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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


RITIRO SPIRITUALE DEI SACERDOTI
Ferrara 28 novembre 2002

MEDITAZIONE (Ap 2,8-11)

Riprendiamo in mano il testo sacro e meditiamo oggi sulla lettera inviata da Cristo alla Chiesa di Smirne.

1. Leggiamo attentamente il testo sacro. Esso in primo luogo ci presenta il Cristo; o meglio, è il Signore stesso che presenta Se stesso, Lui che è sempre vivente nella sua Chiesa e la conduce. Egli è "il Primo"; Egli è "l’Ultimo"; Egli è Colui che "era morto ed è tornato alla vita".

La prima coppia ritorna spesso nell’Ap. [cfr. 1,17; 22,13]; sotto anche la seguente formulazione: "io sono l’alfa e l’omega" [22,13]; oppure sotto la seguente: "l’inizio e la fine" [22,13]. Poiché le "definizioni" di Cristo nell’Ap. sono sempre date nel contesto della storia della salvezza, il Signore dice qui di se stesso che è "l’inizio – il primo – l’alfa" e "la fine – l’ultimo – l’omega" della storia. Tutto è come racchiuso in Lui che del tutto è l’inizio e la fine. Egli è l’inizio poiché è stato Lui il primo pensato e voluto dal Padre [generato prima di ogni creatura: Col 1,15]; perché ogni creatura è stata plasmata su di Lui come sul modello, quasi come il comune ed unico denominatore di tutte le cose. Egli è la fine – l’ultimo: tutto ciò che esiste è chiamato ad essere e ricompattarsi in Lui. "Fine" non ha dunque significato cronologico, ma indica la meta finale a cui tutto è orientato: Cristo è la realtà finale e finalizzante, compimento [eschatos] di tutta la storia salvifica. Colui che è l’inizio di tutta la creazione e di tutta la storia ne è anche la fine, perché è in Lui che tutto si compie e raggiunge la sua pienezza.

La seconda qualificazione è la seguente: "era morto ed è tornato alla vita". Al centro della storia di cui il Cristo è il Primo e l’Ultimo, è collocato l’avvenimento pasquale, che qui viene narrato sinteticamente nei suoi due momenti: "era morto" e "è tornato alla vita". E’ attorno a questo avvenimento che si organizza tutta la storia, poiché il disegno del Padre tende fin dall’inizio verso di esso. Il compimento non sarà altro che il pieno dispiegamento di quanto è già contenuto in esso, poiché tutto è racchiuso in esso. Da molti altri testi di Ap. possiamo comprendere che efficacia possiede questo avvenimento [cfr. 1,5b-6 e 5,9b - 10]: colla sua morte, "con il suo sangue … Cristo-Agnello ha posto in essere una nuova comunità. Per i suoi membri Egli ha ottenuto la possibilità di un accesso senza ostacoli a Dio suo Padre, come solo dei sacerdoti possono fare. Il concetto di regalità, da parte sua, esprime la relazione dei cristiani con il mondo, a cui non sono più sottomessi, ma è possibile sono in base al loro rapporto sacerdotale con Dio, che si esercita anche nelle prove della sofferenza e della persecuzione" [R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, II, San Paolo ed., Milano 1999, pag. 487]. Ed infatti la resurrezione di Gesù è preferibilmente presentata da Ap. in termini di vittoria contro le potenze del male.

Nella nostra orazione dobbiamo porci in rapporto a Cristo sempre vivente nella sua Chiesa, che parla alla sua Chiesa. Egli è presente ed operante nella nostra Chiesa; davanti a Lui, vivendo profondamente l’esperienza del suo primato assoluto, e della centralità che nella storia ha la sua morte-risurrezione. Lui è all’inizio; lui è alla fine; la sua morte e risurrezione è al centro.

2. Ed ora posiamo il nostro sguardo meditativo sulla Chiesa. Essa è tribolata; è povera; è calunniata: "conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei …".

La tribolazione [thlipsin]. È una parola che denota il permanente scontro fra la Chiesa in quanto essa è la presenza di Cristo nel mondo, e tutto ciò che si oppone a Cristo. È la tribolazione che la Chiesa, opera che il Padre in Cristo per mezzo dello Spirito Santo sta realizzando dentro la storia umana, deve sopportare contro le forze che quell’opera contrastano. È il vero conflitto che sta accadendo dentro alla nostra storia: quel conflitto che l’occhio penetrante dei grandi santi hanno visto con una chiarezza impressionante da Ireneo a Padre Pio da Pietralcina, da Agostino a Teresa del Bambino Gesù.

La povertà [che in realtà è la vera ricchezza]. Che cosa è la povertà della Chiesa alla fine? L’avere tutto solo in Gesù Cristo. Ciò che è fondamentale sono questi due avverbi: "tutto" - "solo". Se ho Gesù Cristo; se sono in Lui e se vivo per Lui; se chi mi determina alla radice della mia esistenza, se chi dice la parola definitiva sulla mia vita, l’ultima parola per tutto ciò che sono e per tutto ciò che faccio, è Gesù Cristo: allora sono povero, tuttavia sono ricco. E’ il vivere l’assoluto che è Gesù Cristo. E’ il dire: "non ho niente, non sono niente: ma ho tutto, sono pienamente perché ho Gesù Cristo e sono in Lui e con Lui" [cfr. 1Cor 1,30].

La calunnia. Nel Vangelo secondo Giovanni è già predetto (cfr. Gv 16,2): la calunnia consiste nel giudicare la proposta cristiana contraria al vero Dio e quindi alla verità, alla libertà, alla vera giustizia.

Che rapporto esiste fra il Cristo che è "il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita" e questa Chiesa tribolata, povera e calunniata? Il rapporto è indicato da un verbo: "conosco". Ma ci sono tanti modi di conoscere: c’è una conoscenza "obiettiva" che lascia estranei chi conosce al conosciuto. E c’è una conoscenza che è partecipazione, condivisione. Cristo conosce la tribolazione della Chiesa, perché essa è la sua tribolazione; conosce la povertà della Chiesa, perché essa manifesta la sua (della Chiesa) scelta di sposa fedele; conosce la calunnia della Chiesa perché nella Chiesa è Cristo ad essere in fondo calunniato.

Tocchiamo qui uno dei punti più profondi della soteriologia cristiana: la tribolazione della Chiesa e la sua persecuzione sono di Cristo, sono la passione di Cristo. La rivelazione più sconcertante di questo mistero è sicuramente in Col 1,24. C’è un senso in cui la passione di Cristo è incompleta: poiché le sofferenze dei credenti sono la partecipazione alle sofferenze di Cristo, queste sono incomplete fino all’ultima tribolazione dell’ultimo credente, che porrà fine alla lotta per l’instaurazione del Regno. L’evento pasquale si esplica e si compie nel corpo mistico di Cristo che è l Chiesa. Il processo della salvezza comprende sia l’esperienza della potenza della risurrezione di Cristo sia la partecipazione alle sofferenze che Egli ha sostenuto per la redenzione dell’uomo: una crescente conformazione al Cristo tribolato, povero e calunniato perché possa accadere la piena reintegrazione dell’uomo risorto nella vita divina. È il grande tema della riparazione cristiana nei confronti del peccato del mondo. Esso era presente nella visione cristiana dei Padri della Chiesa, nella grande tradizione mistica moderna e nella vita dei sacerdoti che la Chiesa ci presenta come modelli.

3. Dentro a questo contesto cristologico-ecclesiologico si pone ora la parola che Cristo rivolge a ciascuno di noi: "Non temere … sii fedele".

Il testo santo parla della "tua" tribolazione e della "povertà", cioè della partecipazione della nostra persona alla tribolazione della Chiesa, alla sua povertà: alla tribolazione di Cristo. Essa comporta anche una vera e propria persecuzione.

E qui dobbiamo fermarci a fare una considerazione importante. La inizio citando un esegeta contemporaneo. "Non chiediamoci … dov’è l’odio del mondo per la Chiesa. Quello c’è. È il rifiuto della parola, il rifiuto della castità, il rifiuto della verità, il rifiuto dell’obbedienza, il rifiuto del disegno di Dio, il rifiuto della glorificazione di Cristo, il rifiuto del Vangelo. Dobbiamo invece legittimamente chiederci come mai odiando tutto questo, il mondo non odia me, o non odia noi costituiti come comunità cristiana. Questo è legittimo chiedercelo. E probabilmente la risposta sarà anche che avviene perché noi non ci identifichiamo abbastanza con queste cose e perché esse sono, rispetto a noi, nonostante tutto abbastanza esterne, senza costituire la nostra intima definizione. Io non sono la proclamazione della Signoria di Cristo, se fossi questa proclamazione, il mondo mi si avventerebbe contro con tutta la sua violenza omicida" [U. Neri, L’addio di Gesù ai discepoli: il discorso della grande consolazione, ed. S. Lorenzo s.l., 2002, pag. 140-141].

Ci sono due ordini di difficoltà interiori nelle quali possiamo ritrovarci. L’una derivante da quella tristezza del cuore che è la conseguenza di un sacerdozio con cui il senso della nostra vita non ha mai perfettamente coinciso senza residui; di una esistenza che non ha trovato nel ministero pastorale, in questa forma della sequela di Cristo, l’unica ragione di vivere. Questa non è la tribolazione di cui parla la Sacra Scrittura.

L’altra deriva invece dalla nostra identificazione con l’opera di Cristo, con l’economia della salvezza di cui ciascuno di noi è ministro: è a chi resta fedele nel suo ministero in questa condizione di tribolazione che verrà data la corona di gloria.

Che cosa ci dice il Signore? "non temere ciò che stai per soffrire". Non temere: questa parola risuona nella chiamata di Mosè, di Geremia, di Maria, di Giuseppe, degli Apostoli. Risuona oggi anche per ciascuno di noi. Su che cosa si fonda questo comandamento del Signore? È forse un richiamarci a forze nascoste in noi che possano sostenerci? Assolutamente no. La ragione è la seguente: "conosco la tua tribolazione". E’ Cristo che è tribolato nel nostro ministero tribolato; è Cristo che è calunniato nel nostro ministero ignorato: è Cristo la forza della nostra povertà. La nostra debolezza e povertà non è qualcosa che impedisce alla potenza di Dio di agire; non è necessario che finisca la nostra condizione di miseria perché Dio possa agire. La nostra perdurante tribolazione e povertà è parte integrante del processo della salvezza: "la mia grazia ti basta, perché la mia potenza si manifesta appieno nella debolezza" [2Cor 12,9].

La conseguenza di questa sicurezza interiore è la fedeltà: "sii fedele fino alla morte". Si resta nel servizio alla redenzione di Cristo. Non è solo la fedeltà, come si dice "ai propri impegni sacerdotali". E’ la fedeltà al proprio sacerdozio vissuto fino in fondo, non part-time; non come se, adempiuti i propri doveri sacerdotali, ci si ritirasse in uno spazio autonomo di esistenza. "Fino alla morte": ci dice il Signore. Non è solo una connotazione temporale: è una connotazione qualitativa. Ha lo stesso senso dell’espressione paolina: "fattosi obbediente fino alla morte". Cioè è una fedeltà tale che non viene meno neppure quando ti è chiesto dalla Chiesa di morire a te stesso, ai tuoi gusti in sé legittimi. E’ una fedeltà che dura anche quando ti viene chiesto di fare il funerale a te stesso.

"E ti darò la corona della vita": è il premio di chi in Cristo già ora gusta la vita in pienezza. E’ già nel possesso del premio che non può essere che Cristo stesso.