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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Contraccezione, aborto e Chiesa
Lingotto – Torino
27 ottobre 2002

La mia riflessione non affronta il tema della giustificazione razionale e teologica del giudizio che la Chiesa dà dell’atto contraccettivo o abortivo. Essa si pone in una prospettiva più generale.

Vorrei dare un’interpretazione di come oggi viene sempre più praticata la contraccezione e l’aborto, e dire come la Chiesa deve affrontare questa situazione.

La mia riflessione pertanto si articolerà in tre punti. Nel primo richiamerò molto brevemente, a modo di premessa, alcuni fatti; nel secondo tenterò un’interpretazione di questi fatti; nel terzo esporrò la risposta che a mio giudizio la Chiesa deve dare a questa situazione.

1. Contraccezione ed aborto: fatti significativi.

Richiamo alla vostra attenzione alcuni fatti che mi sembrano assai carichi di significato.

Pur tenendo sempre presente quanto insegnato dalla Lett. Enc. Evangelium vitae, al n° 13,2[cfr. EV 14/2205], insegnamento per altro che appartiene pacificamente alla dottrina teologica, è indubbio che dal punto di vista "gestuale" l’atto del contraconcepire è andato progressivamente identificandosi coll’atto dell’abortire. La diffusione della RU 486 dimostra ampiamente questa progressiva identificazione gestuale. Gestuale significa che si va verso un modo di abortire [attraverso l’assunzione di una pillola] che è uguale alla contraccezione chimica. La differenza comportamentale fra le due condotte è andata progressivamente stemperandosi.

Causa ed effetto di questa confusione comportamentale è la progressiva introduzione della condotta abortiva nel "privato". La consapevolezza che la scelta di abortire coinvolgeva in un qualche modo anche il bene comune., presente sia pure in misura diversa nelle legislazioni abortiste dell’Europa occidentale, è andata progressivamente oscurandosi. Abortire è una decisione che riguarda esclusivamente la persona che lo fa: l’aborto chimico assicura anche simbolicamente questa privatizzazione.

Ripercorrendo il cammino percorso in Occidente dalla coscienza o meglio dall’approccio culturale al tema della contraccezione e dell’aborto, mi sembra di poter dire che la nobilitazione della contraccezione e dell’aborto, per una sorta di eterogenesi di fini, si è rovesciata in una vera e propria banalizzazione. Mi spiego. Il tentativo sia di giustificare la contraccezione sia di giustificare l’atto è stato all’inizio costruito sulla fattispecie etica e giuridica del "male minore" e/o del "caso di necessità". Il passo successivo è stata una vera e propria nobilitazione delle due condotte: la contraccezione e l’aborto costituiscono la liberazione della sessualità da un dato di natura che ne impedisce la totale spontaneità. Ora finalmente la scienza ha liberato la sessualità e l’ha consegnata al puto esercizio della libertà. Il risultato di questa nobilitazione è stata la banalizzazione del gesto sessuale. Per banalizzazione intendo la negazione di ogni significato serio all’esercizio della sessualità: l’essere uomo/donna non appartiene ai "casi seri" della vita, ai casi cioè che esigono una faticosa interpretazione da parte della ragione ed una risposta da parte della libertà, che coinvolge tutta la persona. La liberazione ha generato non-senso, un vuoto di significato ed un pieno di noia a cui l’industria pornografica cerca di fare uscire.

Se ora passiamo da una considerazione dell’uomo considerato nella sua individualità alla dimensione sociale del problema, mi sembra che i fatti più significativi sino i seguenti. Mi limito al tema dell’aborto.

Che il criterio della maggioranza sia nella maggior parte dei casi il criterio migliore per risolvere i problemi della vita associata, penso che nessuno lo metta in dubbio. Ma la maggioranza non può essere il criterio ultimo universalmente valido: "valet ut in pluribus", ma non "semper er pro semper". Ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di abrogare. Ma quali sono questi valori che vincolano tutti, qualunque sia la maggioranza? E’ fuori dubbio che sono quelli, come già insegnava Tommaso, dal cui rispetto dipende l’esistenza stessa della società civile [cfr. 1,2, q.96 a.2]. Ma oggi ci troviamo di fronte al fatto che resta controverso un diritto fondamentale: il diritto alla vita per ciascuno, che sia un essere umano, la inviolabilità della vita umana in tutte le sue fasi.

Il fenomeno della "privatizzazione" della pratica abortiva è causa non ultima della situazione politica in cui versa la difesa del diritto alla vita. Si concepisce la vita associata come coesistenza regolata di interessi individuali: una coesistenza di opposti interessi "privati", dove inevitabilmente il più forte ha ragione. Interessi nei confronti dei quali porsi la questione veritativa avrebbe, si pensa, lo stesso senso che chiedersi quanti chili pesa una sinfonia di Mozart.

2. Contraccezione, aborto: un’interpretazione

Per tentare un’interpretazione di questa situazione vorrei partire da una riflessione di antropologia generale: la distinzione fra il "bene sensibile" ed il "bene intelligibile". Vi chiedo un po’ di pazienza, ma ritengo che questa sia una delle chiavi interpretative migliori.

Per introdurci dentro alla comprensione di questa distinzione possiamo partire dalla verifica delle ragioni per cui compiamo le nostre scelte. Sono di fatto molte, ma esse si ordinano distintamente in due classi o speci.

Esistono ragioni per fare una scelta piuttosto che un’altra [non abortire piuttosto che abortire, per es.] le quali

"a) contano come ragioni sin dall’inizio, e non perché sono stati decise o convenute;

b) sono di genere diverso dai criteri prudenziali, non si basano su interessi e preferenze che i soggetti vogliono soddisfare;

c) sono ragioni valide di per sé, riconoscibili da tutti i soggetti umani, e possono funzionare come una regola comune a tutti loro;

d) sono ragioni in cui ciascuno può riconoscersi e identificarsi; ragioni che ciascuno può riconoscere come sue e che consentono a ciascuno di criticare e di regolare i propri desideri e le proprie preferenze, consentono di rinunciare al proprio interesse ... .

e) sono ragioni la cui violazione non può essere giustificata accampando il proprio interesse, e pertanto non vanno assolutamente violate" [G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale – 1, LAS ed. Roma 1996, pag. 242].

Ed esistono ragioni per agire che non posseggono nessuna o non posseggono tutte quelle cinque caratteristiche; sono ragioni convenzionali, interessate, particolari, non capaci di regolare i propri desideri ma al servizio di questi, non assolutamente valide.

Quando la persona umana agisce per ragioni del primo tipo, ha intuito o razionalmente compreso un "bene intelligibile" come motivo della sua scelta; quando la persona umana agisce per ragioni del secondo tipo, vuole ed intende perseguire un "bene sensibile". Possiamo dunque dire che il "bene intelligibile" è il bene della persona umana come tale, e che il "bene sensibile" è il bene della persona umana in quanto individuo senziente. Potrei anche dire la stessa cosa nel modo seguente.

Quando una persona agisce, lo fa per un fine, cioè per perseguire un bene. Se del fine perseguito il soggetto che agisce non può esibire ragioni che abbiano tutte quelle caratteristiche, il bene perseguito è un bene soggettivo poiché il bene sensibile è sempre e solo soggettivo. Se del fine perseguito il soggetto che agisce può esibire ragioni che hanno quelle caratteristiche, è un bene oggettivo, poiché solo la ragione è capace di percepire un bene in sé e per sé e quindi riconoscibile da ogni soggetto ragionevole.

Orbene, che cosa è accaduto nella nostra cultura occidentale? è stata progressivamente introdotta una visione dell’uomo secondo la quale questi non può avere ragioni del primo tipo per le sue scelte, ma solo del secondo tipo. L’uomo cioè è portatore di interessi, di desideri nei confronti dei quali la ragione non ha, perché non può avere, un ruolo regolativo/egemone, ma solo servile/strumentale: la ragione è la facoltà che serve a realizzare nel modo più soddisfacente i propri desideri, od a creare le regole sociali perché ciascuno possa farlo senza impedimenti reciproci.

A costruire questa visione di uomo, di cui è impregnata la nostra cultura, hanno soprattutto contribuito due concezioni. La concezione dell’uomo ridotto a soggetto mosso ad agire solo dalle proprie passioni; la concezione della libertà come pura indifferenza, vuoto di tendenze prima delle sue scelte [in termini tecnici: negazione della voluntas ut natura].

Questa è la cornice interpretativa generale dentro la quale ora vorrei inserire i fatti schematicamente richiamati sopra.

La sessualità umana ed il suo esercizio non può non conoscere una paurosa perdita di significato dovuta alla riduzione sostanziale della sua verità. Perdita e riduzione causata anche dalla progressiva separazione del corpo dalla persona. In che cosa consiste la perdita di significato? Nell’aver pensato, ed oggi questa è un’opinione pacificamente ammessa, che l’esercizio della sessualità non ha alcuna bontà oggettiva [nel senso detto sopra], ma solo soggettiva. E ciò perché – ed in questo consiste la sostanziale riduzione della sua verità – la sessualità ed il suo esercizio è un fatto che in sé e per sé non ha nessuna verità, ma solo diversità di interpretazioni tutte ugualmente vere/false: l’esercizio eterosessuale ha lo stesso significato e quindi lo stesso valore dell’esercizio omosessuale della sessualità. Cioè: nessun significato e valore, se non in riferimento a chi lo vive, da cui il senso (della propria sessualità) esclusivamente dipende. Così come l’esercizio eterosessuale coniugale ha lo stesso valore di quello extra-coniugale.

La dimensione procreativa della sessualità, più esattamente ancora, la fertilità inerente alla sessualità viene coerentemente compresa e vissuta all’interno di quella cornice antropologica. Il concepire non ha in sé e per sé un valore, ma lo acquista totalmente in dipendenza dai desideri del soggetto che esercita la propria sessualità nel periodo fertile. Se il concepire è in contrasto con quelli, il contra-concepire è un bene: la contraccezione è il mezzo che la scienza offre ad una ragione strumentale ai desideri della persona. Se il concepire è in accordo con i desideri del soggetto, il figlio deve essere ricercato ad "ogni costo": le tecniche della procreazione artificiale sono il mezzo offerto ad una ragione strumentale ai desideri della persona [su questo punto mi permetto rimandare alla mia riflessione Il figlio: dono o diritto in Bollettino Ecclesiastico ufficiale per la Chiesa di Ferrara-Comacchio 3/4-2000 pag. 497ss].

Ora possiamo comprendere fino in fondo alcune connotazioni che ho dato ai fatti schematicamente richiamati nel primo punto della mia riflessione.

Ho parlato di "banalizzazione" della contraccezione. La connotazione ha un significato assai preciso. La contraccezione è semplicemente ciò che serve ad un esercizio della sessualità vuoto di ogni senso che non sia quello dell’istante.

Ho parlato di "privatizzazione" del problema aborto. La connotazione ha il preciso significato che l’esercizio della sessualità, con tutto ciò che esso comporta, riguarda esclusivamente l’individuo. Le legge deve solo regolamentare la coesistenza di individui, in modo tale da consentire la libera contrattazione dell’uso del proprio corpo. Resta legalmente proibito, e solo questo può restare tale, la violenza carnale e l’uso del corpo di chi non è ancora in grado di consentirvi contrattualmente [pedofilia]. Sono sicuro che le legislazioni sull’aborto, già così permissive, saranno di fatto spazzate via ben presto.

La grande duplice eredità greca e latina, che il cristianesimo aveva purificato, ed elevato, è andata in larga misura dispersa, l’idea di un "logos/ratio" capace di regolare i desideri dell’uomo; l’idea di una beatitudine che non poteva che essere la vita retta. Ad essi è stata sostituito l’ideale di una vita felice indipendentemente dal bene morale dalla rettitudine morale, e ridotta ad una vita di tranquillità e di disponibilità di beni strumentali. Sostituzione dovuta ad un vero e proprio crollo che l’uomo ha subito nella coscienza di se stesso.

3. La voce della Chiesa

L. Amicone ha scritto recentemente su un quotidiano italiano: "Ho sentito dei giovani dire: la mentalità oggi è, quanto meno, confusionaria e contraddittoria. Sembra tutto uguale, cioè lecito. Ognuno difende il suo, ma sembra non interessato a scoprire se sia vero o no" [su il Giornale, 11 ottobre 2002, pag.1]. E’ questo il vuoto di verità in cui oggi si muovono i giovani. La riflessione che oggi stiamo facendo è un test privilegiato sia per capire la condizione spirituale dell’uomo sia il compito della Chiesa: concretamente la nuova evangelizzazione.

La vera disgrazia dell’uomo oggi è di aver smarrito la propria ragione, di averla degradata ad essere solamente una ragione calcolatrice e strumentale. Non abbiamo a che fare con un uomo incredente, ma – ed è peggio – irragionevole. Già diversi anni or sono, A. Del Noce scriveva: "la condizione spirituale dell’età moderne, è proprio la problematicizzazione della fede in quanto verità (in che modo la verità possa diventare mia verità" [cit. da L. Santorsola, Il problema dell’etica nella società secolarizzata secondo il pensiero di A. Del Noce, ed Mursia, Roma 1999, pag. 419]. Se le cose stanno così, e la condizione in cui versa oggi la visione comune della sessualità lo mostra ampiamente, allora la voce della Chiesa deve annunciare in primis la verità: deve fare appello a quella ricerca di senso assoluto e definitivo che non possiamo ritenere sia estinto neppure nel cuore dell’uomo di oggi.

Ma nello stesso tempo, e per la stessa ragione, la dimensione educativa del messaggio cristiano deve essere rimessa al centro della nuova Evangelizzazione. Diversamente la Chiesa rischia di esporsi quotidianamente all’insidia di auto-legittimarsi di fronte al mondo come "agenzia di servizi" religiosi e/o sociali. La vera, profonda auto-legittimazione la Chiesa oggi più che mai la deve rinvenire là dove unicamente la deve cercare: nel suo esistere come presenza di Cristo nel cui mistero solamente "trova vera luce il mistero dell’uomo" [Cost. past. Gaudium et spes 22,1; EV 1/1385]. La trova in Cristo, via verità e vita dell’uomo. In breve: la Chiesa oggi deve dire la verità all’uomo sull’uomo. A decidere del senso della Chiesa è la verità di Dio e dell’uomo, che trovano la loro piena rivelazione ed unità in Cristo Verbo incarnato.

Orbene uno dei nodi nevralgici della verità sull’uomo, e quindi – come abbiamo detto – uno dei luoghi in cui possiamo constatare la rinuncia dell’uomo alla sua ragione, è la relazione uomo-donna, e quindi la sessualità ed il matrimonio. Il Magistero di Giovanni Paolo II ha inteso ricostruire la verità di questa relazione nella coscienza dell’uomo contemporaneo, ripartendo dal "principio" cioè dalla verità della creazione, che trova la sua piena rivelazione nel "principio" della redenzione". Mi chiedo spesso quanto questo Magistero sia diventato patrimonio comune della Chiesa.

Conclusione

La missione educativa oggi consiste nel ridonare alla persona la grandezza della scelta libera, nella quale viene alla coscienza l’immagine di Dio che è il nostro essere. Questa grandezza è deturpata nei fatti e negata nella teoria quando la scelta è compiuta in un vuoto di senso assoluto e definitivo: Tommaso insegna profondamente che non esiste uomo che non agisca per un fine ultimo [cfr. 1,2,q.1,a.4]. Porre l’ultimità in un bene che non sia essere definitivo è stata da sempre la rinuncia dell’uomo alla sua libertà.

La cultura della sessualità quale si manifesta oggi dimostra che al riguardo la risposta alle domande etiche non può essere solo etica. La domanda etica che emerge oggi dal problema della contraccezione e dell’aborto è domanda di senso e quindi di una verità che tocca l’uomo nella interezza del suo essere e del suo agire.