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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Riflessione etico–teologica sulla inseminazione artificiale
di Carlo Caffarra (Professore incaricato di Teologia Morale Fondamentale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale in Milano)
pubblicato in una rivista scientifica nel 1980.


Data la complessità del problema e dato che esso richiama in causa alcuni punti fondamentali dell’antropologia teologica, non mi posso accontentare delle pur necessarie soluzioni casistiche. Occorre inquadrare il problema nel suo contesto.

Presupposti antropologici

Il giudizio etico sulla AI (inseminazione artificiale) si elabora sulla base della convergenza di alcune affermazioni fondamentali riguardanti l’origine di una persona umana. Quel giudizio risulterebbe perciò incomprensibile, se prima non si richiamano queste affermazioni e non si riflette profondamente su di esse.

1. Il mistero dell’origine di una persona umana affonda le sue radici nel mistero stesso di Dio. Questa origine, infatti, non è un casuale evento biologico. Essa è l’effetto di un gesto creativo, libero e gratuito, di Dio. Ogni persona umana è conosciuta e voluta, singolarmente, da Dio per se stessa, come essere che non soltanto «è qui, ora» nella sua fatticità, come un semplice fatto casuale o necessario, ma come un essere che, a sua volta, è capace di pensare a Dio e di volere Lui come suo Sommo Bene.

Ogni persona umana che viene all’esistenza è un essere che Dio chiama come un «tu» e non come un «esso» e che, reciprocamente, può rispondere a questa chiamata. Con l’uomo, pertanto, appare nel mondo della vita qualcosa di essenzialmente nuovo, perché appare qualcuno capace di stare davanti a Dio; appare una creatura che è «immagine e somiglianza» del Creatore.

La genetica descrive il concepimento di un uomo nei suoi aspetti bio–chimici, ma ciò che resta fuori del suo campo, è la ragione ultima di questo avvenimento: la volontà creatrice di Dio, che vuole chiamare altri da Sé a partecipare, consapevolmente, alla sua Vita.

2. Se la spiegazione ultima del concepimento di una persona umana è la decisione creatrice di Dio, la congiunzione sessuale dell’uomo e della donna appare, in questo contesto, nel suo significato più profondo e vero. L’uomo e la donna partecipano realmente al gesto creativo di Dio e sono una immagine creata dell’amore creativo di Dio.

Che cosa significa e che cosa comporta questa partecipazione? Prima di rispondere a questa domanda è necessario premettere che, secondo la concezione cristiana dell’uomo, la persona è una unità sostanziale di corpo e di spirito. Ne consegue la esclusione che il biologico, nell’uomo, sia privo di significato e della dignità che gli provengono dal suo «fare unità» con lo spirito e rifletterne le esigenze.

Ritorniamo alla domanda. L’atto creativo di Dio non è una necessità intrinseca al suo Essere divino, ma opera di un amore libero e gratuito. Anche la pro–creazione deve procedere dall’amore. Non è sufficiente, per renderla ciò che è chiamata ad essere, che la pro–creazione umana sia posta sotto l’influsso della volontà ed il controllo della ragione, attraverso una decisione libera. Si avrebbe certo una pro–creazione responsabile, ma non in senso pieno. La dimensione spirituale, se ci si limitasse a questo, resterebbe estrinseca alla genesi della nuova persona. Essa si limiterebbe all’uso, alla messa in atto, come dal di fuori, di energie biologiche, cause immediate del concepimento.

Anche se governata dalla razionalità, si tratterebbe di una messa in opera strumentale delle capacità generative. Il rapporto fra l’io più profondo della persona e la sessualità biologicamente intesa, si configurerebbe come un rapporto di causa principale a causa strumentale, rapporto, in fondo, che lascia l’una estranea all’altra. Ma la natura della persona che genera (e del generato, come vedremo), una nella dualità di corpo e spirito, esige che la stessa capacità generativa, biologicamente intesa, partecipi alla stessa maniera che la capacità spirituale.

Questa profonda unificazione può essere operata solo dall’amore che lega l’uomo e la donna. L’amore infatti, è spirituale–fisico. Si esprime, si realizza nella ed attraverso la sessualità fisica, così come, reciprocamente questa diviene pienamente umana, quando è il simbolo reale dell’amore.

Da questa riflessione sul rapporto esistente fra pro–creazione umana e creazione divina di un uomo, derivano due conoscenze di grande portata.

La prima. Nel mentre che le esigenze di una pro–creazione veramente umana chiariscono la verità più profonda dell’unione sessuale, sono queste stesse esigenze a richiedere la medesima unione sessuale. Perché l’amore appaia e sia sorgente ultima della nuova persona non è sufficiente che esso metta in movimento dal di fuori il procedimento che porta al concepimento (caso, e.g. di una fecondazione in vitro). È necessario che l’azione procreatrice in se stessa sia tale da esprimere quell’unità nella dualità che è proprio dell’amore umano. È necessario che l’azione stessa che dà origine al processo che porta al concepimento di una nuova persona sia in tutta la sua realtà umana, fisica e spirituale, amore che unisce i «due in una sola carne ». Questa azione non può ridursi a prestare dei gameti, da congiungersi poi fra loro.

La seconda. Ne consegue che la culla degna della persona umana è solo il matrimonio dotato di unicità ed indissolubilità. Più precisamente, è solo l’atto sessuale che unisce i due in una sola carne, compiuto dentro il matrimonio indissolubile ed uno. L’amore umano infatti possiede una dimensione spirituale che gli è essenziale. Ed è proprio dello spirito trascendere il tempo. Decidersi per sempre è la suprema manifestazione della libertà della persona umana.

Persona umana: libertà e disponibilità di sé.

3. Le due riflessioni precedenti, che verranno anche in seguito riprese ed approfondite, ci costringono a calibrare rigorosamente alcune affermazioni, correnti anche nella teologia morale di questi ultimi anni, che, diversamente, rischiano di essere equivocate e di generare confusione o errore.

3.1. La prima che esige di essere rigorizzata, è l’affermazione che, partendo dall’idea biblica dell’uomo immagine di Dio (idea indiscutibile per ogni credente), riconosce, coerentemente con questa idea, alla persona umana potere di disporre di se stessa e del mondo, in ragione della sua libertà ed intelligenza.

La cosa però che fa sorgere sospetto teoretico è che spesso questo riconoscimento coincide poi, in ultimo, con la posizione di coloro che, partendo da ben altri presupposti, negano la esistenza di una legge morale iscritta nella natura della persona umana: una legge morale immutabile ed universale. Infatti, non raramente avviene che si neghi la esistenza di una legge naturale, non puramente formale, sulla base dell’idea biblica suddetta.

Come si arriva a questa conclusione? Il momento decisivo dell’argomentazione, spesso non esplicitato, perché accettato come un dato definitivamente acquisito dalla cultura contemporanea, è costituito dalla definizione che si dà di pensiero umano, quindi di verità, quindi di libertà. Se si presuppone, come più o meno esplicitamente avviene, che il pensare umano consista sempre ed essenzialmente nel progettare l’agire in vista del raggiungimento di scopi pratici, ne consegue che la verità del pensiero consiste nella possibilità di trasformare ed utilizzare il reale e che la libertà è la capacità di manipolare il reale. Ponendo nel pensiero e nella libertà la somiglianza dell’uomo con Dio (e ciò è vero), ma definendo poi la libertà e pensiero in quel modo (e ciò è falso) si arriva alla conclusione suddetta: la negazione di una natura umana propriamente detta, quindi di una legge morale fondata su essa che non sia puramente formale, quindi di una responsabilità dell’uomo verso se stesso che non sia solo formale, quindi di un rapporto con se stesso che non sia puramente di uso. Ed in questo contesto antropologico, la prima «cosa» a propria disposizione è il proprio corpo.

L’errore di questa impostazione sta precisamente nell’aver decapitato l’intelligenza umana della sua capacità contemplativa, nell’aver definito il pensiero come pensiero che dispone dell’essere e non anche e soprattutto come pensiero che si apre all’essere e, quindi, nell’aver definito la libertà come potere e non come responsabilità.

La definizione di libertà non come potere, ma come responsabilità, trova la sua fondazione ultima nel fatto che, come abbiamo già visto, l’origine della persona umana è l’atto creativo di Dio. In forza di questo atto creativo, la persona appartiene radicalmente al Signore. È questa radicale appartenenza che definisce il rapporto dell’uomo con se stesso. Non si tratta primariamente di un rapporto di auto–possesso o di auto–dominio; si tratta di un rapporto di responsabilità: ogni persona è responsabile di se stessa davanti a Dio. Sono responsabile di me stesso davanti a Dio, perché sono radicalmente non un io che pone se stesso, ma un tu chiamato continuamente all’essere da Dio medesimo.

Dal punto di vista biblico, il concetto che definisce primariamente il rapporto dell’uomo con se stesso non è dunque quello del potere, ma della responsabilità. Questo è vero di ogni dimensione essenziale della persona umana, anche della sua sessualità, intesa nella sua totalità biologico–spirituale. Essa è una «benedizione» di Dio (cfr. Gen. 1,28), un dono di Dio e, quindi, un compito per l’uomo. Questa responsabilità verso il dono–compito della sessualità si esprime, innanzi tutto, nella presa di coscienza e nella assunzione dei significati intrinseci ad essa, senza escluderne nessuno. Quando ciò non avvenisse, la persona umana, pur avendo l’impressione di esercitare un dominio razionale su se stessa, commette un arbitrio che la porta alla distruzione.

3.2. Nella cultura occidentale moderna, il tema del potere dell’uomo è stato intimamente connesso col tema della scienza, che offre gli strumenti per esercitare quel potere. Questa correlazione deve essere pensata nel contesto della riflessione precedente. La scienza deve essere vista come aiuto per l’esercizio della responsabilità dell’uomo verso se stesso. Essa è per far essere l’uomo, nella pienezza della sua umanità. Il suo uso e le sue applicazioni, quindi, nell’ambito dell’uomo hanno un limite invalicabile. Esso è costituito, nel caso nostro, dalla dignità del suo essere soggetto spirituale–corporale, chiamato da Dio a partecipare al suo gesto creativo, attraverso l’esercizio fisico–spirituale della sua sessualità, nel matrimonio. Quando, perciò, la scienza si sostituisse alla persona, essa diventerebbe disumanizzante.

Fondazione teologica al problema etico

4. Dicevo all’inizio che il giudizio etico sulla AI nasce dalla convergenza di alcune percezioni fondamentali. Prima di passare alla elaborazione di quel giudizio, giova, allora, far emergere questa intima armonia.

L’origine della persona umana è un evento unico nella sua grandezza, perché è la libera e gratuita posizione in essere da parte di Dio di un soggetto essenzialmente ed immediatamente relazionato a Lui. Per questo, la cooperazione umana a questo evento non può darsi comunque. Essa deve essere, nella sua verità più profonda, una partecipazione di tutto l’uomo a questo gesto creativo di Dio: la procreazione è l’immagine della creazione, ne partecipa. Pertanto, la pro–creazione di una persona è la messa in atto di una potenza fisico–spirituale che ha la sua origine, la sua interiore ispirazione, la sua legge nell’amore coniugale, di cui l’uomo è responsabile davanti a Dio.

La scienza, come ogni altra cosa, può essere di aiuto a questo congiungersi della potenza pro–creatrice umana colla potenza creatrice di Dio, ma non mai sostituirsi, per divenire essa stessa ciò che dà origine ad una persona. La scienza produce oggetti, non una persona umana.

Come si pone allora il problema della AI dal punto di vista etico? Le domande fondamentali che lo costituiscono mi sembrano allora le seguenti: quando l’origine di una persona umana è conforme alla dignità di essa? in che misura la scienza può intervenire nell’atto che dà origine ad una nuova persona umana? La risposta generale, fondamentale, si è già data sostanzialmente nella prima parte. La richiamo, in sintesi.

a) Poiché l’origine ultima della persona umana è costituita dalla relazione creativa, che è relazione, ex parte Dei, di puro amore, dell’uomo, deve essere atto di amore fisico–spirituale. L’atto pro–creativo si compie nel matrimonio, quindi.

b) La scienza non può sostituirsi a questa partecipazione pro–creativa dell’uomo alla creazione di Dio, ma, quando, fosse necessario, può dare il suo aiuto per renderla possibile, nel senso che vedremo.

È sulla base di questo duplice principio che si devono ora esaminare i singoli casi di AI:

1. LAID merita un giudizio etico negativo. I motivi risultano evidenti da quanto si è detto fin’ora.

La partecipazione pro–creativa alla creazione di Dio avviene attraverso la messa in atto, da parte dell’amore coniugale dei due sposi, della loro capacità generativa. Questa partecipazione consiste precisamente in questo: nella messa in atto da parte dei coniugi, uniti nel vincolo indissolubile del matrimonio, della potenza generativa.

L’origine di ogni persona umana implica due ordini di fatti. In quanto essa appartiene al mondo della vita ,implica tutta una serie di fatti biologici, come la genetica umana è andata sempre più chiarendo nelle loro intime strutture. In quanto appartiene al mondo dello spirito ,esige che sia originata da una decisione libera di amore, perché solo così essa è voluta nel modo che la sua dignità esige: per se stessa.

La separazione di questo duplice ordine di fatti, in forza della quale diverso è il soggetto che pone le premesse e l’inizio del processo biologico dal soggetto che spiritualmente vuole una nuova vita umana, impedisce quella partecipazione umana in senso pieno all’atto creativo di Dio. Chi, infatti, è padre biologicamente non lo è spiritualmente, mentre chi è padre spiritualmente non lo è biologicamente. Questa separazione fra il biologico e lo spirituale è in contraddizione con la natura della persona umana, unità sostanziale di spirito e materia. Non è che la dimensione biologica sia estranea, estrinseca all’io della persona umana generata. Fa parte sostanzialmente di essa. È essa stessa, nella sua visibilità e concretezza storica. Una generazione biologica separata dalla generazione spirituale è, di fatto, generazione di una persona umana come fosse una cosa prodotta, perché manca la possibilità di quel rapporto profondo posto in essere dal vincolo coniugale. La cosa trova un’espressione agghiacciante nella istituzione di «banche del seme», segno dei più evidenti di una razionalità dove il «cuore» (nel senso pascaliano), è una parola priva di senso completamente.

Queste riflessioni, che già una antropologia razionale può elaborare, ricevono una luce ed una conferma insospettata da due verità di fede.

La prima verità, che è il dogma mariano originario, è che Maria deve essere detta e ritenuta vera Madre di Dio (DS 251). Positivamente, la fede della Chiesa, chiamando Maria Madre di Dio, ha voluto innanzi tutto esprimere l’unità dell’essere — Dio ed essere — uomo in Cristo, unità talmente profonda che, anche per avvenimenti umani come il concepimento e la nascita, non si può costruire un Cristo puramente umano, staccato dall’insieme del suo essere persona. Negativamente, la fede della Chiesa ha respinto in questo modo l’errore di coloro che volevano ammettere solamente il titolo di Madre di Cristo [nota: Cfr. J. Ratzinger, La figlia di Sion, ed. Jaca Book, Milano 1979, p. 47 ss.].

Nella confessione della fede ecclesiale, si celano decisioni, percezioni antropologiche e teologiche di grande importanza ed insospettata pertinenza per la nostra questione. L’unità del Verbo incarnato è tale che non si può estrarre, per così dire, il Cristo puramente corporale, perché nell’uomo è umano–corporale anche il corporale. Poiché l’umanità del Cristo è unica in quanto è l’umanità del Verbo. Questi si è unito all’uomo in maniera così reale che non si arresta su nessuna soglia dell’essere–uomo, ma lo compenetra nella sua totalità, anche in quanto corporeo. Confessando Maria Madre di Dio e non semplicemente di Cristo, avendo ella concepito Gesù di Nazareth, implicitamente la Chiesa ha respinto l’idea che il concepimento e la nascita possano essere ridotti ad atto puramente somatico, a reazioni bio–chimiche. Ha respinto quell’ideologia, implicita nell’attuale nobilitazione dell’AI, secondo la quale l’esercizio della potenza generativa, vista come evento biologico, è un dettaglio secondario, che non ha assolutamente nulla a che fare con l’uomo in quanto tale che ne sorge. Che non sia quindi padre biologicamente chi è padre secondo il Matrimonio, cioè per il vincolo dell’amore coniugale, è un episodio di scarsa importanza per questa ideologia che, nonostante le apparenze, risulta profondamente ostile al corpo.

La seconda verità, strettamente connessa con quella precedente, è la verginità di Maria o il concepimento di Gesù per opera dello Spirito. Gesù non ebbe padre terreno. Anche questa verità getta una luce insospettata sul nostro problema.

Il concepimento di Gesù, orfano di un padre terreno, è l’origine interiormente necessaria di colui che, anche come uomo, fu, fino in fondo, figlio del Padre. Il suo essere–uomo è la traduzione nel nostro mondo della stessa relazione intra–trinitaria. L’avere un padre terreno non è solo una discendenza, una origine biologica, perché l’umano è inscindibilmente corpo e spirito E, quindi, dal punto di vista del generante non si tratta di prestare una cellula che, poi, in forza di reazioni chimiche, unita ad un’altra, darà origine ad un uomo: si tratta di una pro–creazione che è partecipazione reale della creazione (donde la «necessità» del concepimento verginale di Gesù). Dal punto di vista del generato, non può aversi separatamente un rapporto di filiazione biologica con un padre ed un rapporto di filiazione spirituale con un altro semplicemente perché il generato, nel suo essere–uomo, è inscindibilmente corpo–spirito (donde, ancora, la «necessità» del concepimento verginale di Gesù).

L’esclusione della liceità della AID è dunque la conseguenza della percezione umana e cristiana della grandezza e della unicità della persona umana. Una percezione che è riconducibile al centro stesso della fede: per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno del la Vergine Maria si è fatto uomo.

2. Dal luglio del 1978 il problema si è ulteriormente ampliato con la realizzazione di una fecondazione in vitro e successivo trapianto, riuscito per la prima volta, in utero.

Questo fatto manifesta la verità ultima delle riflessioni precedenti e le conseguenze cui logicamente conducono le premesse antropologiche prima rifiutate.

Nella sua essenzialità, la fecondazione in vitro separa completamente l’evento originante la vita umana dalla congiunzione sessuale dei due sposi. Il «novum» della fecondazione in vitro sta precisamente in questo: la scienza ha prodotto un luogo, una culla ove sorge la vita umana diversa dall’atto coniugale in senso pieno. Ed allora ciò che si diceva precedentemente deve essere ripreso ed approfondito ulteriormente.

L’essere umano vive nel tempo. La temporalità non è qualcosa di estrinseco all’esistenza della persona, ma ne è una dimensione essenziale, perché la persona si realizza storicamente, dentro ad una successione temporale. All’inizio di questa storia, della storia di ogni uomo, si pone un evento originario e fondante che non appartiene mai pienamente al passato, ma che è la sorgente da cui scaturisce continuamente il presente. Queste riflessioni trovano una conferma per fino sconcertante se si pensa alle acquisizioni scientifiche sull’informazione genetica.

Questo evento originario e fondante dell’esistenza di ciascuno di noi è costituito dalla sua concezione, nella quale vengono poste le sorgenti di tutta la vita. Nella fecondazione in vitro, questo evento viene prodotto non dall’uomo e dalla donna nell’ambito del loro reciproco donarsi fisico–spirituale, ma dallo scienziato in laboratorio.

Si potrebbe subito obiettare che le due cellule germinali sono date dai due sposi e che l’intervento della scienza si limita al congiungimento dei due gameti, al quale poi, appena possibile, seguirà l’impianto in utero. L’obiezione rivela, ancora una volta, la povertà sostanziale della visione antropologica cui si ispirano le ideologie giustificative di pratiche scientifiche di questo genere. Si presuppone, infatti, come un dato incontrovertibile che il concepimento di una persona sia un evento dal quale possa essere detratto il fatto biologico in sé considerato dal fatto spirituale o da quel tutto che è l’evento della generazione di una persona umana. Ora è precisamente questa separazione che, alla luce di una visione integrale dell’uomo, non si sostiene, come abbiamo già visto.

La cosa può essere vista da un altro punto di vista, complementare a quello precedente. Il gesto di laboratorio di cui stiamo parlando, non è equiparabile ad una qualsiasi esperienza. Esso infatti ha come termine una persona umana, realtà unica ed irrepetibile nella sua dignità. Come allora, si configura la vera natura di questo intervento della scienza? Non può trattarsi di un intervento su un dettaglio secondario ed accidentale nel sorgere di una vita umana. Si tratta, allora, della sostituzione, da parte di un estraneo nel senso più profondo del termine, di una causa originante che, per la natura del termine originato, non può non essere pienamente, corporalmente–spiritualmente, coinvolta nell’evento fondatore. Ci sono esperienze umane che, data la loro profondità e la loro intensità con cui chiamano in causa la persona umana, non sono delegabili. È la grandezza della persona che la rende non interscambiabile.

Per tutti questi motivi, non mi sembra che si possa approvare dal punto di vista morale la fecondazione in vitro, o, quanto meno, un giudizio diverso risulterebbe assai azzardato.

Il problema etico della AIH

3. Affrontiamo ora, sempre alla luce degli stessi principi antro pologici e teologici, il problema etico della AIH.

Da tutto quanto si è detto fin’ora si può formulare il seguente principio: l’AIH può ritenersi lecita, quando si ha fra i due sposi un vero e proprio atto coniugale, ma è necessario ricorrere all’aiuto della scienza per rendere efficiente, cioè determinatore di fecondità, un rapporto coniugale normalmente condotto, che senza quell’aiuto resterebbe sicuramente infecondo.

La necessità etica che fra i due sposi si dia un vero e proprio atto coniugale è già stata dimostrata in tutte le riflessioni precedenti. Dal punto di vista dell’etica sia razionale che teologica, il luogo in cui deve essere concepita una persona umana è solo l’atto coniugale. Per «atto coniugale vero e proprio» deve intendersi l’attuazione di quella capacità di esercitare l’attività sessuale senza della quale, secondo la dottrina giuridica e teologica della Chiesa, si avrebbe l’impedimento di impotenza. Usando un linguaggio più preciso dal punto di vista e giuridico e teologico, per «atto coniugale vero e proprio» si intende quell’«actus coniugalis ad quem natura sua ordinatur contractus coniugalis et quo coniuges fiunt una caro».

Dal punto di vista etico, posto in essere questo atto, non si chiede agli sposi nulla di più. Il loro eventuale ricorso ad interventi artificiali si limita a dare un aiuto all’atto procreativo eticamente, affinché esso possa essere fecondo.

Le difficoltà poste da questo principio, a questo punto della nostra riflessione, non sono tanto di ordine teoretico, ma di ordine pratico. Nella prassi può essere di fatto difficile qualificare una concreta AIH: se essa sostituisca o coadiuvi l’atto coniugale.

Per illuminare ulteriormente la questione, possiamo addentrarci nella casistica, coscienti che non può essere completa.

PRIMO CASO. Fra gli sposi non si dà alcun rapporto sessuale, o perché essi sono fisicamente distanti o perché il marito è già morto (fecondazione postuma) o per altro ancora. Lo sperma del marito raccolto viene immesso nella moglie artificialmente, mediante strumenti appositi.

Questa AIH non sembra potersi giustificare dal punto di vista etico, in alcun modo. Infatti, in essa viene a mancare completamente l’atto sessuale fra i due coniugi. La partecipazione dello sposo si limita alla prestazione del proprio seme, senza che fra i due si abbia un rapporto di amore coniugale umano in senso pieno, fisico–spirituale. Si tratta di una partecipazione solo remota mediata. In realtà all’atto procreativo vero e proprio partecipano solo la sposa ed un estraneo, chi compie l’intervento.

SECONDO CASO. Fra i due sposi si dà un rapporto sessuale. Tuttavia, perché si verifichino le condizioni per il congiungimento dei due gameti, è necessario l’intervento inseminativo artificiale. Esso consiste nell’iniettare, mediante appositi strumenti, il liquido seminale, con inseminazione endouterina o anche endotubarica (high insemination) oppure con inseminazione cervico–vaginale o anche puramente vaginale (low insemination). Oggi è preferita questa seconda, dal punto di vista medico. Questo secondo caso può presentarsi sotto due forme diverse: fra i due sposi si ha un rapporto sessuale vero e proprio oppure non si dà un rapporto normale in quanto lo sposo o usa il condom o interrompe il coito e lo compie «inter foemora».

Dal punto di vista etico, credo che la prima forma di AIH possa essere accettata. Probabilmente, anche nel caso, mi sembra, di eiaculazione retrograda [nota: Si ha eiaculazione retrograda quando l’eiaculato invece di essere immesso in vagina, viene immesso in vescica. Il rapporto fra i due coniugi si presenta del tutto normale, sia dal punto di vista fisico che psichico: neppure possono saperlo. Post coitum, il seme viene espulso con normale minzione (dopo che si è debitamente preparata la vescica per accogliere gli spermatozoi) e immesso dal medico, mediante siringa, in vagina].

Si tratta infatti di un aiuto puro e semplice che non si sostituisce alla intimità coniugale dei due sposi. Anche se il liquido seminale, prima di essere più profondamente immesso, venisse estratto dalla vagina ed eventualmente, per ragioni mediche, manipolato.

Molto più difficile risulta dare un giudizio certo sulla seconda forma in cui può presentarsi il caso. Se il condom è perforato così che una parte del seme è immessa in vagina ed una parte ritenuta in esso, non giudicherei del tutto improbabile un giudizio etico positivo. Si hanno, infatti, tutti gli elementi essenziali dell’atto coniugale. Né vale obiettare che non tutto il seme è immesso in vagina, in quanto questo fatto non è contro natura dal momento che a questa serve solo una piccolissima parte di liquido seminale. Né vale obiettare che il condom costituisce un corpo estraneo che impedisce l’unione coniugale. È oramai pacificamente ammessa la liceità dell’uso di cervical spoons, che pure sono i corpi estranei, per aiutare la salita del seme.

Ci lascia, invece, profondamente perplessi e personalmente riteniamo non lecita l’AIH negli altri casi (coito interrotto, inter foemora, condom non perforato). Infatti questa fattispecie implica l’assenza di un atto coniugale vero e proprio fra i due sposi, completo nei suoi elementi essenziali. Questo giudizio sta in piedi, a nostro parere, anche se si dimostrasse che nel caso non si tratterebbe di una masturbazione, dal punto di vista etico. Il motivo cioè ultimo del nostro giudizio non sta nella qualifica di masturbazione data all’atto in questione: sta altrove. Sta nel fatto che manca l’unione fra i due coniugi, in forza della quale essi diventano una caro, fusi in quella unità fisico–spirituale che, come abbiamo già visto, costituisce la partecipazione pro–creativa all’atto creativo di Dio.

L’obiezione comune a questo punto è che, in questo modo, si avanza una visione troppo fisicista dell’atto coniugale, eccessivamente rivolta a considerare la materialità dell’atto e non sufficientemente attenta al suo significato morale. Ma essa si ritorce, in realtà, contro chi la propone.

Proprio perché in ordine alla procreazione di una persona umana, l’atto sessuale propriamente detto non è, anche nella sua dimensione fisica, un dettaglio di poco conto, ma un aspetto essenziale, abbiamo dato quel giudizio sulla seconda forma di AIH. È un aspetto essenziale perché anche nella sua dimensione fisica è parte integrale dell’amore coniugale. Chi invece, al contrario, ritiene che la fisicità dell’atto coniugale non abbia questa portata e, quindi, di fatto, nonostante le affermazioni in contrario, ha una visione troppo materiale e fisicista del medesimo, può parlare di amore coniugale sorgente di vita, anche senza la dimensione fisica del medesimo, senza la congiunzione fisica degli sposi. In altre parole: solo chi ha una visione troppo fisicista della sessualità biologicamente intesa, ha difficoltà ad ammettere che essa, anche in questa sua dimensione, può e deve essere parte integrante dell’amore coniugale che vuol dare origine ad una nuova vita umana. Ha difficoltà, perché, in fondo, è ancora schiavo del dogma cartesiano della separazione fra corporeità e spiritualità.

Se non vado errando, si ha una conferma, mi sembra, di questa posizione dal concetto di consumazione del matrimonio, come viene definita dalla dottrina giuridica e teologica comune. Il coito interrotto, o condomato, o inter foemora, non porta a compimento il patto coniugale. La consumazione non è primariamente un concetto giuridico, ma teologico. Con essa infatti si porta a compimento la realtà sacramentale del matrimonio (donde l’assoluta indissolubilità del rato e consumato). Questo compimento consiste, da una parte, nel fatto che il patto coniugale, almeno dal punto di vista oggettivo, diviene il simbolo reale perfetto dell’Alleanza e, dall’altra, questo compimento implica anche l’atto sessuale completo nei suoi elementi essenziali (cfr. Resp. S. Officii 12–2–41). Ne consegue allora che l’amore coniugale, forma del matrimonio, implica nel suo essere sostanziale, anche l’atto fisico completo. Ora è solo l’amore coniugale, perfetto nella sua sostanza, che può divenire, dal punto di vista etico, sorgente di una nuova vita umana.

Un’ulteriore conferma si ha, credo, dalla Enc. Humanae Vitae. Anche se questo documento non affronta la nostra tematica, la conferma viene dal suo insegnamento fondamentale.

Se non vado errando, esso consiste essenzialmente in questo: 0gni e singolo atto coniugale porta impresso in se stesso due significati inscindibilmente connessi, il significato unitivo ed il significato procreativo. La portata teoretica di questo principio, nella sua generalità, va oltre alle applicazioni fatte in concreto dal documento, per il problema sottoposto. Esso in sostanza afferma due cose. Primo, che il significato teleologico di base, quello biologico, esige di connettersi con quello unitivo e che quello unitivo non può darsi, nella sua verità, se non si connette con quello procreativo: essi non si giustappongono, non si sovrappongono, ma si implicano reciprocamente, di modo che nessuno dei due può essere vissuto autenticamente se si realizza escludendo l’altro. Secondo, che questa implicazione o connessione risiede in ogni e singolo atto coniugale.

Ora, l’Humanae Vitae ha poi applicato questo principio nel senso di escludere la possibilità etica di salvaguardare il significato unitivo dell’atto coniugale se non viene rispettato il significato teleologico di base, quello biologico.

Da questo stesso insegnamento, tuttavia, mi sembra logicamente esatta la conclusione che si debba pure escludere la possibilità etica di salvaguardare l’intrinseca finalizzazione dell’atto coniugale alla prole separandola dal significato unitivo impresso nel medesimo. Come, cioè, non si dà significato unitivo scisso da quello procreativo così non si dà questo scisso da quello.

Si obietta che la connessione teleologica di base con l’amore coniugale è salvata dal fatto che si tratta di AIH e, dunque, di una AI che avviene in un insieme, in un contesto di amore coniugale, sessualmente espresso negli atti coniugali di cui gli sposi sono capaci ed a cui hanno diritto.

L’obiezione non mi sembra consistente, alla luce dell’Humanae Vitae. Se è vero, infatti, che la connessione del significato unitivo con quello procreativo non è fatta salva solo mediante la finalizzazione dell’intera vita coniugale alla prole, ma essa deve darsi in ogni e singolo atto coniugale, deve essere reciprocamente vero che la connessione del significato procreativo con quello unitivo, il suo risiedere in esso, non sono fatti salvi solo dal porsi della procreazione dentro un contesto globale di amore coniugale sessualmente inteso ed espresso, senza però risiedere in nessun atto sessuale. Si ha, cioè, la seconda forma, reciproca e correlata a quella condannata da Humanae Vitae, di sganciamento e di scissione fra le due dimensioni essenziali di ogni atto coniugale.

La riflessione antropologica e teologica sulla AI è uno dei punti in cui emerge con maggior chiarezza uno dei nodi problematici fra i più decisivi ed urgenti, a mio umile parere, per la missione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo, per il suo servizio di salvezza della persona umana.

Cercando di individuare questo nodo con il massimo di sinteticità, mi sembra di poter dire che esso consista nel fatto che la cultura occidentale non è ancora riuscita a pensare ed a vivere una sintesi fra scienza e sapienza, fra teologia, etica e scienza. Non è ancora riuscita a risolvere il problema di fondo posto dal «caso Galileo».

In una pagina di rara finezza spirituale sant'Agostino aveva già individuato in questa separazione o rottura fra scienza e sapienza il male più vero della persona umana (cfr. De Trinitate Lib. XII, 12, 18) [nota: Abbiamo approfondito questo concetto agostiniano, applicandolo alla situazione dell’uomo contemporaneo nel nostro studio Moralità e progresso sociale, in Studi Cattolici 220, 1979, 345–351].

Quale è la portata esatta di questa separazione? Da una parte l’incapacità della scienza di integrarsi in un’etica sia razionale che teologica che mostri all’uomo la via della vera salvezza, dall’altra l’incapacità della teologia e dell’etica di ispirare la ricerca scientifica e le sue applicazioni pratiche. Ne consegue che la visione del mondo e dell’uomo, che la scienza è andata progressivamente elaborando, anche per la natura stessa del sapere scientifico, ha perso la consapevolezza dell’originalità, dell’unicità dell’umano nell’universo dell’essere. Di questa perdita uno dei segni è la pratica, sempre maggiore, della AI.

G. Marcel aveva già intuito questo, fin dal 1947, quando scriveva: «envisagée sous l’angle de la personalité humaine tout simplément, l’insémination artificielle est une froide réalisation d’un esprit rationel pour qui les sentiments ne sont que des mots» (cit. da V. Traina, L’inseminazione artificiale umana, ed. Minerva Medica, Roma 1977, 60).

In questa situazione, mi permetto di dire che non sono più sufficienti dichiarazioni di principio sul valore della scienza, sulla sua autonomia metodologica. Sono dichiarazioni scontate ed ormai inutili. Ciò che urge è mostrare come il discorso che la Chiesa fa allo scienziato è richiamo impreteribile al valore unico ed irrepetibile della persona umana alla sua dignità. Esiste un giudizio etico che la Chiesa pronuncia anche sulla scienza e sul suo uso, in ragione della sua missione di servizio alla salvezza dell’uomo in Cristo [nota: Se non sbaglio, è proprio in questa prospettiva che si muove il discorso del S. Padre Giovanni Paolo II del 10–XI–79, per il centenario della nascita di A. Einstein].

Il problema della ricostruzione di una sintesi fra scienza e sapienza, fra scienza, etica e teologia permane nella sua urgenza e difficoltà. La riflessione condotta in questo studio è nata da questa consapevolezza ed ha tentato di muoversi in questa prospettiva.