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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


S. TERESA DI LISIEUX: RITORNO ALL’ESSENZIALE
Carmelo di Parma 16 novembre 1996

 E’ necessario che ci introduciamo nell’esperienza e nella dottrina di S. Teresa attraverso due premesse che sono necessarie per un giusto approccio al nostro tema.
 
01. I santi non appartengono mai esclusivamente ad una particolare comunità credente (famiglia religiosa, diocesi...): essi sono “patrimonio” di tutta la Chiesa. E’ però anche vero che i santi, come ogni persona umana, sono condizionati storicamente ed hanno una precisa appartenenza. Dunque: sono di tutta la Chiesa, uomini/donne del loro tempo con una precisa appartenenza.
 In alcuni di essi, l’appartenenza “universale” è più chiara. Teresa di Lisieux è fra questi: nei suoi confronti, abbiamo una serie di impressionanti interventi dei Sommi Pontefici che raccomandano il messaggio dottrinale di questa santa. E’ un caso piuttosto singolare (cfr. R. Moretti, Dio Amore misericordioso. Esperienza, dottrina, messaggio di Teresa di Lisieux, ed. LEV, Roma 1996, pag. 168-189: sono riportati tutti gli interventi da S. Pio X a Giovanni Paolo II).

02. Il libro dei Salmi ci insegna che poi possiamo rivolgere a Dio delle domande. Ma l’apostolo Paolo ci avverte che ci sono domande impertinenti che non ci possiamo permettere di rivolgere a Dio (cfr. Rom. 9,19-21). In sostanza si tratta di questo. Esiste fra l’infinita ricchezza della natura divina e la creazione (la realtà creata) una distanza incolmabile: nessun possibile progetto divino sarebbe capace di esprimere pienamente tutta le divine perfezioni compresenti nella divina essenza. Di qui, due conseguenze. Ogni progetto divino di fatto scelto e realizzato comporta necessariamente un limite nel senso che non sarà in grado di esprimere l’infinita ricchezza di Dio. La realizzazione, pertanto, di un progetto a preferenza di un altro comporta una “scelta” da parte di Dio, e la scelta significa in concreto la decisione divina di voler manifestarsi, di voler comunicarsi in un modo a preferenza di un altro.
 Alla luce di quanto detto, dovrebbe risultarci chiaro quali domande sono impertinenti e quali pertinenti. Sarebbe una grave impertinenza chiedere a Dio perché ha voluto, ha deciso di scegliere l’ordine della realtà nella quale noi di fatto siamo piuttosto che un altro: un vaso non chiede al vasaio perché gli dà una forma piuttosto che un’altra. Ma non è impertinenza chiederci “quali delle sue perfezioni Dio intende particolarmente manifestare in questo piano di provvidenza; che cosa si è proposto di dirci attraverso il linguaggio oggettivo degli esseri che sono stati chiamati all’esistenza” (G. Biffi, Approccio al cristocentrismo, ed. Jaca Book, Milano 1994, pag. 46).
 La domanda cioè è la seguente: con quale volto Dio ha voluto manifestarsi all’uomo? Chi è il Dio che di fatto ha deciso di rivelarsi? Ecco, ora possiamo iniziare l’esposizione della dottrina ed esperienza spirituale di S. Teresa: essa risponde in primo luogo a questa che è la domanda centrale, il punto di partenza di ogni esperienza di fede.

1. Partiamo da una affermazione che troviamo verso la fine del Manoscritto A. (le citazioni sono da Therése de Lisieux, Oeuvres complètas, ed. Cerf - DDB, Paris 1992; la traduzione dall’originale è mia).
“Comprendo che tutte le anime non possono essere simili; è necessario che ce siano di diversi caratteri al fine di onorare in modo speciale ciascuna delle perfezioni del Buon Dio. A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che io contemplo ed adoro le altre perfezioni divine” (pag. 211).
Per Teresa, Dio ha voluto mostrarsi come “misericordia infinita”. Questa rivelazione costituisce il “criterio interpretativo” di tutta la Rivelazione. E’ dunque necessario che penetriamo nell’intimo di questa prospettiva.
L’amore di Dio in quanto misericordia è un amore che previene ogni nostra iniziativa ed opera, cioè è completamente gratuito. Quando Teresa riceve l’ordine da madre Agnese di scrivere la propria autobiografia, ella apre il Vangelo e si imbatte nel seguente passo: “Gesù, salito sulla montagna, chiamò a Sé coloro che volle” (Mc 3,13). Teresa commenta:
“ Ecco davvero il mistero della mia vocazione, della mia intera vita e soprattutto il mistero dei privilegi di Gesù alla mia anima ... Egli non chiama coloro che ne sono degni, ma coloro che gli piacque” (pag. 71; continua citando Rom. 9,15-16)
Ma perché la “logica” della gratuità preveniente appaia in tutto il suo splendore, è necessario (se così posso dire) che la Misericordia di Dio preferisca rivolgersi verso il basso, verso chi non è e non ha nulla. Nel Manoscritto B, scrive:
“l’amore mi ha scelto come olocausto, me, debole ed imperfetta creatura ... questa scelta non è forse degna dell’Amore? Si, perché l’Amore sia pienamente soddisfatto, è necessario che si abbassi, che si abbassi fino al nulla e che trasformi questo nulla in fuoco” (pag. 227)
Il testo è mirabile nella sua chiara semplicità: che cosa è degno, quali scelte corrispondono coerentemente all’Amore in cui Dio ha voluto rivelarsi? Poiché ha voluto amarci non con un amore qualsiasi, ma con un amore di misericordia, la scelta più adeguata è di amare chi non è e non ha niente: così si mostra nel modo più chiaro la qualità del suo Amore.
Questa “logica” dell’Amore divino si spinge fino al punto da donare ogni bene senza alcun merito da parte della creatura, facendo sì che questa semplicemente ne goda. E’ nel contesto di questa riflessione che Teresa ha una delle intuizioni più profonde. Ella scrive alla sorella Celina:
“Sa Gesù ha detto della Maddalena che ama di più colui al quale è stato perdonato di più, questo lo si può dire con ancora più di ragione, quando Gesù ha rimesso prima i peccati” (pag. 441).
Teresa è convinta che essa avrebbe potuto compiere ogni peccato. Se questo non è accaduto, è stato perché Dio lo ha impedito colla sua grazia. Poiché ormai ella vede tutto il comportamento di Dio nei nostri riguardi attraverso il “prisma” della misericordia, questa grazia che ha impedito di peccare è già per Teresa perdono. E così può scrivere che a lei Dio non ha perdonato molto, ma tutto (cfr. Manoscritto A, pag. 131-132: tutto il testo è assai importante). Per questo, Teresa vede tutta la sua vita come tutto e solo grazia. Qualche mese prima della morte, ella dice alla sua consorella che l’assisteva:
“...senza dubbio è una grande grazia ricevere i sacramenti; ma quando il buon Dio non lo permette, è bene ugualmente: tutto è grazia” (pag. 1009).

2. Di fronte a questa rivelazione che il Signore fa si Se stesso, se questo è il suo Volto, quale è la giusta attitudine dell’uomo di fronte a questo mistero? come sappiamo, esiste una sola attitudine giusta, quella che prende la forma delle tre virtù teologali, la fede, la speranza e la carità. Di fronte alla divina auto-comunicazione, l’uomo deve credere, sperare ed amare. Ma la grandezza dei santi consiste precisamente nel dire che cosa significa credere, sperare ed amare.  Anche da questo punto di vista, Teresa si presenta con un’esperienza e una dottrina singolarmente profonda. Direi che la sua originalità la si scopre da due punti di vista.
Teresa giunge ad una straordinaria semplificazione del nostro essere e vivere col Signore. Essa scopre che esiste come un “vertice” nel quale le tre virtù teologali si unificano, come le tre superfici di una piramide terminano in un solo punto. Quale è questo “vertice” verso cui l’esperienza intera dell’uomo in rapporto con Dio che si auto-comunica, deve essere orientata? Certamente, Teresa sa dalla fede della Chiesa che esso è la carità. Ma la sua originalità consiste nel modo con cui Teresa pensa e vive l’amore, vero “punto” in cui tutta la sua vita si è concentrata. In che modo? Non pochi studiosi di Teresa hanno risposto nel modo seguente: come (amore di) confidenza, oppure (intendendo dire la stessa cosa) come abbandono. Ma questi termini cosi estenuati oggi anche nel vocabolario cristiano, non ci aiutano a capire. E’ meglio che procediamo più lentamente.
 E’ necessario partire da alcune certezze pratiche, esistenziali, che sono una conseguenza immediata di ciò che si è già detto.
 La prima certezza è paradossale: la vera ricchezza della creatura è la sua povertà, la vera forza è la sua debolezza. E pertanto, non solo non si deve sfuggire da questa povertà e debolezza, ma amarle come i nostri veri tesori. Solo così noi consentiremo a Dio di essere Dio, cioè Misericordia e Grazia. I testi teresiani al riguardo sono innumerevoli. Mi limito a citare i più sconvolgenti. In una lettere a Celina scrive:
“Quale grazia quando al mattino non sentiamo nessun coraggio, nessuna forza per praticare la virtù” (pag. 360).
Ma il documento più impressionante è la lettera scritta un anno prima della sua morte a Sr. Maria del Sacro Cuore:
“più si è deboli, senza desideri, senza virtù, più si è adatti alle operazioni dei questo Amore consumante e trasformante” (pag. 553).
E’ necessario fare una osservazione per non fraintendere quanto dice la santa. Essa non sta facendo un discorso ascetico sulla virtù dell’umiltà: l’umiltà è una virtù che rende grandi davanti a Dio. Teresa parla di sé come di una persona che resta semplicemente nella sua nullità che è oggettivamente povertà, imperfezione. E di questa condizione, la Santa dice di godere in un modo incomparabile. “non c’è gioia paragonabile a quella che gusta il vero povero di spirito” (Manoscritto C, pag. 256). Per cui non bisogna neppure volerne uscire: “bisogna acconsentire a rimanere povere e senza forza ed ecco il difficile ... amiamo la nostra piccolezza, amiamo di non sentire niente” (lett. cit. pag. 553).
A questo punto, qualcuno potrebbe restare seriamene perplesso di fronte ad una tale posizione, chiedendosi se con essa non si arrivi diritti ad una sorta di quietismo spirituale, ad un’astenia interiore nella quale niente più si desidera o si vuole, per non uscire mai dalla propria oggettiva povertà. E ci sono espressioni di Teresa che sono semplicemente sconcertanti al riguardo: “ciò che Gli piace è vedere che io amo la mia piccolezza e la mia povertà” (lett. cit. pag. 553); “io non mi inquieto di essere una piccola anima, al contrario ne gioisco” (Lett. 224, pag. 584).
In realtà, e siamo nel cuore della dottrina teresiana, l’esperienza della sua povertà voluta ed amata è l’altra faccia che soggiace e nutre la consegna totale di se stessa all’Amore consumante e trasformante del Dio che è solo Misericordia e Grazia. Siamo arrivati ad un punto in cui possiamo solo balbettare qualcosa.
Se Dio vuole comunicarsi all’uomo come sola Misericordia, se Dio vuole rivelarsi all’uomo come solo Grazia, in che modo l’uomo potrà stare davanti a Lui  in verità? Come potrà incontrarlo veramente? Come sarà possibile per l’uomo vedere il Volto di Dio? Se si presenta con qualcosa nelle mani, se vorrà - per così dire - attirare l’attenzione di Dio a causa di ciò che ha nelle sue mani, quale Dio l’uomo vuole in realtà incontrare? Un Dio che non è più pura Misericordia, che non è solo Grazia, dal momento che l’uomo ha pure qualcosa, è pure qualcosa da attirare l’attenzione di Dio. Non è più un volgersi divino motivato solo dalla sua misericordia e grazia. Se al contrario io non ho niente, che cosa mi da il diritto di sperare che Dio si volgerà verso di me? Solo la sua Misericordia, solo la sua Grazia.
In sostanza Teresa dice: “se Dio ha voluto essere per me solo Misericordia, solo Grazia, c’è un solo modo di «sentire» questa sua volontà (cioè di vedere il volto di Dio), quello di essere ed avere niente in me che possa giustificare il suo Amore verso di me”. In forza del mio essere-avere niente mi consegno (abbandono) totalmente alla Grazia che mi farà essere - avere tutto. Quale è dunque la mia forza? Quella di non averne nessuna perché solo così Dio potrà comunicarsi a me nel solo modo in cui ha voluto farlo. In sintesi: l’uomo è nulla in sé e quindi (proprio per questo) è tutto in Dio. il nulla dell’uomo che diventa tutto in Dio si chiama dal punto di vista dell’attività umana, abbandono (confidenza, consegna di sé); il tutto di Dio che trasforma il nulla della creatura si chiama, dal punto di vista dell’agire divino, misericordia e grazia. Questa è l’unica possibilità, secondo Teresa, perché accada l’unità l’amore fra Dio e la creatura umana: “è la confidenza e niente altro che la confidenza che deve condurci all’Amore” (Lett. 197, pag. 553). E Teresa si sente investita della missione di insegnare questa “piccola via” a tutta la Chiesa, questo “ritorno all’essenziale”.
A questo punto bisognerebbe vedere quali conseguenze, se così possiamo dire, deriva da questo “nucleo” incandescente; meglio, come si configura, si plasma l’esistenza di colui che vive della sola misericordia e grazia di Dio. E’ un senso di gioia profonda; è l’esperienza di una grande pace che non riesce più a sopportare “un rosario di pratiche ... presa in reti” che non le piacciono (cfr. Lett. 144, pag. 469); è l’attesa dell’incontro finale col Signore, tanto più “sicuro” quanto più Teresa non avrà nulla in mano (“Io non ho opere! Egli dunque non potrà darmi «secondo le mie opere» ... Ebbene! Egli mi renderà «secondo le sue opere»”: pag. 997). Ma non è di questo che intendo parlarvi. Vorrei approfondire ancora quello che ho chiamato il “nucleo incandescente” dell’esperienza di Teresa. Da una particolare prospettiva.

3. Nel punto precedente abbiamo visto che la fede e la speranza devono prendere una “forma” della più radicale confidenza, la sola che pone in essere l’unità di Amore fra Dio e la creatura. Questa unità, fa sì che la creatura diventi tutto in Dio. L’atto della totale confidenza-consegna “non può risolversi in una perdita: perché l’amore di Dio non vuole distruggere la creatura, ma assumerla in sé. Se la svuota, dunque, è per riempirla di sé, e se vuole che essa non conti sulla propria giustizia, è perché intende rivestirla - in cambio del suo abbandono - della sua stessa giustizia, forza e santità divina. Se vuole che si abbandoni, è perché intende portarla” (U. Neri, Teresa di Gesù Bambino del Volto divino, ed. EDB, Bologna 1994, pag. 33 ove ci sono le relative citazioni). Il punto ultimo cioè cui tende questa esperienza, la sua perfezione si ha quando si incontrano la totale disponibilità della creatura a ricevere tutto dalla misericordia e grazia di Dio e l’assunzione-elevazione della creatura da parte di Dio nella sua stessa vita e santità. E questo si realizza in Teresa quando compie la famosa “offerta all’amore misericordioso”. Essa in fondo esprime e realizza l’incontro perfetto fra la miseria di Teresa e la misericordia di Dio. Ma non è tanto sul significato  che l’offerta ebbe nella vita di Teresa, che voglio attirare la vostra attenzione. Piuttosto sul significato ecclesiale.
 Con questo atto, Teresa non si lascia chiudere dentro il Carmelo di Lisieux, ma si unisce ad ogni persona umana, ponendosi nel cuore stesso della Chiesa. Pone se stessa come mediatrice di amore, aprendo in ed attraverso lei, il fiume della misericordia divina verso ogni uomo bisognoso di salvezza.
 Quale è la conseguenza di questo atto? Teresa diviene partecipe della passione di Cristo in un modo del tutto singolare, attraverso sofferenze davvero straordinarie, poiché toccarono anche ed insidiarono la certezza della sua fede. “Non si può mai insistere abbastanza su questa dimensione di croce nella vita di Teresa ... considerando questo dato come capitale per la giusta comprensione della sua dottrina” (U. Neri, cit. pag. 44).
 C’è un testo teresiano che ci può illuminare:
“Io Gli dico che sono felice di non godere di questo bel Cielo sulla terra perché Egli l’apra per l’eternità ai poveri increduli” (Manoscritto C, pag. 243).
 La misericordia del Padre compie la sua opera nella passione del Figlio: nella notte del suo abbandono. Teresa rivive il dramma della Passione, portando su di sé il peccato di oggi: l’incredulità. Essa sente dentro di sé la tentazione di pensare che la nostra vita è destinata alla “notte del niente” (ibid.). In questo la Misericordia ha continuato la sua opera di salvezza, facendo portare a Teresa la croce della passione, nella condivisione del peccato del mondo moderno. La sua fragile persona diventa, nella partecipazione alla Passione di Cristo, la tavola di salvezza per i suoi fratelli increduli.
 

Conclusione

 Qualche settimana prima di morire, fu chiesto a Teresa di spiegare che cosa intendesse per “restare piccoli davanti a Dio”. Ella rispose:
“Significa riconoscere il proprio niente, attendere tutto da Dio, come un piccolo bambino aspetta tutto dal proprio padre; significa non inquietarsi di nulla ... Anche presso i poveri, si dà al bambino tutto ciò che gli è necessario, ma appena è cresciuto suo padre non vuole più nutrirlo e gli dice: lavoro ora; puoi bastare a te stesso.
E’ per non sentirmi dire questo che io non ho voluto crescere, sentendomi incapace di guadagnare la mia vita, la vita eterna del Cielo”
E’ una sintesi perfetta della sua esperienza e dottrina: tutto è solo grazia. Sola misericordia tua.