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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«UNIVERSALISMO E RELATIVISMO NELL’ETICA CONTEMPORANEA»
Presentazione del libro di A. Vendemmiati
Pontificia Università Urbaniana - Roma, 28 maggio 2008


Credo opportuno iniziare da due premesse. La prima. Ci sono buone ragioni per leggere questo libro: almeno tre.

La domanda etica non può più essere elusa; intendo dalla riflessione razionale e dal dibattito pubblico. Essa infatti è ultimamente domanda circa il bene della persona [non semplicemente circa ciò che posso/non posso fare; circa ciò che è utile/dannoso]. Il libro, mi sembra, intende e tenta riaffermare la ragionevolezza della domanda etica, la sua originarietà, la sua irriducibilità.

Sono poi sempre più intimamente convinto che la più radicale sfida alla costruzione di un’etica razionale, di una ricerca razionale della vita buona, sia il relativismo etico. È forse il nodo teoretico di questo libro. Bisogna finalmente affrontare il problema fondamentale dell’etica contemporanea: "a quali condizioni l’esistenza di ordini valoriali differenti risulta compatibile con una qualche oggettività delle norme morali di base? In che modo l’imprescindibilità dell’impegno e del punto di vista personale si coniuga con l’accessibilità a qualunque persona ragionevole, richiesta per il fondamento di una norma vincolante per tutti?" [R. De Ponticelli, Premessa a R. Mordaci, La vita etica e le buone ragioni, Bruno Mondatori, Milano 2007, p. VIII].

Infine, terza ragione, questa problematica ha oggi una grande rilevanza politica [nel senso classico del termine], poiché dalla sua soluzione dipende la qualità, la forma e lo stile della nostra convivenza civile.

La seconda premessa intende illustrare la prospettiva del mio intervento.

Ovviamente non intendo fare il riassunto del libro. Non avrebbe senso. Vorrei piuttosto dirvi a quali riflessioni soprattutto sono stato stimolato dalla sua lettura, così da entrare in un vero e proprio dialogo non solo con l’autore.

1. L’autore ritiene che la riflessione etica contemporanea si trovi dentro ad un vicolo cieco, che egli descrive nel modo seguente: "da un lato l’universalismo moderno con le sue insolute aporie; dall’altro il relativismo post-moderno con la sua "insostenibile leggerezza"" [pag.16]. Universalismo denota in questo contesto la possibilità di giustificare la propria scelta con ragioni condivisibili. Relativismo denota l’impossibilità di sottoporre le scelte ad un tribunale della ragione in cui possa riconoscersi qualsiasi altra persona.

Il punto di partenza del saggio – che mi è sembrato essere questo – dona molta materia di riflessione, e mi pone almeno due domande fondamentali.

La prima domanda: questa aporia è il capolinea obbligato di una partenza sbagliata? Cioè: è il risultato inevitabile di un modo sbagliato di porre la domanda etica?

Non voglio ora parlare del contrasto fra l’etica alla terza persona e alla prima persona, perché in questo contesto porterei vasi a Samo. La mia domanda è più semplice ed oso presumere più profonda: di quale esperienza umana, di quale vissuto umano parlo quando parlo di esperienza etica? È noto come inizia il primo vero trattato di etica dell’Occidente: "Ogni arte e ogni ricerca, e similmente ogni azione e ogni proposito, sembrano mirare a qualche bene, perciò a ragione definirono il bene: ciò a cui tende ogni cosa" [Aristotile, Etica a Nicomaco 1094 a].

L’esperienza etica denota la persona che agisce in vista di uno scopo che essa si prefigge. Penso che non si esca dall’impasse in cui oggi si dibatte la riflessione etica se non si inizia dalla struttura teleologica dell’atto della persona, la sua originaria direzionalità ["intentio … significat in aliquid tendere": 1.2, q.12, a.1c]. Come è noto, è questo il punto di partenza di Persona e atto di K. Woitila.

È stato giustamente notato che parlando di questa struttura teleologica, "se invece di ‘fini’ parlassimo di ‘beni’ cambieremmo il "senso", ma non il "riferimento" … Ma neppure romperemmo la sinonimia, se invece di fini o beni, parlassimo di ‘amori’, poiché il fine che perseguiamo con le nostre azioni o i beni che auspichiamo sono in realtà le cose che amiamo" [E. Ortiz, Analitica dell’azione, in F. Botturi (a cura di), Prospettive dell’azione e figure del bene, V&P, Milano 2008, pag. 6; "ogni agente, qualunque esso sia, compie qualsiasi atto per un qualche amore", 1,2, q.28, a.6 c].

È nota l’affermazione di D. Hume: "Non avanzeremo mai di un passo di là di noi stessi" [Opere filosofiche, I, Trattato della natura umana, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80]. Penso che ci siano poche descrizioni chiare come questa della visione del mondo e dell’uomo dominante oggi in Occidente.

Ovviamente non si può pensare questo senza cadere in contraddizione performativa. È certo che Hume pensa che almeno in ciò che sta dicendo, egli intende dire qualcosa che va oltre la sua convinzione: che afferma un dato di fatto valido per tutti.

Il discorso etico o parte dalla caratteristica fondamentale del dinamismo personale dell’uomo, che è la trascendenza, ["l’avanzare di un passo oltre se stesso"] oppure finisce in aporie insolubili. Peggio: finisce nella non significanza.

La seconda domanda: esiste una intrinseca ragionevolezza dell’amore? Logos ed eros si escludono a vicenda perché sono originariamente estranei l’uno all’altro? È lo stesso che chiedere: esiste una verità circa il bene? Oppure il bene è sempre e solo ciò che appare come tale?

Si può dire che il bene è sempre e solo ciò che appare, ma non si può vivere ed agire in base a questa convinzione: nessuno accetterebbe di essere trattato così come appare all’altro, e non come è.

In sintesi: l’amore è la ragione basilare del nostro agire e l’etica è la scienza dell’amore. In una tale prospettiva la domanda: "perché devo agire moralmente?" non ha senso, e non può neppure sorgere seriamente.

2. Vorrei ora presentarvi alcune riflessioni che mi provengono soprattutto dal terzo saggio del volume. Più precisamente, quando ho preso in esame la riflessione dell’autore circa le istanze relativistiche e le loro motivazioni nell’ambito sociale-politico.

Le ragioni di questa scelta che ho fatto sono almeno due. Il tema, o meglio il risvolto sociale dell’istanza relativistica è di particolare interesse per il pastore perché esso contraria in maniera radicale il logos dell’agape, cioè l’avvenimento cristiano come tale.

In secondo luogo, ma non dammeno, le ragioni della convivenza diventano sempre più fragili e quindi il bene umano del vivere associato sempre meno condiviso.

L’impasse di cui l’autore parla all’inizio del suo saggio [cfr. pag. 16] trova nelle ragioni politiche del relativismo la sua espressione più inequivocabile [cfr. pagg. 87-93].

Inizio la mia riflessione da una incisiva affermazione dell’autore: "La pretesa di difendere la causa del liberalismo democratico e del pluralismo mediante l’apologia del relativismo equivale a tagliare dall’albero il ramo su cui si è seduti, ossia – fuori metafora – privarsi di ogni argomento razionale in grado di confutare il totalitarismo e precipitare inesorabilmente nella tirannia della volontà dei più forti" [pag. 93].

Esprimo in sintesi quanto verrò poi dicendo: si può ragionevolmente parlare di "legge naturale" oppure di "beni umani non negoziabili". Cambieremmo il senso, ma non il riferimento. Il riferente è … il ramo su cui è seduta ogni convivenza che non voglia precipitare nel caos e nella degenerazione [Vico direbbe: nella "barbarie"]. Vorrei ora riflettere un poco su questo, alla luce anche delle argomentazioni dell’autore del saggio che stiamo esaminando.

Parto da una domanda: è sostenibile una discussione pubblica senza riferirsi alla "natura della persona umana"? oppure sostenere il dibattito pubblico all’interno della negazione di una "natura della persona umana" è una contraddizione performativa?

È stato uno dei temi centrali del discorso di Benedetto XVI all’ONU il 18 aprile scorso, dove disse che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione universale "sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà". E svolge una critica contro il proceduralismo affermando "che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere". Di conseguenza conclude: "Il dialogo dovrebbe essere riconosciuto quale mezzo mediante il quale le varie componenti della società possono articolare il proprio punto di vista e costruire il consenso attorno alla verità riguardante valori od obiettivi particolari".

Il nostro autore nelle pagine appena citate svolge una riflessione essenziale, che ora vorrei riprendere.

Il discorso su questo tema deve sicuramente evitare due scogli. L’uno è la deduzione immediata di norme di giustizia dalla spontaneità naturale. Il riferimento alla natura della persona non ha il significato di cercare un codice giuridico (supposto) naturale, preesistente alla riflessione razionale. Il riferimento invece ha il senso di affermare l’esistenza di un "criterio di giustizia" per giudicare i codici che, usando della loro ragione, gli uomini hanno sempre scritto. Saranno giudicati in base alla loro [dei codici] ragionevolezza, cioè alla loro conformità alla "natura della persona".

L’altro scoglio da evitare è di "fingere" di partire da zero. Gli uomini hanno sempre usato della loro ragione per vivere una buona vita associata: i profeti biblici condannano comportamenti anche di popoli che, a diversità di Israele, non hanno avuto l’istruzione divina. Esiste una storia della ragione pratica dell’uomo. È ben nota l’affermazione aristotelica che il ricorrere alle persone virtuose per risolvere problemi complessi, è la via maestra. Non a caso la grande tradizione etica della Chiesa ha trovato nel culto dei santi una delle sue principali sorgenti.

Evitando dunque i due scogli del naturalismo e dell’astrattezza astorica, in che senso (corretto) il riferimento alla "natura della persona", entra nella discussione pubblica? Che cosa correttamente significa questo riferimento?

Partiamo da un’ovvietà: la discussione pubblica mira alla produzione di un consenso, che non è fine a se stesso, ma è in ordine ad una deliberazione, ad una legge che orienta la condotta.

Ma non si tratta solo di orientare la condotta di coloro che partecipano alla discussione, ma anche di persone che non hanno preso parte minimamente alla deliberazione perché non esistevano ancora. La cosa è particolarmente evidente quando si scrive una carta costituzionale. Sulla base di quale presupposto si avanza una tale pretesa di universalità diacronica? Se riflettiamo un momento, la risposta non può che essere: il presupposto che quanto statuisce la norma deliberata ha una sua intrinseca ragionevolezza nella quale ogni soggetto ragionevole può e dunque deve riconoscersi. Cosa significa "riconoscersi" in questo contesto? Che trovo una corrispondenza fra ciò che mi è stato imposto e ciò che la mia persona desidera, e ciò a cui è inclinata. La ragionevolezza della norma ultimamente ha reso chiaro, ha svelato l’inclinazione della persona: il suo amore ragionevole. Scrive Tommaso: "firmiter nihil constat per rationem practicam nisi per ordinationem ad ultimum finem, qui est bonum commune. Quod autem hoc modo ratione constat, legis rationem habet" [1,2, q.90, a.2, ad 3um]. Ritornerò più avanti su questo testo mirabile.

Ho parlato della presenza di una contraddizione performativa presente nella "idolatria del proceduralismo". Ora possiamo smascherarla. Perché delle due l’una. O si custodisce intatta l’affermazione dell’uguaglianza delle persone, ed allora si deve affermare l’esistenza di un "bene comune" che la ragione scopre, del quale tutto sono partecipi. O si nega l’esistenza di un "bene comune" e quindi di una "meta-regola" che orienta la discussione pubblica, ed allora si deve affermare che le norme sono sempre il privilegio concesso al bene privato, all’interesse di qualcuno a spese del bene privato di un altro: l’uguaglianza è semplicemente negata.

3. Vorrei ora concludere con un duplice ordine di riflessione. Sono le riflessioni che sono sorte in me chiudendo il libro, a lettura terminata.

La prima riflessione la trovo splendidamente formulata in un testo di D. von Hildebrand, secondo il quale due sono gli errori circa l’uomo dai quali dobbiamo tenerci alla larga. "Il primo va nella direzione della negazione della sua trascendenza e del credere che sia fondamentalmente incapace di interessarsi ad un valore in sé, che possa solo essere mosso da un "bene oggettivo per lui". L’altro fraintendimento – opposto – consiste nel credere che l’uomo raggiunga la sua piena destinazione solo quando non si sono più beni oggettivi per lui … Il primo errore riduce l’uomo alla dimensione biologica, lo concepisce come una sorta di pianta o di animale. Il secondo lo priva del suo carattere di pieno soggetto, distrugge ciò che è personale in lui" [Essenza dell’amore, Bompiani, Milano 2003, 559-561].

La questione etica si è andata sempre più imponendo come questione antropologica: ciò che è in questione non è l’etica ma l’uomo.

Il secondo ordine di riflessione è più articolato. Riprendo l’ultimo testo tommasiano. Esso è la risposta ad una obiezione secondo la quale non si può identificare puramente e semplicemente l’attività legislativa con l’esercizio della ragione pratica, dal momento che questa si esercita anche in ordine al proprio interesse privato. Qui si entra in un nodo del dramma contemporaneo, sul quale ha riflettuto profondamente Benedetto XVI nella sua non pronunciata allocuzione alla Sapienza, riprendendo una riflessione di Habermas.

La ragionevolezza pratica non può ridursi ad una "lotta per le maggioranze aritmetiche", ma deve caratterizzarsi come "processo di argomentazione sensibile per la verità". Ritroviamo il grande tema della verità circa il bene. Questo processo è insidiato e non raramente eroso dalla contrapposta "sensibilità per gli interessi" privati e collettivi. Insidia ad erosione che riducono la vita associata al fragile miracolo della fortuita convergenza di interessi opposti.

E qui risuona la lezione agostiniana, la sua interpretazione della vicenda umana: è possibile nell’uomo la supremazia dell’amore del bene comune sull’‘amore del bene privato? Dentro a questa gerarchia è possibile un’integrazione fra i due? E quindi la supremazia della "sensibilità per la verità" circa il bene dell’uomo sulla "sensibilità per il proprio interesse"? E quindi è possibile una libertà nella reciprocità?

È in questa lingua che l’uomo di oggi articola la sua invocazione di salvezza, la sua domanda di luce e di bene: in una parola di vita vera, già ora. Non sarà l’etica ad offrire salvezza, ma la potenza incondizionata della Grazia.