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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Riflessione proposta al Presbiterio per la Tre Giorni del Clero
14 settembre 2009


La Tre giorni di questo anno è stata pensata e voluta come una grande occasione per riflettere sulla qualità della nostra vita sacerdotale e del nostro presbiterio. Inserita come è nell’Anno sacerdotale, questo momento intende porsi in quel grande richiamo di Benedetto XVI alla nostra santificazione e alla nostra purificazione.

Ciò che vi andrò dicendo si propone concretamente due finalità prossime. La prima, di disegnare il contesto o la cornice "esistenziale" di tutta la Tre giorni; la seconda, di offrire i fondamentali orientamenti per il lavori di gruppo, assai importanti.

1. Inizio da una domanda che mi sembra quella fondamentale: da che cosa ultimamente dipende la qualità della nostra vita sacerdotale, da che cosa dipende che questa sia una buona vita sacerdotale?

Le risposte complementariamente vere possono essere tante: dalla qualità del rapporto con i fratelli presbiteri; dalla qualità del rapporto col ministero che concretamente la Chiesa mi ha chiesto di svolgere; dalla qualità della propria celebrazione dell’Eucaristia e/o del proprio rapporto con la S. Scrittura. Su ciascuna di esse e su altre ancora rifletteremo nei prossimi giorni, soprattutto nei lavori di gruppo.

La mia riflessione non si pone in alternativa, ma su un piano diverso, perché nasce da una diversa preoccupazione. La mia riflessione vuole essere un "ritorno al fondamento" [della qualità di vita]; un invito a risalire la corrente fino alla sorgente. Non vi chiedo dunque di farne oggetto specifico della vostra riflessione nei gruppi – anche se ovviamente … non vi è proibito – ma di tenerne conto come dell’orizzonte ultimo.

Abbiamo appena concluso l’Anno paolino. Ho fatto la domanda di cui sopra all’Apostolo; ho cercato la risposta nei suoi scritti. Mi è sembrato che la sua risposta sia la seguente: la qualità della vita apostolica, della vita del ministro della Nuova Alleanza, dipende essenzialmente dalla qualità del suo rapporto con Cristo.

Vediamo prima il significato di questa risposta. È nostra esperienza quotidiana che la qualità della nostra vita umana dipende dalla qualità dei nostri rapporti con gli altri. Il significato della risposta paolina è che il rapporto decisivo – decisivo del senso e quindi della qualità della vita – è il rapporto con Cristo.

→ È il rapporto con Cristo che definisce il senso, la ragione del nostro esserci. Siamo stati scelti e chiamati da Lui per predicare il Vangelo della grazia; ottenere l’obbedienza della fede; e così mediante i sacramenti della fede edificare la Chiesa, nuova umanità. Non c’è altra ragione che spieghi – che dia ragione del – il nostro esserci.

È il rapporto con Cristo che dà origine al "contesto esistenziale", che pone in essere quella "rete di relazioni" che costituisce l’ethos, cioè la dimora della nostra vita.

    1. Siamo relazionati o relativi a una Verità depositata [depositum fidei] dentro alla Tradizione della Chiesa: il referente originario è il Vangelo inteso come il progetto di Dio riguardo all’uomo. È la divina Rivelazione.
    2. In ogni uomo c’è una visione del mondo, un modo di porsi nella realtà, costituito primariamente dall’interpretazione più o meno esplicita della realtà medesima. Per il sacerdote, la visione del mondo è quella di Dio stesso.

    3. Siamo relazionati o relativi alla persona umana considerata dal punto di vista del suo destino eterno. È una relazione che consiste nel prendersi cura del suo rapporto con Dio [cura animarum]; nel prendersi cura della sua suprema dignità.
    4. Siamo relazionati o relativi alla comunità cristiana che edifichiamo colla predicazione della fede, la celebrazione dei sacramenti e la guida dei fedeli nella via della divina Legge. Già gli antichi Concili condannarono le ordinationes absolutae: il conferimento dell’Ordine non in vista di una comunità. Il sacerdote absolutus [nel duplice significato: irrelato, slegato (da ogni comunità) – referente ultimo (come i corinzi di fatto, a seconda dei gusti, ritenevano Apollo, Paolo, Pietro)] è un monstrum teologico, etico e canonico.
    5. Siamo correlazionati agli altri presbiteri che costituiscono cum et sub Episcopo il collegium presbyteriale o "presbiterio". La pastorale integrata è la forma che questa dimensione del nostro sacerdozio oggi è chiamata a prendere. Essa pertanto, la pastorale integrata, deve essere intesa e realizzata non precisamente come un espediente, una strategia operativa per far fronte a particolari congiunture. È la "forma" della strutturale natura collegiale del ministero presbiterale.

È il rapporto con Cristo che ri-forma la nostra esistenza de-forme, trans-formandola "in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore" [2Cor 3, 18]. Si tratta di una vera e propria dislocazione dal proprio io all’io di Cristo: "non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me".

Si faccia attenzione che non sto esponendo l’etica del nostro sacerdozio, ma la sua ontologia soprannaturale; non sto parlando di ciò che il sacerdote deve fare, ma sto dicendo chi è.

Siamo giunti alla radice della questione, alla dimensione più profonda della risposta alla nostra domanda. Da che cosa ultimamente dipende la qualità della nostra vita sacerdotale? Questa era la domanda. Dalla consistenza, dalla profondità della nostra trasformazione in Cristo; dalla misura di verità con cui dico: "non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me", e "per me vivere è Cristo".

È l’ontologia del sacramento ciò di cui sto parlando. È il senso non semplicemente giuridico della rappresentanza sacramentale [vices gerens Christi; in persona Christi agens].

La validità dei sacramenti non dipende certamente dalla santità del ministero. Ma la qualità della sua vita; che la sua sia una buona o una cattiva vita dipende dalla misura in cui il sacerdote può dire con verità quelle parole di San Paolo.

2. Ma la risposta alla domanda da cui siamo partiti sarebbe incompleta se non affrontasse, almeno in maniera essenziale, la dimensione etica della vita sacerdotale. La qualità della vita del presbitero dipende anche dal modo con cui esercita la sua libertà; dipende dalla qualità, dalla figura della sua libertà.

L’apostolo Paolo ci insegna che non ci sono molti modi di essere liberi. Ce ne sono solo due: vivere/morire per se stessi – vivere/morire per colui che è morto e risorto per noi. È la libertà che definisce la nostra esistenza sacerdotale, come definisce ogni esistenza umana: la libertà o di vivere/morire per se stessi o di vivere/morire per colui che è morto e vive per noi.

La seconda opzione significa per il sacerdote identificare il senso della propria vita con la "causa di Cristo". Più precisamente. La ragione per cui il Verbo si è fatto carne è la salvezza dell’uomo: propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelo. La "causa di Cristo" è la salvezza dell’uomo. "Vivere per lui" significa per il sacerdote fare propria la "causa di Cristo" in modo tale che essa sia sentita e scelta come l’unica autorealizzazione vera della propria persona: mihi vivere Christus est.

"È … inevitabile che alla base del suo esercizio la libertà compia un’opzione fondamentale quanto al suo orientamento: opzione tra la presunzione della sua autosufficienza e l’umiltà della sua relazione, tra l’inquietudine dell’infinità astratta del puro volere e la pazienza della sua elaborazione trasformatrice" [F. Botturi, La generazione del bene, Vita e pensiero, Milano 2009, p. 147].

È ciò che accadde a Pietro. Egli fu attratto a Cristo suo prediletto ["Signore, tu sai che ti amo"], e quindi la "causa di Cristo" diventa la sua causa ["pasci le mie pecore"], e non ha più alcun altro interesse ["che ti importa (di lui): tu vieni e seguimi"].

La riflessione ci aiuta a capire più a fondo la qualità sacerdotale dell’esercizio della nostra libertà.

Nel vangelo di Giovanni, Gesù afferma che nessuno può venire a lui e credere in lui, se non è attirato dal Padre. L’esercizio della nostra libertà non è solo, non implica solo la scelta. Esso è anche potere di auto-realizzazione o di auto-negazione. A questo secondo livello la libertà sussiste in quanto aderisce all’attrazione che il bene esercita sulla persona.

Il Padre attira la libertà del sacerdote mostrandogli la bellezza della "causa di Cristo". Questi aderisce perché "sente" che è nell’identificazione colla "causa di Cristo" che consiste la propria auto-realizzazione [cf. S. Paolo: …di rivelare a me il suo Figlio perché lo annunciassi].

Possiamo dire tutto questo con una formulazione che spesso uso quando vi parlo. Il vertice della nostra libertà è l’identificazione fra la coscienza che abbiamo di noi stessi e la nostra missione: io sono la mia missione.

Questa opzione fondamentale del sacerdote si innerva sulla vita del sacerdote, plasma la sua esistenza mediante tre fondamentali attitudini permanenti: la castità perpetua e perfetta; l’obbedienza; la povertà. L’esistenza sacerdotale è un’esistenza verginale; è un’esistenza obbediente; è un’esistenza povera.

(A) Un’esistenza verginale. Non confondiamo; meglio, non riduciamo la castità alla continenza. Questa, come vedremo, intesa come astinenza perfetta e perpetua da ogni attività sessuale, è una conseguenza della verginità.

Non vi richiamo neppure brevemente i punti fondamentali dell’antropologia sessuale che la filosofia e la teologia di questi ultimi decenni ha elaborato. Li presuppongo noti.

La "causa di Cristo" sequestra così profondamente la persona del sacerdote; il rapporto con Cristo penetra così profondamente l’affezione del sacerdote, da costituite l’unico suo bene: il summum et unicum bonum. Il resto affettivamente non interessa e spiritualmente non attrae.

(B) Un’esistenza obbediente. Il punto è centrale nel modo sacerdotale di esercitare la libertà. Da un certo punto di vista, e cristocentrico ed ecclesiocentrico, è la chiave di volta dell’esercizio che il sacerdote fa della propria libertà. Mi imito all’essenziale.

Alla radice dell’esistenza sacerdotale sta l’evento che sta alla radice dell’esistenza umana del Verbo incarnato: è stato mandato – missus est. L’io del sacerdote si identifica esistenzialmente con la missione: con la sua condivisione colla missione di Cristo.

Questa – la missione di Cristo – si realizza nella e mediante la Chiesa. L’io, l’anima del sacerdote o è ecclesiale o è un fallito. In quanto mandato, l’auto-disposizione prende la forma dell’essere a disposizione della Chiesa.

È molto difficile oggi entrare in questa prospettiva perché respiriamo tutti, senza accorgersene, uno degli errori antropologici più gravi della cultura odierna: l’identificazione fra auto-determinazione ed auto-nomia. Se veniamo a patti con questa identificazione, tutta la profondità teologica, cristologica ed ecclesiologica dell’obbedienza sacerdotale è azzerata. Un’esistenza obbediente viene inevitabilmente pensata come contraria alla dignità della persona.

(C) Un’esistenza povera. È più facile a capirsi … anche se più difficile a praticarsi.

Chi ha Gesù, ha tutto; chi possiede il suo amore, non ha bisogno di altro; chi amministra i tesori del Regno, non pensa ad altri.

Come la verginità è integrata dalla continenza così la povertà è integrata dalla sobrietà e dall’austerità.

Concludo questo primo punto della seconda parte della riflessione. Ho iniziato dicendo che la qualità della vita sacerdotale dipende dalla qualità dell’esercizio della nostra libertà, dal modo di esercitare la propria libertà.

Ho detto che l’esercizio della libertà sacerdotale – la messa in atto della sua capacità di scelta – ha la sua radice in una opzione fondamentale.

Ho detto che questa opzione fondamentale genera uno stile di vita: uno stile di verginità, di obbedienza, di povertà.

Vivendo nel modo predetto, anche le fondamentali relazioni che costituiscono il contesto esistenziale della vita sacerdotale, sono vissute bene.

La qualità di queste relazioni può essere ottima, buona, cattiva, pessima. E pertanto la vita del sacerdote può essere ottima, buona, cattiva pessima.

(a) La qualità della relazione colla Divina Rivelazione va in primo luogo considerata, la relazione colla Parola di Dio.

L’apostolo Pietro parla di una "santificazione [castificantes, Vg] delle nostre anime nell’obbedienza alla verità [cfr. 1Pt 1,22]. La nostra collocazione nella realtà in rapporto a Cristo, il nostro essere e vivere in Cristo inizia dalla santificazione della nostra mente, del nostro modo di pensare. Non possiamo essere, vivere in Cristo se non abbiamo il pensiero di Cristo [cfr. 1Cor 2,36].

La santificazione della nostra intelligenza può avvenire solo attraverso l’obbedienza delle fede alla Divina Rivelazione.

La qualità della nostra relazione alla Parola di Dio è la causa originaria della qualità della nostra esistenza sacerdotale, poiché da quella dipende se questa è nella verità e se la verità è in noi. Se abbiamo una visione vera del mondo, della storia, di noi stessi, del nostro ministero: di tutto.

La relazione colla Parola di Dio è la fede. Non è solo questione di assenso soprannaturale alla Divina Rivelazione. Si tratta di vivere nella luce del Mistero nascosto da secoli e rivelato: del Mistero della Trinità, dell’Incarnazione e Redenzione, del Mistero che è la Chiesa. Essi sono luce per le nostre scelte, criteri di giudizio, leggi e principi ispirativi del nostro pensare. Abbiamo mai pensato seriamente che la fede introduce nel nostro modo di pensare il modo di pensare propriamente di Dio? Che il dono della fede eleva la nostra mente al di sopra delle sue naturali capacità? La parola di S. Pietro va presa tremendamente sul serio.

Si tratta di porci docilmente alla scuola della Chiesa: non c’è altro luogo dove costruire una buona relazione colla parola di Dio. Si legga Ireneo Adv Haereses V,26,5 [ed. CN, pag. 238]. E S. Gregorio M. scrive : "Tutto ciò che è stato detto, sarà praticato nel modo dovuto dal pastore, ad una condizione: che ispirato dall’alto dallo spirito del timore e dell’amore studiose cotidie sacri eloquii praecepata meditetur" [Regola pastorale UU, 11].

(b) La relazione alla Parola di Dio mediante la fede ci fa vivere la giusta relazione con l’uomo. Se la prima è costituita dalla fede, questa è costituita dalla carità pastorale.

Il profilo pastorale che assume nel presbitero la virtù teologale della carità, consiste nel fatto che egli continua nel mondo l’auto-donazione del Redentore. È questa la "logica" dell’esistenza sacerdotale: la passione per l’uomo, per il suo bene.

La vera carità – la carità virtù teologale – è partecipazione, donataci dallo Spirito, alla stessa carità di Cristo: il pastore ama l’uomo come e perché Cristo lo ama. Charitas Christi urget nos, scrive S. Paolo. Il genitivo è di autore: nell’apostolo c’è la stessa carità che era in Cristo. Le passioni di Cristo abbondano in noi, dice ancora l’apostolo: ciò che egli soffre a causa del suo ministero sono le sofferenze redentrici di Cristo in lui.

La carità pastorale del presbitero non può allora non esercitarsi in un contesto di "battaglia", di vero e proprio combattimento contro i poteri del mondo e del suo principe, che si oppongono al Vangelo [cfr. Ef. 6,12]. E nello scontro a volte possiamo anche rimanere feriti, subire la tentazione di fuggire.

Non può non esercitarsi che come "compassione", "condivisione" per e delle miserie dell’uomo. Tutti i grandi pastori hanno vissuto questo mistero di "sedersi a tavola coi peccatori". Per essi la preghiera non è più stata sufficiente. Sono arrivati a partecipare la loro condivisione di assenza di Dio, di incredulità, di miseria: così il Curato d’Ars, così Padre Pio da Pietrelcina, è nella fedeltà al confessionale che si esprime questo mistero di compassione e di condivisione.

Il legame fra la relazione alla Parola di Dio e la relazione all’uomo è presentato stupendamente da S. Gregorio M. nella Regola Pastorale [II, 5; SCh 381, 196-202].

Il pastore, dice, deve essere singulis compassione proximus; prae ceteris contemplatione suspensus. La compassione deve giungere fino al punto ut … per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat; la contemplazione, fino al punto (ut) per speculationis altitudinem semetipsum quoque invisibilia appetendo transcendat.

Per il sacerdote non c’è che una sola causa di infelicità: di non amare abbastanza.

(c) Ogni presbitero è inserito in un presbiterio, generato quotidianamente dalla carità reciproca.

Mi limito a dire qualche parola di commento ad un testo paolino: "Per il resto, fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio della pace e dell’amore sarà con voi" [2Cor 13,13]. Queste parole apostoliche, sono il codice etico della fraternità presbiterale.

3. Concludo con due considerazioni finali, che reputo assai importanti per la qualità della vita del presbitero.

La prima. Ho detto tante cose a riguardo della qualità di vita del presbitero. A questo punto mi faccio una domanda: esiste nella vita del presbitero un momento in cui tutto ciò che ho detto si concentra, così che quando vive quel momento il presbitero vive in sintesi tutta, dico tutta, la sua vita sacerdotale?

Sì, esiste: è la celebrazione dell’Eucaristia. Pertanto la qualità della vita del presbitero dipende interamente dalla qualità della sua celebrazione eucaristica.

La seconda considerazione finale è più lunga ed un poco più complessa.

Una riflessione come quella che ho cercato di fare, è insidiata da un grave pericolo che potrei descrivere così. Si ascolta con attenzione, ma nello stesso tempo oppure subito dopo si confronta ciò che si è udito colle condizioni e della propria vita e ministero, e del contesto in cui si vive, e della situazione della Chiesa. Il confronto può portare a concludere che quanto detto è cosa fuori dalla realtà, e quindi inutile oppure che non affronta i veri problemi della vita presbiterale.

Poiché ritengo che questo sia una difficoltà molto seria, vorrei affrontarla con tutta la serietà intellettuale che merita.

Parto dall’idea centrale della seconda parte: la qualità della vita dipende dalla qualità della libertà.

Questa affermazione, centrale nell’antropologia cristiana, non va intesa come se l’esercizio della propria libertà non dovesse sempre confrontarsi con un contesto che la condiziona. Anzi la persona agisce sempre provocata da fatti e condizioni predisposte dalla non-libertà. Chi non accetta questa condizione della nostra libertà è l’adolescente.

Posta di fronte al e nel "non-libero" la persona deve evitare sia di subirlo passivamente [=servitù] sia di trascenderlo completamente [=spontaneismo]. Ciò che è chiesto è di prendere posizione.

Prendere posizione significa o consentire umanamente e cristianamente a ciò che non è trasformabile o intervenire per mutare ciò che è trasformabile.

Ed è anche questo una fatica che ci accingiamo a portare durante questi Tre giorni.