricostruttivo è moralmente illecito.

 

2,3. C’è, infine, un altro ordine di considerazioni, che, pur non essendo decisive per una soluzione o per l’altra, meritano attenzione per loro pertinenza, almeno indiretta, al nostro problema.

Il problema del transessualismo e la sua soluzione (chirurgica) hanno necessariamente ripercussioni o rilevanza giuridico-sociale, anche prescindendo dal tema che affronteremo nel paragrafo seguente.

È un principio generale (se non vado errato) degli ordinamenti giuridici quello della “non disponibilità” del proprio corpo, anche in ragione dell’interesse della società ad esigere la tutela della “certezza dei rapporti giuridici” cui l’attribuzione del sesso della persona dà origine in campo privato e pubblico. Ora, comincia a farsi strada una giurisprudenza sempre più incline a dare rilevanza giuridica allo “status o vissuto psicologico” (nel nostro caso: al sesso psicologico contro il sesso biologico). Esistono già sentenze di tribunali in questo senso. Questa “inclinazione giurisprudenziale” si iscrive in una “cultura (sessuale)” che assume come suo parametro centrale nella definizione di uomo, quello della libertà scissa da ogni riferimento a dati obiettivi (= alla verità). Il “sentire psicologico” diviene elemento determinante anche nella interpretazione del principio giuridico-sociale della non disponibilità del proprio corpo, nel contesto della generale attribuzione alla libertà della persona di decidere che cosa fare di se stessa e del proprio corpo.

 

È vero che queste considerazioni non devono impedirci di affrontare il problema, mossi unicamente dalla volontà di sapere la verità, anche se questa fosse poi male usata o interpretata.

È, però, altrettanto vero che, da una parte, quella cultura (sessuale) è sempre stata duramente giudicata dalla Chiesa cattolica giustamente e, dall’altra, l’affermazione della liceità dell’intervento chirurgico de quo in casu costituirebbe (sia pure praeter, anzi contra intentionem di chi la pone) un’obiettiva spinta in quella direzione. Può la Chiesa, che è responsabile della verità intera sul bene della persona umana, assumersi questo rischio? sarebbe essa fedele alla sua missione di servizio salvifico all’uomo? Personalmente, sono convinto di no.

 

3. Il matrimonio del transessuale.

Supposto l’intervento demolitore-ricostruttivo, ci si domanda se questa persona può contrarre validamente matrimonio.

 

3,1. Nel caso di passaggio — chirurgicamente operato — dalla fenotipia femminile a quella maschile, mi sembra che sia assolutamente certa l’incapacità di contrarre validamente matrimonio. La sentenza contraria non gode, a mio parere, di nessuna probabilità: il pene posticcio è impossibilitato alla copula coniugale.

 

3,2. Più complesso dottrinalmente sembra essere il casooppo sto: passaggio dalla fenotipia maschile a quella femminile. A me sembra che (a) la persona in questa situazione non possa contrarre validamente matrimonio e che (b) la sentenza contraria non goda di una probabilità sufficiente da giustificare il ricorso al principio generale secondo il quale nessuno deve essere impedito di contrarre matrimonio fin che non ne è dimostrata l’incapacità certa. Le ragioni della mia risposta sono le seguenti.

 

 3,2,1. È certo che anche l’intervento chirurgico più riuscito non opera un vero e proprio cambiamento di sesso. Esso, in concreto, consiste nel fabbricare un rudimentale infundibolo vulvo-vaginale, utilizzando i corpi cavernosi dell’organo maschile: questo è tutto. «Sicché, per quante argomentazioni si possano addurre, non si può sostenere che dal punto di vista anatomico il sesso sia mutato» (Caruso, cit. da A. Bompiani, Le norme in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso ed il problema del transessualismo, in Medicina e Morale XXII, 1982, 238-275; la cit. è a pag. 266). Si ha, infatti, solo la ricostruzione dei genitali esterni, mentre dal punto di vista cromosomico, cromatinico e persino ormonale resta un maschio.

Avremmo, pertanto, in realtà, un matrimonio fra due persone dello stesso sesso, benché in una di esse si sia creato un artificio di organi genitali esterni femminili.

 

3,2,2. Dato (e non concesso) che il transessuale così trasformato possa contrarre validamente il matrimonio, ne segue che il rapporto sessuale fra i due è moralmente lecito.

Ma questa conseguenza — data la validità del matrimonio deve essere dedotta — implica l’affermazione che l’etero-sessualità è sufficientemente costituita, dal punto di vista morale, dal fatto che si crea artificialmente in una persona, che anatomicamente resta maschio, un “recipiente” puro e semplice per accogliere il seme del supposto marito.

Questa affermazione è (a) difficilmente compatibile con la negazione della assoluta illiceità del rapporto omosessuale, (b) non riconosce la verità profonda della femminilità nella coniugalità e (c) di conseguenza, mi sembra, dimostrerebbe obiettivamente un disprezzo della sponsalità della donna.

Mi soffermo un momento su questo ultimo punto. Facciamo attenzione perché la volontà di dare una risposta al caso specifico cercando questa risposta nella determinazione di un “minimum” richiesto per la validità del matrimonio, non finisca in una riduzione della verità della femminilità nella comunità coniugale. Fissate infatti le condizioni di validità, queste sono uguali per tutte. Diciamo: la condizione unica dal punto di vista sessuale, richiesta al la donna è che uno dei due possegga semplicemente un “recipiente”, anche se artificialmente creato, anche se tutti e due sono biologicamente maschi, che possa accogliere lo sperma dell’altro; questo è ciò che la donna apporta per la costituzione del vincolo coniugale nella sua piena perfezione (consummatio matrimonii). Mi si consenta di dire esattamente ciò che penso: non c’è obiettivamente una visione del la femminilità più contraria di questa alla dignità della donna in quanto persona che diviene una caro col suo sposo.