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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Teologia della salute»
Congresso al Bambin Gesù, 29 ottobre 1985


Penso che il compito di una riflessione teologica, all’interno delle varie tematiche di questo Congresso, sia quello di mostrare le ragioni profonde della presenza della Chiesa nel campo sanitario, per elaborare, di conseguenza, dei criteri etici, in base ai quali orientare questa stessa presenza per il futuro. Saranno queste le parti fondamentali della mia riflessione.

 

1. Le ragioni di una presenza

Vi sono alcune esperienze fondamentali che accompagnano l’uomo nel suo vivere quotidiano: la gioia, il lavoro, l’amore, per esempio. Ciò che caratterizza queste esperienze è che esse costringono l’uomo a rientrare in se stesso, ad interrogarsi sulle ragioni ultime del suo vivere, a porre in questione il significato stesso della sua esistenza.

È fuori dubbio che fra queste esperienze troviamo anche la malattia (fisica e/o psichica). Lo stato di impotenza in cui colloca l’uomo, la necessità conseguente che questi ha di affidarsi alla cura di un altro, la consapevolezza della fragilità costituzionale della nostra esistenza, sono alcune delle dimensioni “spirituali” entro le quali l’uomo vive la sua malattia. Esse convergono tutte nel condurre la persona umana alla scoperta di una verità su se stessa che, ordinariamente, essa cerca di mascherare a se stessa: la verità del proprio essere dipendente, fragile, esposto, alla fine, al rischio della morte.

La Chiesa deve essere presente dentro questa esperienza? È fuori dubbio che sì. Ma per quali ragioni? Esse sono molteplici e strettamente connesse colla sua missione.

L’oggetto — se così possiamo dire — di questa missione è che l’uomo sia salvato: nella sua dignità di soggetto chiamato ad entrare nella partecipazione eterna della stessa vita di Dio. Cristo ha preso su di sé la causa dell’uomo: la causa eterna ed ultima. E la Chiesa esiste come luogo nel quale Cristo prende su di sé la causa dell’uomo: di ogni uomo e, in un senso preciso, di tutto l’uomo. Ma in che modo, Cristo ha preso su di sé la causa dell’uomo? facendosi uomo, vivendo in tutta verità il dramma della condizione umana e, dal di dentro, risolvendolo. E la Chiesa è il luogo in cui questa finale, decisiva, “soluzione cristologica” del dramma umano continua ad accadere. Sarebbe troppo lungo, e non è neppure necessario, mostrare i modi tutti nei quali questo avviene, A noi è chiesto solo di riflettere sul modo ecclesiale di risolvere quel particolare aspetto del dramma umano che è la malattia. Vorrei partire un po’ da lontano.

La Chiesa vede l’uomo con gli occhi stessi di Cristo, l’uomo ammalato intendo dire. Ora, Cristo ha visto nella guarigione dell’ammalato un’espressione della sua missione messianica, cioè, la liberazione dell’uomo dalla malattia — che l’uomo già tentava, anche prima di Cristo — viene assunta dentro quella missione che costituisce la ragione stessa dell’esistenza umana di Cristo. In forza ed alla luce di questa assunzione, la guarigione dell’ammalato acquista un senso del tutto nuovo: essa si inscrive in quell’opera della salvezza, in vista della quale il Figlio si è fatto uomo. Più chiaramente e profondamente. Il “male” dell’uomo, nel suo senso più vero, si trova in quello stato di disordine morale che pone l’uomo contro il progetto stesso di Dio. Di questo disordine una delle conseguenze e segni, globalmente parlando, è anche la malattia. Globalmente, ho detto, poiché Gesù stesso ci rende cauti nella connessione peccato-malattia. In questo senso la guarigione del malato si inscrive nella stessa missione messianica di Cristo, che la Chiesa continua a realizzare in ogni tempo e luogo.

La Chiesa si assume la “causa” dell’uomo ammalato per questa ragione fondamentale.

 

2. I modi di una presenza

La seconda questione è come avviene questa assunzione. Immediatamente ed ovviamente, il primo modo è quello di mettere in atto tutta quella strumentazione necessaria per guarire l’ammalato. La cosa è talmente ovvia che non è necessario fermarci lungamente su questo punto. Mi limito solamente ad alcune osservazioni, Storicamente consta che nell’Università, inventata e creata dalla Chiesa, esisteva sempre la facoltà o scuola di medicina (assieme a quella di teologia e diritto). Il fatto è significativo. La Chiesa, fin dall’inizio, ha visto che la sconfitta della malattia è in primo luogo frutto di conoscenze scientifiche. La malattia non è una oscura fatalità: essa ha delle ragioni precise. Conoscerle per sconfiggerle è il primo compito. La Chiesa assume la causa del malato promuovendo la conoscenza scientifica, anche creando proprie istituzioni al riguardo. Penso che questo sia un punto imprenscindibile ed indiscutibile.

In questo contesto si pone, tuttavia, oggi un problema serio. Non mi riferisco al problema dei costi economici che comporta la ricerca scientifica: penso che altri tratteranno questo tema. Penso al problema del rapporto, che può essere anche di conflitto, fra ricerca scientifica e norme morali. È questo un problema antico, ma che oggi è ritornato con una nuova urgenza e gravità.

Il progressivo affinarsi del metodo scientifico ha condotto il medesimo ad una cosiddetta “oggettività” che induce continuamente lo scienziato nella tentazione di dimenticare che egli ha a che fare con un “soggetto”, cioè colla persona umana. E la persona umana possiede una tale dignità che non può mai essere usata per nessuna ragione, per nessun fine estraneo ad essa, sia pure nobilissimo. Non posso usare la persona umana, neppure se questo uso mi consentisse un progresso nelle conoscenze scientifiche. Questa limitazione — che non è qui il caso di esemplificare con casi concreti — è tale solo apparentemente. E ciò per due ragioni. In primo luogo, perché consta anche storicamente che il rigore etico — o meglio: l’esigenza dei valori etici — ha, per cosi dire, costretto spesso lo scienziato a percorrere altre e nuove vie di ricerca. Se, per fare un solo esempio, la Chiesa non avesse sempre ed inequivocabilmente giudicato l’aborto illecito, avremmo avuto lo stesso progresso scientifico nel campo ostetrico? l’uccisione dell’embrione non è anche ...molto poco scientifica? Ma c’è anche una seconda e più importante ragione per cui l’etica non costituisce un limite alla ricerca scientifica. Pensare, infatti, il contrario equivale a dimenticare che, alla fine, il fine della ricerca scientifica è l’uomo, il cui bene vero è precisamente difeso dalle norme etiche.

Ma c’è un secondo e non meno importante modo con cui la Chiesa assume la “causa” dell’uomo ammalato. Nonostante tutte le acquisizioni scientifiche ed i progressi tecnologici, resterà forse sempre il fatto che alcune malattie risultano invincibili e che a chi è stato colpito da queste malattie è possibile solo prolungare un’esistenza ammalata, senza speranza di guarigione. A questo uomo deve farsi vicina la Chiesa, poiché solo essa in queste situazioni ha la parola che in tutta verità è di consolazione. Ho conosciuto questa situazione vissuta da persone che conoscevano che la medicina non poteva offrire loro più nulla di decisivo. Questa medesima situazione può essere vissuta in due modi radicalmente diversi, a seconda che il malato si ritenga solo “abitante del tempo” o anche e soprattutto “abitante dell’eternità”.

Nel primo caso, l’esperienza è vissuta come il momento in cui ogni illusione getta la propria maschera e l’uomo si mostra per quello che è: un essere che nel suo essere destinato ad una morte eterna è in se stesso assurdo. E questo “momento supremo della verità” apre così, spesso, la porta alla disperazione. Nel secondo caso, è vissuta certamente come il “momento supremo della verità”, ma in un senso completamente diverso. La verità ultima di un’esistenza che non ha nel tempo la sua permanente abitazione e che giudica ormai tutto dal punto di vista dell’eternità: cioè dall’unico punto di vista dal quale è possibile vedere la realtà come essa è. La presenza della Chiesa è necessaria precisamente per elevare l’uomo ammalato a questo supremo punto di vista.

 

3. Le forme di una presenza

Storicamente la presenza della Chiesa ha assunto due forme fondamentali. La Chiesa ha creato propri ospedali (prima forma); la Chiesa è presente in ospedali — in genere, istituzioni sanitarie — creati da altri, solitamente attraverso i religiosi e le religiose (seconda forma). Si realizza, dunque, una forma istituzionale di presenza ed una forma personale (cioè attraverso solo singole persone). È sempre rischioso elaborare una riflessione teologica sulle forme storiche. Si corre sempre un duplice rischio: il rischio di assolutizzare ciò che è relativo ad una parti colare condizione storica e/o relativizzare ciò che è assoluto, cioè di non percepire che in una data forma ha preso corpo una percezione di una esigenza evangelica permanente. Vorrei, nonostante questo duplice rischio, tentare ugualmente alcune osservazioni di carattere teologico sia a riguardo della prima sia a riguardo della seconda forma.

La prima forma di presenza mi sembra assolutamente necessaria. Per varie ragioni. La Chiesa non è una comunità privata, invisibile, chiamata ad una esistenza storicamente non percepibile. Essa deve prendere corpo in questo mondo: soprattutto ed in primo luogo in quegli ambiti umani ove la “causa” dell’uomo è particolarmente drammatica, come la malattia. La rinuncia della Chiesa alle proprie istituzioni sanitarie di fatto equivarrebbe all’assenza della Chiesa come tale da un “luogo” nel quale l’uomo è confrontato in un modo particolarmente drammatico col proprio destino. L’uomo, questo uomo che vive questo confronto ha bisogno di “vedere” la Chiesa, di sperimentarne la presenza e la compagnia. Oltre a questa ragione di carattere, direi, strutturale, attinente cioè alla missione ed alla natura stessa della Chiesa, esistono ragioni più “congiunturali”, per così dire, ma ugualmente importanti. Accenno ad alcune. Come voi sapete, l’umanità sta vivendo, nel campo della ricerca scientifica, un momento senza precedenti. La ricerca bio-genetica sta dando all’uomo conoscenze e poteri tali che l’uomo potrebbe già decidere sul futuro delle generazioni umane. L’uomo ha messo le mani sulle sorgenti stesse della vita umana. La Chiesa può essere istituzionalmente assente da questo ambito di ricerca scientifica? Sarebbe, a mio modesto avviso, un imperdonabile peccato di omissione. Ed ancora. Come ho già detto, se da una parte i progressi scientifici hanno vinto malattie che l’umanità da secoli riteneva invincibili, dall’altra questi stessi progressi hanno anche allargato la vita di ammalati che permangono tuttora inguaribili. La degenza in ospedali pubblici, per varie ragioni che conoscete meglio voi di me, non può di fatto prolungarsi più di tanto. L’assistenza nelle famiglie o non è sempre di fatto possibile o non è voluta. Forse si apre un nuovo “spazio di carità” per queste situazioni sempre più crescenti alle istituzioni ospedaliere della Chiesa cattolica. Ed ancora. In molti stati è fortemente in crisi il sistema sanitario nazionale, là ove esso vige. Ci si rende conto della necessità di ridonare spazio alla iniziativa privata anche nel settore sanitario.

La seconda forma di presenza non pone particolari problemi dal punto di vista della riflessione teologica. Sono piuttosto problemi di altro genere, sui quali non ho alcuna competenza.

Si impone, tuttavia, una breve riflessione il riguardo. Il Magistero del Concilio Vaticano II ha lungamente riflettuto sulla specifica missione di “redimere” ogni realtà terrena, di essere nel mondo testimoni della salvezza. Da tutto ciò che abbiamo detto risulta che uno degli ambiti fondamentali in cui il laico è chiamato a vivere la sua missione è quello della sanità.

 

4. I criteri di una presenza

La presenza della Chiesa nel mondo della malattia, nei suoi vari modi e forme, è continuamente esposta al rischio di tradire la propria ragione d’essere, o, quanto meno, di non esprimere sempre colla dovuta coerenza la propria identità. Di qui la necessità di possedere dei criteri per giudicare questa presenza, al fine di correggere ciò che è da correggere.

L’individuazione di questi criteri deve essere fatta nel contesto di tutto quanto è stato detto finora. Ed anche, forse soprattutto, tenendo conto della secolare esperienza della Chiesa, espressa in primo luogo nella vita dei santi.

Il primo criterio è la preferenza che la Chiesa, anche in questo campo, deve dare al più piccolo, al povero. L’enunciazione di questo criterio può sembrare troppo generica e quindi poco funzionale. Per “povero” intendo l’uomo che manca ancora di un servizio sanitario, medico di base; intendo l’uomo che di fatto è abbandonato da tutti nella sua malattia (anche perché tutto ciò che poteva essere fatto è stato fatto). Come si vede subito, il contenuto del termine “povero” varia da paese a paese. E penso che uno dei compiti del presente Congresso debba essere anche la concreta individuazione di questa “categoria” di ammalati. È per essi che la Chiesa deve in primo luogo impegnarsi, sia in forma istituzionale sia in forma personale.

Il secondo criterio è la promozione — che significa anche attuazione in prima persona — della ricerca scientifica. Come ho già detto, senza la presenza della Chiesa in questo settore, esso è continuamente esposto al rischio, oggi più che mai, di rivoltarsi contro l’uomo. Se noi leggiamo attentamente i documenti del Magistero pontificio di questi ultimi anni, noi vediamo non solo un richiamo continuo a non sottrarsi a questo impegno, ma anche indicazioni molto precise di ambiti di ricerca. Essi riguardano i due momenti essenziali della vita umana: l’origine e la fine.

(A) Quanto all’origine, a me sembra che il Magistero abbia soprattutto richiamato l’attenzione sui seguenti punti: lo studio della fertilità (femminile) al fine di offrire alla coppia una via per una procreazione eticamente responsabile; lo studio e la ricerca sulle cosiddette “maternità difficili”, così che si giunga ad offrire sempre sul piano scientifico un’alternativa all’aborto; e sulla cura del feto; la ricerca nel campo genetico.

(B) Quanto alla fine, è sempre più urgente tracciare un confine netto fra “prolungare la vita” e “prolungare la morte”.

 

Conclusione

La via della Chiesa è la via dell’uomo: anzi l’uomo stesso è la via della Chiesa (cfr Redemptor hominis). La missione della Chiesa si radica nella stessa missione di Cristo. È per questo che la cura dell’infermo è una delle espressioni fondamentali e necessarie della carità cristiana: “ero infermo e mi avete visitato”, dirà il Signore nel giudizio finale. 

In un mondo nel quale la persona umana sempre più è ridotta ad essere come ogni altra cosa solo la carità della Chiesa potrà ridare al mondo, alla civiltà, quel “cuore” di cui ha bisogno: anche col suo servizio all’ammalato.