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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Non solum aguntur, sed per se agunt (I, 29, a1co): la perfezione della persona»
Relazione al Congresso Internazionale della S.I.T.A. “The Human Person.
Id quod est perfectissimum in tota natura (Summa Theologiae I, 29,3)
Bologna, 20 aprile 2017


Reverendo padre Benetollo, Presidente della Società Internazionale Tommaso d’Aquino,
chiarissimo professore Di Ceglie,
cari amici tutti qui presenti,

durante il mio ministero pastorale mi sono trovato spesso davanti una condizione umana che, penso non esagerando, definisco tragica: la persona umana che rinuncia ad essere persona, la persona umana che perde se stessa. Gesù dichiara che questa è la peggiore perdita anche se fosse il prezzo per entrare in possesso del mondo. Essere persona è più che avere il mondo intero! La mia domanda allora, come pastore, era: come aiutare l’uomo a ritrovare se stesso?

Fra le persone alle quali mi rivolgevo più spesso per avere un aiuto vi era san Tommaso d’Aquino: ho trovato in lui, attraverso una lettura permanente dei suoi testi, una dottrina sul ‘se stesso’, sulla ‘persona’, che costituisce una luce splendente nelle tenebre in cui viviamo; una dottrina capace di generare una pedagogia, anche pastorale.

Quanto ora dirò dunque nasce da questa esperienza mia di pastore e lo sottopongo, con timore e tremore, al giudizio di chi ha, come voi, una consuetudine con Tommaso ben superiore alla mia.

Il punto di partenza è l’articolo 1 della questione 29 della prima parte della Summa Theologiae; cercherò di attenermi il più possibile ai testi del Dottore angelico.


1. L’analisi dell’articolo

Già ad una prima lettura dell’articolo, appare chiaramente la sua struttura logica: la domanda verte sulla natura della persona (quid sit persona).

Il primo passo dell’iter teoretico è l’affermazione che la persona appartiene speciali quodam modo al genere sostanza: la ragione è che la sostanza è individuata per seipsam, contrariamente agli accidenti che sono individuati in forza del soggetto a cui ineriscono. Dunque l’universo dell’essere ha come due regioni: esse per seipsum, esse per aliud. L’essere questo qui, l’essere un qualcosa di determinato esige di essere connotato con un nome suo proprio quale, dice Tommaso, ipostasi oppure, e anche, sostanza prima. 

Il secondo passo avviene all’interno del concetto di essere sostanza come essere individuo, come essere questo qui. Nell’ambito di questo modo di essere esiste una sostanza prima, pensa Tommaso, una ipostasi che è tale specialiori et perfectiori modo: la modalità speciale e più perfetta di essere ipostasi, o sostanze prime, consiste nel fatto che esse habent dominium sui actus, et non solum aguntur, sicut alia, sed per se agunt.

Queste particolari ipostasi esigono dunque di essere connotate con un nome loro proprio: persone. Dunque la persona è un modo speciale e più perfetto di essere sostanza prima, individuo. La definizione di Boezio, termina Tommaso, è da accettare, poiché essa esprime il genere (substantia individua) e la differenza specifica (rationalis naturae)

Il procedimento dell’articolo è molto semplice: dall’universale (il concetto di sostanza) al singolare (questa particolare sostanza che è la persona); dal generico (genus) allo specifico. Questa è la struttura teoretica dell’articolo.

Faccio tre approfondimenti. 

1) Il primo approfondimento è ancora parzialmente testuale. Mentre nella specificazione della sostanza prima Tommaso pone una modalità entitativa (individuatur per seipsam), nella specificazione della persona pone una modalità operativa (non solum aguntur…sed per se agunt). Come è ben noto, la modalità operativa consegue alla modalità entitativa e l’atto primo si perfeziona nell’atto secondo. Direi allora che il sottofondo dell’articolo potrebbe essere enunciato nel modo seguente: la persona si caratterizza per il suo actus specialis et perfectior essendi. La manifestazione di questa speciale perfezione e la sua realizzazione in atto secondo consiste nel suo modo speciale di agire.

2) Il secondo approfondimento è la risposta a queste domande: le proprietà che caratterizzano ogni sostanza prima si trovano realizzate in grado eminente in quella sostanza prima che è la persona? Cioè: non si può essere più sostanza prima di quanto lo sia la persona e quindi, in assoluto, non si può essere più che persone?

Partiamo da un’esperienza originaria, la quale ci attesta un fatto incontestabile: mentre affermo la sostanzialità di realtà diverse da me stesso mediante una inferenza, esperimento, invece, immediatamente me stesso come soggetto, come punto terminale dentro la realtà; non ho coscienza di me stesso come di un altro di cui ho conoscenza. Il soggetto del mio esserci mi si mostra immediatamente. L’atto del conoscere non è cosciente di se stesso, ma mentre penso io sono cosciente di me che sto pensando: sono io che voglio, non è la volontà che vuole volere. Un filosofo contemporaneo, Josef Seifert, esprime questi concetti nel modo seguente: 

questo soggetto cosciente, conoscente e libero, che possiede la coscienza non solo delle altre cose ma anche di se stesso in azione e nella riflessione, non può inerire a null’altro, ma è dato univocamente nell’esperienza come autocoscienza sostanziale (1).

Da questa essenziale descrizione dell’esperienza originaria dell’autocoscienza deriva una conseguenza teoreticamente assai importante: poiché l’autocoscienza di cui stiamo parlando è metafisicamente possibile solo perché chi la vive è soggetto spirituale, la sostanzialità della persona è, quindi, dovuta alla spiritualità del soggetto anima. In breve: il nocciolo della sostanzialità della persona umana consiste nella sua soggettività spirituale. È questo modo di essere sostanza prima che realizza, nel caso della persona, in grado eminente tutte le proprietà della sostanza (per esempio la proprietà della permanente durata dentro al mutamento: ciò che ero e facevo da bambino lo attribuisco ancora all’io che sono ora).

3) Il terzo approfondimento consiste nel mostrare che l’eminente sostanzialità della persona si rivela massimamente e si realizza in actu secundo, mediante la capacità di agire per seipsum. È questa un’idea costante in Tommaso. Faccio tre esempi. Nel De Potentia q. 9 a. 2, Tommaso sostiene che il proprio della persona è proprie et vere per se agere. Ma il testo più significativo, a mio giudizio, è Contra gentes libro III, cap CXI (2855 edizione Marietti): Tommaso in esso insegna che le persone umane 

a) […] Praecellunt enim alias creaturas et in perfectione naturae, et in dignitate finis. b) In perfectione quidem naturae, quia sola creatura rationalis habet dominium sui actus, libere se agens ad operandum; ceterae vero creaturae ad opera propria magis aguntur quam agant […].

Si noti subito: viene introdotto l’accenno privilegiato all’agire libero. Fra parentesi, i primi tre capitoli del libro terzo della Contra Gentes sono, a mio giudizio, una delle più alte espressioni del personalismo metafisico in Occidente.

Dunque, il subsistere in sé e per sé si realizza in grado eminente nella coscienza che la persona ha di se stessa in quanto l’autocoscienza è la radice della capacità del libere se agere ad operandum. Questo sarà l’oggetto del prossimo paragrafo.


2. Autocoscienza e libertà

La definizione di persona di Boezio, fatta propria da Tommaso, viene da questi arricchita quando l’Angelico esplicita il contenuto della rationalis natura presente nella definizione boeziana. Spero di non sbagliarmi dicendo innanzitutto che Tommaso sembra suggerire che si introduca nel libere se agens ad operandum il tema dell’autocoscienza in quanto dimensione implicita; non nel senso, ovviamente, che l’autocoscienza costituisca la soggettività sostanziale della persona, ma nel senso che la rivela: è poi sulla base di questa manifestazione che ultimamente si costruisce l’antropo-logia come sapere che si esibisce universalmente valido. Usando un vocabolario più agostiniano che tommasiano, è il cogitare se che genera il nosse se: cioè, poiché la persona possiede una coscienza oggettiva di sé è capace di costruire su di essa un sapere sull’uomo universalmente valido e quindi comunicabile. San Tommaso si muove su questa linea e lo dimostra il fatto seguente: nella sua strenua lotta contro la tesi dell’unicità dell’intelletto agente, egli confuta gli averroisti sia attraverso l’esegesi dei testi aristotelici (oggi sappiamo che dagli studiosi di Aristotele questa esegesi di Tommaso non è più condivisa; ma non è questo il problema) sia, ed è questo che ci interessa, 

con il richiamo all’autocoscienza, cioè esperienza diretta che ognuno ha del proprio atto di intendere (hic homo singularis, particularis intelligit), ma l’intendere non potrebbe dirsi un atto proprio dell’uomo individuo se non procedesse da un principio immanente ad ogni singolo (2).

Così Cornelio Fabro nella sua relazione al Congresso della S.I.T.A. del 1986. 

Mi ha particolarmente colpito un testo del De spiritualibus creaturis, articolo 10 (la quaestio come sappiamo è unica), un testo molto chiaro: Et quod hoc verum fit [cioè la falsità della tesi averroista] experimento apparet [sottolineo: experimento]. Unus enim homo particularis, ut Socrates vel Plato, facit cum vult intelligibilia in actu […]. 

Dai testi tommasiani mi sembra che risulti che l’experimentum di cui Tommaso parla nel De spiritualibus creaturis non è semplicemente la consapevolezza dei molteplici fenomeni psichici e spirituali che avvengono nell’uomo, ma è coscienza del se stesso, del se stesso nella sua permanente identità. L’esperienza alla quale si richiama Tommaso come testimonianza della verità della sua tesi non è solo consapevolezza dell’atto dell’intelletto o dell’atto della volontà che vuole capire; è la coscienza del proprio io che vuole capire: unus enim homo particularis facit, experimento apparet. Il subsistere proprio di ogni sostanza diventa subsistere umano, cioè io umano, e si rivela come tale alla coscienza. Non dico che l’io è riconducibile alla coscienza di sé: esso si costituisce mediante la capacità del reditus in seipsum, la quale si radica nella natura spirituale della persona. Lo sfondo metafisico di ciò che sto dicendo è la distinzione, chiara in Tommaso, fra natura, facoltà e atto. In conclusione: la sussistenza, che è il modo proprio di essere delle sostanze, acquista attraverso l’autocoscienza la perfezione in ratione entis. È l’essere in sé e presso di sé che è incommensurabilmente superiore al nudo possesso di se stesso proprio delle sostanze non personali. Pertanto l’attribuzione della sostanzialità alle sostanze personali e alle sostanze non personali è un’attribuzione non univoca ma analogica.

Siamo così giunti al vertice della nostra riflessione. Tenterò, infatti, di capire perché Tommaso collochi nel per se agere la rivelazione più espressiva della sostanza spirituale della persona umana. In breve, cercherò di capire che cosa significa libere se agens ad operandum o seipsum movet ad agendum. Libere se agens; seipsum movet.

L’esperienza vissuta della causazione propria della persona può essere espressa nel modo seguente: posso ma non sono costretto. È precisamente tra il ‘posso’ e il ‘non sono costretto’ che si incunea il se agere ad operandum, il voglio - non voglio. La schematica presentazione dell’autocoscienza fatta sopra deve ora essere tenuta ben presente. L’esperienza dell’io-posso-ma-non-sono-costretto fa emergere all’interno della coscienza un aliquid che sta oltre la coscienza: l’io come soggetto che agisce, vera causa del suo atto in quanto poteva agire ma non era costretto. Non è solo coscienza di una proprietà dell’atto, non è solo coscienza della mia volontà in azione: è, al contempo, coscienza dell’io che agisce muovendo se stesso ad agire. È ciò che chiamiamo l’autodeterminazione e che Tommaso descrive nel modo seguente: homo per liberum arbitrium seipsum movet ad agendum (3). L’autodeterminazione è un evento unico nell’universo dell’essere creato e dona alla sostanza spirituale un’incomparabile perfezione in ratione entis: è un inizio assoluto. L’autodeterminazione ha come condizione di possibilità che la persona sia dotata di auto-possesso, non sia alienata, che non sia in possesso di altri o di altro. Non per una banale osservazione non posso disporre di ciò che non posseggo: la cosa è più profonda. Ciò che semplicemente avviene nella persona, per esempio la digestione del cibo che ho mangiato stamattina, non è ‘della’ mia persona; ma della natura, che agisce secondo le sue leggi. L’origine di ciò che avviene solamente ‘nella’ persona non è causato dalla persona: io non mi sono autodeterminato a digerire ciò che ha mangiato poiché l’attività del digerire è in possesso, dipende da, è messa in atto, è dinamizzata da fenomeni, da leggi biofisiche e biochimiche. Ma l’auto-possesso non basta all’auto-determinazione: è necessario l’auto-dominio. Tommaso lo dice chiaramente nel prologo alla Ia IIae: l’auto-dominio è la capacità di dinamizzare, di mettere in atto, oppure di non mettersi in atto, di mettersi o non mettersi ad agire. Qui comincia a rivelarsi in tutto il suo splendore la verità del modo di sussistere proprio delle persone. Sappiamo che in un passo del Dialogo della Divina Provvidenza Caterina dice che Dio si è innamorato di questa creatura, tanto era bella la persona umana. 

L’autodeterminazione ha due dimensioni chiaramente esposte da Tommaso: una dimensione orizzontale, una dimensione riflessiva. La dimensione orizzontale consiste nel fatto che mi autodetermino volendo un oggetto; non è un’autodeterminazione senza direzione, è intenzionata. La dimensione riflessiva è ben più importante: volendo l’oggetto, voglio più profondamente realizzare, in actu secundo, me stesso, nel modo in cui solo l’oggetto voluto me lo consente. In ogni determinazione, quando la persona se agit, se movet ad operandum, l’io è l’oggetto primario. Mi muovo all’atto e divento persona in atto (acting person) non solamente perché voglio x anziché y, ma primariamente e più immediatamente perché voglio essere nel modo in cui solo scegliendo x posso essere. San Gregorio di Nissa insegna che ciascuno di noi è padre di se stesso; scrive “noi siamo padri di noi stessi generandoci tali quali vogliamo” (4) e dandoci la forma che vogliamo. Scrive Karol Woityla: “specificando il proprio «io» - rendendolo questo o quello - l’uomo diviene nello stesso tempo qualcuno” (5). Tommaso lo insegna esplicitamente in un famosissimo testo, Ia IIae q. 88 a. 6 co e ad 3um: Sed primum quod tunc [= quando l’uomo raggiunge l’età della ragione] homini cogitandum occurrit, est deliberare de seipso

L’auto-determinazione è sempre abitata da un giudizio circa il bene che la persona considera il suo bene, cioè la sua perfezione in ratione entis. Esiste dunque una duplice trascendenza della persona: 1) intenzionale: mediante i suoi dinamismi spirituali la persona non è imprigionata dentro i confini del suo essere; 2) verticale: è la persona che decide se mettere in atto o no i suoi meccanismi spirituali. La persona non è trascinata dai suoi dinamismi (è la grande distinzione che Tommaso fa tra l’anima e le facoltà): la persona, l’io sostanza spirituale è preminente nei confronti dei suoi atti e questi dipendono da esso. Questa struttura metafisica, lo sappiamo, è ciò che rende possibile la conversione, il pentimento.

Scopriamo dunque una nuova dimensione del sussistere che è proprio della sostanza spirituale: l’io non è fagocitato dal suo agire, è in se stesso. È profondamente vero ciò che scrive Fabro: 

l’io nasce dall’io di ciascuno mediante l’io di ciascuno. L’io è inderivabile, incomunicabile, l’io è il compimento di se stesso (6).

A questo punto ci è possibile tentare l’ultimo scavo dentro il sussistere che è proprio della persona. L’auto-determinazione e la trascendenza della persona hanno una dimensione imprescindibilmente etica. Come ho già detto, l’auto-determinazione, il muovere se stesso si incunea tra il ‘posso’ e il ‘ma non sono costretto’. Che cosa, in questa condizione, ferma per così dire la persona, la mette in una sorta di stand by per cui si arresta per un istante prima che si decida a scegliere? È la considerazione che la ragione compie circa la bontà dell’oggetto possibile, circa, anzi, la misura della bontà dell’oggetto, cioè dell’ordinabilità dell’oggetto al fine che ultimamente ho posto alla mia esistenza. Si deve tuttavia fare molta attenzione: l’auto-determinazione è realmente distinta dal giudizio della ragione. La prima è creativa; il secondo è manifestativo; la prima agisce, il secondo dice. È ben diverso conoscere la bontà del cristianesimo ed essere cristiani. Parlare quindi di una decisione della coscienza non ha senso e crea solo confusione, grave confusione: ogni riferimento alla situazione attuale è puramente occasionale!!! perché è stato scritto, purtroppo, “la coscienza decide”. Tuttavia è il giudizio della ragione che manifesta quale auto-realizzazione in ratione entis è buona e quale non è buona, cioè è falsa. Mediante l’auto-determinazione l’io sceglie quale consistenza dare al suo sussistere come sostanza: una consistenza vera o una consistenza falsa e quindi solo apparente. Ancora Gregorio di Nissa: 

infatti l’errore è immaginazione relativa al non-essere che si forma nel nostro intelletto quasi che ciò che non esiste abbia reale esistenza (7).

È l’io che sceglie se divenire ciò che è o divenire ciò che non è ma sembra solo essere, se inverare se stesso, andare ad abitare dentro la verità di se stesso o lasciarsi scegliere da altro da se stesso, scegliere se realizzarsi in modo liberamente vero e veramente libero. 

Concludo questo punto con una pagina stupenda del beato Rosmini, che il grande roveretano fonda su una citazione di Tommaso: 

e questo sì gran bene e sì gran male che è il bene e il male morale va a fregiare o a sfregiare di sé il principio volitivo e personale che lo produce a differenza di ogni altro bene e di ogni altro male che s’aggiunga all’uomo e non dipenda dalla sua volontà (8).

Ho detto che era l’ultimo scavo. Lo posso riassumere così: il permanere della sostanza non è, nel caso delle sostanze spirituali create, neutrale: Esse lo qualificano. Ma qui la fede consentirebbe un altro scavo suggerito da Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Io non-io: la nuova dialettica del soggetto. Ma questo appartiene alla teologia dell’io personale. Pertanto la definizione che Kierkegaard dà dell’io al termine de La malattia mortale è completa: 

Nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso l’io si fonda trasparente nella potenza che lo ha posto (9).

Avrei voluto a questo punto vedere come è avvenuta la decostruzione progressiva della sostanzialità spirituale della persona, ma sarebbe stato troppo lungo; quindi…omissis. Inserirò questa parte nella pubblicazione degli atti.


3. Conclusione

L’analisi più profonda ed accurata della libertà fatta da Tommaso, a mio giudizio, si trova nella sesta questione delle Quaestiones disputatae de malo, articolo unico; purtroppo i grandi studiosi di storia del tomismo non sono unanimi nel datare tale quaestio. Essa insegna in primo luogo che quando si pensa alla libertà si deve accuratamente distinguere, e non confondere, la sua dimensione propriamente operativa ex parte exercitii actus e la dimensione specificativa ex parte obiecti specificantis. La considerazione della prima senza la considerazione della seconda riduce la libertà ad una navigazione senza porto, ad un vagabondaggio. La considerazione della seconda senza la considerazione della prima conduce prima o poi al determinismo, riducendo l’io alle orme che fanno le onde del mare sulla sabbia. L’io è agito, non agisce, non muove se stesso, non è ma è mosso.

La riflessione tomista, sulla quale non a caso scoppiò un’aspra polemica subito dopo la morte di Tommaso, polemica che comincia ad elaborare il concetto di libertà come libertas indifferentiae, è in realtà la narrazione della biografia spirituale di ogni persona. L’uomo rischia di divenire un vagabondo e non un pellegrino, o di essere agito da forze impersonali rinunciando all’auto-determinazione. Così l’essere in senso pieno individua substantia in rationali natura è un compito più che un dato. Dixi.


Note:
(1) J. SEIFERT, Essere e persona. Verso una fondazione fenomenologica di una metafisica classica e personalistica, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 328.
(2) C. FABRO, Dall’anima allo spirito: l’enigma dell’uomo e l’emergenza dell’atto, AA. VV. L’anima nell’antropologia di S. Tommaso d’Aquino, Atti del Congresso S.I.T.A. (Roma, 2-5 gennaio 1986), Massimo, Milano 1987, p. 463.
(3) TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae I q. 83 a. 1 ad 3um.
(4) GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè II, 1., 3.
(5) K. WOJTYLA, Persona e atto, cap. III, 2., Rusconi, Milano 1999, p. 273.
(6) C. FABRO, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, PIEMME, Casale Monferrato 2000, aforisma 1647, p. 296. 
(7) GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè II, 3., 23.
(8)  ANTONIO ROSMINI SERBATI, Antropologia in servigio della scienza morale, Novara 1847, 867., p. 334.
(9) S. KIERKEGAARD, La malattia mortale, ID., Le grandi opere filosofiche e teologiche, Bompiani, Milano 2013, p. 1765.


Ha curato la trascrizione del testo Rosanna Ansani