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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Ratio ethica e ratio technica: alleanza, separazione o conflitto?
Archiginnasio, 12 settembre 2009


Premessa

La questione del rapporto fra la ragione tecnica e la ragione etica è uno dei nodi dell’attuale dibattito contemporaneo sull’uomo. Nel breve spazio di una conferenza non mi è possibile neppure avvicinarmi ad una completezza di trattazione del tema; mi limiterò ad affrontare alcuni aspetti essenziali.

Inizierò da una semplice ma necessaria chiarificazione dei termini, soffermandomi sulla distinzione di ragione tecnica e ragione etica in quanto forma della ragione pratica; mostrerò poi come nella cultura contemporanea stia avvenendo la riduzione della ragione pratica alla sola ragione tecnica, e rifletterò sulle conseguenze di questo impoverimento nel campo della professione medica; affiderò quindi la conclusione del percorso al confronto tra due figure esemplari, nel cui conflitto possiamo vedere incarnata la drammaticità del rapporto di cui stiamo parlando.

1. Chiarificazione di termini: ragione tecnica e ragione etica

La ragionevolezza tecnica e la ragionevolezza etica sono due realizzazioni, due species dello stesso genus: la ragione pratica.

L’uomo fa uso pratico della sua ragione quando regola l’esercizio della sua libertà e dei propri dinamismi operativi in ordine al raggiungimento di uno scopo. La ragione pratica è dunque la regolamentazione della libertà e dei dinamismi operativi dell’uomo.

Mi sia consentito un esempio. Lo studio della meccanica celeste costituisce esercizio della ragione, ma certamente non esercizio pratico, poiché riguarda realtà che non dipendono dalla libertà umana.

Se questo è il genus ragione pratica, si tratta ora di chiarire in che cosa si differenziano fra loro le due species, ragione tecnica e ragione etica.

La ragione tecnica regolamenta il fare dell’uomo; la ragione etica regolamenta l’agire dell’uomo. La distinzione fra questi due modi di operare, fra la "produzione" (poíesis) e l’ "azione" (prâxis), è stata formulata da Aristotele nell’Etica Nicomachea [ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI, 4-5, 1140 a5 – b30] in base alla distinzione dei rispettivi fini: la produzione ha il suo fine in altro (nell’oggetto), il fine dell’azione è l’azione stessa [Ivi, 5, 1140 b6-7].

La prima differenza consiste dunque nel fatto che il fare non perfeziona come tale la persona che opera, ma semplicemente esprime la sua capacità di fare bene qualcosa (una casa, un ponte, un utensile…); l’agire, al contrario, perfeziona come tale la persona che agisce, poiché il termine o effetto dell’azione è intrinseco al soggetto agente stesso. Basterà un solo esempio. Chi ruba diventa un ladro: il termine dell’agire è la persona che agisce. Chi costruisce male un ponte dimostra solo di essere un cattivo costruttore, poiché ciò che interessa è la qualità del prodotto.

In sintesi potremmo dire: il fare è sempre transitivo ed esteriorizza la persona; l’agire è sempre intransitivo e interiorizza la persona.

La seconda differenziazione specifica consegue alla prima, poiché questa fonda ed esige nella persona due attitudini essenzialmente diverse: l’abilità tecnica (aristotelicamente: la téchne) e la saggezza pratica (aristotelicamente: la phrónesis).

L’abilità tecnica dispone l’uomo a produrre bene, cioè ad effettuare prodotti perfetti, in grado cioè di servire allo scopo per cui sono fatti. La saggezza pratica dispone l’uomo ad agire bene, cioè a compiere quelle scelte che sono conformi al bene della persona come tale, e sono capaci di realizzare una buona vita umana.

Da queste due fondamentali differenziazioni deriva che la logica della ragione tecnica è profondamente diversa dalla logica della ragione etica. Per logica intendo il complesso delle regole che la ragione segue quando è in atto.

La logica propria della ragione tecnica è l’efficacia. Essa, in sostanza, prima di mettersi in atto deve rispondere a due domande fondamentali: "ciò che intendo fare è fattibile?" (comunemente si dice: è tecnicamente possibile?); "il costo della produzione è inferiore o equivalente ai benefici?" (è la regola del rapporto costo – benefici). "Qual è la qualità del prodotto?" è poi la domanda che, a produzione finita, il tecnico si pone sempre. Qualità significa, secondo la logica tecnica, capacità del prodotto di rispondere alla domanda per cui è stato chiesto.

La logica propria della ragione etica è completamente diversa. La ragione etica, infatti, non si accontenta di chiedere se l’azione che la persona umana sta per compiere sia tecnicamente possibile, ma si chiede se è un’azione buona o cattiva, giusta o ingiusta. L’equivalenza costi-benefici non interessa alla ragione etica: il martirio comporta il costo più grande, la propria vita, ma il martire non ne fa conto. La capacità della sua azione di rispondere ad esigenze estrinseche non è considerata dalla ragione etica, dal momento che essa non giudica in base alle conseguenze del suo agire.

Fino ad ora abbiamo presentato la logica della ragione etica per contrarium rispetto a quella della ragione tecnica: possiamo a questo punto tentare una definizione descrittiva diretta.

La logica etica, in sostanza, è la logica della verità circa il bene della persona. Essa, quando si mette in atto, risponde alla seguente domanda: "che rapporto esiste fra questo atto che sto per compiere e la realizzazione vera di me stesso come uomo?" La pagina de I Promessi Sposi in cui Alessandro Manzoni espone la riflessione dell’Innominato sulla propria vita passata, nella notte di tormento che segue l’incontro con Lucia prigioniera [A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXI], è una delle più potenti raffigurazioni della ragione etica. La domanda sul significato etico dell’azione che la persona sta per compiere è la domanda circa il modo con cui l’azione si inscrive nel progetto fondamentale della vita di chi agisce; è la domanda circa la relazione fra l’azione che si sta per compiere e l’orientamento della volontà ad una vita veramente buona.

La logica tecnica è quindi una logica attinente agli strumenti in ordine ad uno scopo: una logica strumentale. La logica etica è invece una logica progettuale: riguarda la realizzazione di sé in quanto progettata dalla ragione e attuata dalla libertà.

San Tommaso esprime tutto questo in modo esemplarmente limpido, quando scrive:

Ratio aliter se habet in artificialibus, et aliter in moralibus []. In moralibus autem ordinatur ad finem communem totius humanae vitae [TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae I-II, q. 21, a. 2, ad secundum: "la ragione si comporta in un modo nell’ambito della tecnica e in un altro in quello della morale […]. Nell’ambito della morale, d’altro canto, è ordinata al fine comune dell’intera vita umana"].

E quindi, mentre la logica tecnica riguarda risposte particolari a bisogni particolari, la logica etica riguarda questioni

quae pertinent ad totam vitam hominis, et ad ultimum finem vitae humanae [Ivi, I-II, q. 57, a. 4, ad tertium: "che si riferiscono all’intera vita dell’uomo, e al fine ultimo della vita umana"].

Da questa prima riflessione consegue che alla persona ragionevole non è chiesto di scegliere se usare eticamente oppure tecnicamente la sua ragione. Ragione tecnica e ragione etica non sono alternative, per almeno due motivi.

Il primo motivo è che non si tratta di due facoltà spirituali, lasciate alla libertà dell’uomo. È la stessa identica ragione che può essere usata in un modo e nell’altro, dal momento che la logica intrinseca ai due usi è distinta. Da ciò deriva che l’optare per l’una o per l’altra è sempre un impoverimento dell’uomo, perché riduce le sue capacità razionali. Una cultura che non coniughi insieme le due possibilità è una cultura povera.

Il secondo motivo è che ragione tecnica e ragione etica si propongono lo stesso fine, il bene della persona umana. Questa prospettiva merita un’attenta considerazione.

Il bene denota la condizione di realizzazione delle inclinazioni della persona umana: pertanto esistono tanti beni umani quante sono le risposte capaci di soddisfare le inclinazioni umane. È rimasta classica la sistemazione di Tommaso d’Aquino, secondo la quale esistono tre originarie inclinazioni umane: inclinazione a vivere (il bene umano della vita); inclinazione al rapporto sessuale uomo-donna (il bene umano del matrimonio e della procreazione); inclinazione alla convivenza sociale (il bene umano della società) e alla conoscenza della verità dell’intero (il bene umano della religione) [ Ivi, I-II, q. 94, a. 2].

Si deve tuttavia fare attenzione: queste inclinazioni (e i correlativi beni umani) non sono come linee parallele, ma sono intimamente unificate dalla loro intrinseca esigenza ad essere realizzate in modo umano. Non un qualsiasi modo di vivere in società è cercato dall’uomo, ma il vivere in una società giusta; non un qualsiasi rapporto uomo-donna è umanamente degno; l’esperienza religiosa deve essere accuratamente difesa dalla superstizione.

Esiste cioè un’esigenza, inscritta nella persona umana come tale, di vivere secondo un ordine, una bellezza intelligibile. In una parola: secondo ragione.

L’uomo sembra condividere l’inclinazione a vivere con ogni organismo vivente. Ma in realtà l’inclinazione vitale nell’uomo è abitata da un’esigenza secondo la quale non basta vivere, ma sono necessarie ragioni per cui vale la pena di vivere.

La ragione tecnica si pone al livello dell’inclinazione a vivere condivisa con ogni organismo vivente; la ragione etica è la ricerca del senso della vita.

Una delle Operette morali di Giacomo Leopardi, Dialogo di un fisico e di un metafisico, è al riguardo esemplare: al Fisico che annuncia di avere scoperto l’arte di vivere a lungo, il Metafisico risponde che la pura vita non basta, poiché ciò che gli uomini vogliono è la vita felice.

Quando dunque parliamo di ragione etica, intendiamo l’uso che la persona umana fa della sua ragione quando, inclinata a vivere dignitosamente, cerca di scoprire le modalità di un’autorealizzazione vera.

Anche dal punto di vista del soggetto agente ragione tecnica e ragione etica non sono nemiche: lavorano al bene dell’uomo su piani diversi. Ma è altrettanto vero che la ragionevolezza tecnica deve integrarsi nella ragionevolezza etica. Integrazione non significa annessione; significa subordinazione. Una tecnica insubordinata all’etica porta alla devastazione dell’humanum e del cosmo.

Faccio un esempio. Tutti sono concordi nel ritenere che sono necessari nuovi global legal standard per superare l’attuale crisi finanziaria ed economica (proibizione dei contratti speculativi, eliminazione dei paradisi fiscali e così via). La ragione tecnica è dunque chiamata a un duro lavoro. Ma senza una forte ragione etica, quel lavoro sarebbe inefficace.

2. L’impoverimento della ragione pratica nella cultura contemporanea

Chiarita la distinzione e la possibilità per l’uomo di essere tecnicamente ed eticamente ragionevole, di usare cioè la sua ragione pratica in due modi specificamente distinti, vorrei ora mostrare come stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione culturale, che consiste nella riduzione della ragionevolezza pratica alla sola ragionevolezza tecnica. Una riduzione che è speculare a quella della ragionevolezza teoretica alla ragionevolezza scientifica. Tecnicismo e scientismo sono due colpi mortali inferti alla ragione, e vi è fra essi un rapporto ben definito.

Per chiarire in che cosa consista il primo riduzionismo, partirò da un fatto. Il 30 luglio scorso, il C.d.A dell’AIFA ha autorizzato a maggioranza l’immissione in commercio della RU486. L’organismo in questione ha competenza esclusivamente tecnica; esso deve giudicare l’idoneità del farmaco con riferimento alla salute della donna.

Il fatto dà da pensare. Si sono censurate domande che non sono proprie della razionalità tecnica ma di quella etica, sia nel suo uso privato che nel confronto pubblico (politico). Ciò che è tecnicamente possibile fare è eo ipso ragionevolmente agibile. Siamo cioè davanti ad una vera e propria annessione della ragione etica da parte della ragione tecnica. Un’annessione che non solo toglie sovranità alla ragionevolezza etica, ma ne nega persino l’autonomia di senso.

Lasciando da parte la considerazione di questo fatto, al quale se ne potrebbero aggiungere altri, per esempio la dicotomia fra l’economico e il sociale, dobbiamo ora porre una domanda di fondo: come è stato possibile il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica sul piano teoretico, sequestro a cui è conseguita la prassi di una tecnocrazia inappellabile?

Cercherò di rispondere in maniera essenziale a questa domanda, nella piena coscienza delle difficoltà che si incontrano nell’affrontarla.

La mia risposta, in sintesi, è la seguente: ciò che ha consentito sul piano teoretico il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica e sul piano pratico l’avvento della tecnocrazia è stato l’ingresso, nella coscienza europea, della definizione dell’uomo come soggetto utilitario.

Diviene a questo punto di decisiva importanza il concetto di soggetto utilitario: per comprenderne il significato si può fare riferimento alla riflessione di Francesco Botturi, che ne dà una definizione descrittiva molto chiara e precisa.

Con soggetto utilitario si può intendere l’idealtipo dell’agente il cui orizzonte antropologico è costituito dai suoi bisogni ed interessi […], il cui criterio di soddisfazione è polarizzato dalla psicologia centripeta dell’amor proprio: bisogni ed interessi sempre mediati affettivamente da passioni e sentimenti rispetto a cui la ragione si auto interpreta, in modo nuovo, come funzione pratica strumentale di calcolo, di previsione, di effettuazione [F. BOTTURI, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita&Pensiero, Milano 2009, p. 274].

La definizione dell’uomo come soggetto utilitario implica dunque tre aspetti fondamentali.

In primo luogo, ciò che muove la persona ad agire, a compiere una scelta piuttosto che un’altra, sono esclusivamente i suoi bisogni ed interessi mediati dalle passioni.

In secondo luogo, la costruzione della propria vita secondo questo modello centripeto non può essere giudicata dalla ragione. In altre parole, la domanda se esista una realizzazione veramente buona della vita umana, che si contrapponga ad una realizzazione solo apparentemente buona, è divenuta priva di senso. Ciascuno è giudice di se stesso quanto alla sua concezione di una vita buona: de gustibus non est disputandum!

Infine, la ragione pratica viene spossessata della sua capacità di giudicare la verità o meno di una concezione, di un progetto di vita buona, dal momento che non esistono criteri universalmente validi (e la ragione è comunque la facoltà dell’universale) in base ai quali discernere progetti veri da progetti falsi.

Alla ragione non resta che studiare il modo con cui realizzare i desideri, e rispondere ai bisogni: ha solo una funzione strumentale. Può soltanto verificare la possibilità tecnica di realizzazione, calcolare il rapporto costo-benefici; prevedere la qualità del risultato. È esattamente la definizione di ragione tecnica.

La ragione dunque non è in grado di giudicare ciò che il desiderio passionale vuole; non ha la capacità di pronunciare giudizi di valore universalmente validi circa i "fini desiderati/passionali" dell’uomo. E pertanto non ha la capacità di pronunciare giudizi di valore universalmente validi circa le singole scelte e i singoli atti in rapporto alla progettazione totale della vita (Tommaso d’Aquino direbbe: ad totam vitam hominis).

La ragione è chiamata solo a verificare quali sono le vie, quali mezzi occorrono per realizzare il fine desiderato. Cioè: la razionalità etica consiste nella razionalità tecnica.

Il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica è quindi la conseguenza di una concezione dell’uomo che si è andata imponendo nella coscienza europea. Una concezione individualista che ha generato il paradigma utilitarista come interpretazione esclusiva dell’agire umano.

3. Riduzionismo tecnicistico e professione medica

Vorrei ora condurre una breve riflessione circa la condizione della professione medica alla luce di quanto ho detto sopra.

La riflessione sulla professione medica è un punto di vista privilegiato per prendere coscienza lucida della problematica fin qui delineata. La professione medica è infatti l’incrocio della ragionevolezza etica con la ragionevolezza scientifico-tecnica: lo è fin dall’inizio, come dimostra il giuramento di Ippocrate.

L’esercizio della professione medica è andato elaborando lungo i secoli un suo codice etico, una deontologia che è il risultato della simultanea coniugazione di ragionevolezza etica e di esperienza professionale. La deontologia medica nasce e cresce sulla consapevolezza di una identità della professione, che non è semplicemente definita da una consenso sociale. È frutto di esemplari figure mediche; di rapporti fra maestri riconosciuti e discepoli; di trasmissione di un ethos condiviso.

Ma nello stesso tempo la professione medica è esercizio di ragionevolezza scientifico-tecnica. Non insisto su questo aspetto, perché direi delle ovvietà.

Che cosa significa dunque per la professione medica il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica? Prima di rispondere devo introdurre nella mia riflessione una tematica di carattere più generale.

La comparsa del soggetto utilitario, il paradigma dell’utilitarismo usato come cifra interpretativa unica della soggettività umana ha avuto conseguenze assai rilevanti sull’uso pubblico della ragione etica, cioè sull’etica pubblica. D’altra parte l’etica pubblica ha nella produzione delle leggi una delle sue manifestazioni più importanti. Mi limito solo al nodo centrale di questa problematica.

Partendo dal presupposto che la ragione umana non è capace di pronunciare un giudizio sulle concezioni e sui progetti di vita buona attraverso argomentazioni universalmente condivisibili, si conclude che la regolamentazione dei rapporti sociali deve essere eticamente neutrale. Nessuna concezione di bene, di vita buona deve transitare attraverso la norma giuridica. Ciascuno deve essere libero di compiere i suoi desideri. In sintesi, la costruzione dell’ordinamento giuridico deve prescindere dal soggetto agente, dalla sua auto-comprensione esistenziale.

In questo contesto si vanno imponendo due conseguenze sull’ambito della professione medica.

La prima conseguenza è che non esiste una identità della professione medica, come fonte di giudizi e norme morali, che preceda da un lato la legislazione statale e dall’altro il rapporto col paziente. Il richiamo al principio "questo non può essere richiesto al medico come tale" è sempre più debole sia di fronte allo Stato che di fronte al privato. Resiste ancora la figura dell’obiezione di coscienza: fino a quando?

La seconda conseguenza è che il rapporto medico-paziente si configura sempre più come offerta, prestazione d’opera per soddisfare un desiderio, un bisogno. La prestazione deve solo essere tecnicamente corretta. Poiché la correttezza tecnica è sempre più o meno a rischio, è necessario assicurarsi contro ogni pericolo.

Il rapporto medico-paziente cessa progressivamente di essere pensato come alleanza terapeutica, e diviene sempre più prestazione d’opera tecnicamente corretta su richiesta. Dei due fondamentali referenti della professione medica, scienza e coscienza, il secondo va progressivamente scomparendo. Dunque il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica non sta risparmiando la professione medica, che anzi è uno dei luoghi (insieme al campo dell’attività economica) in cui è più agevole vederne gli effetti devastanti. Tra questi effetti c’è la degradazione della professione medica.

4. Conclusione: due figure per un dramma

Sono giunto alla conclusione. Vedendo la "sconfitta" della ragione etica, qualcuno potrebbe pensare: "tanto peggio per essa!". In realtà, come risulta da tutta la precedente riflessione, questa sconfitta è la sconfitta dell’uomo in quanto tale, la sua riduzione ad oggetto.

Che cosa alla fine questo significhi si rende visibile esprimerlo nel confronto fra due figure dal comportamento opposto: Sir Ugo de Morville e Abramo.

Nel dramma di T. S. Eliot Assassinio nella Cattedrale, Sir Ugo de Morville è il Secondo dei cavalieri che per ordine del re Enrico II uccidono l’arcivescovo Thomas Becket. Ad assassinio avvenuto, il Secondo Cavaliere si rivolge agli spettatori e giustifica l’omicidio nel modo seguente:

"A nessuno dispiace più che a noi d’essere obbligati a usare violenza. Sfortunatamente vi son tempi nei quali la violenza è l’unico modo per poter assicurare la giustizia sociale. In altri tempi voi condannereste un Arcivescovo con un voto del Parlamento e lo decapitereste con tutte le forme come traditore e nessuno porterebbe la taccia di assassino […]. Ma se voi siete ora arrivati a una giusta subordinazione delle pretese della Chiesa al benessere dello Stato, ricordatevi che siamo stati noi a fare il primo passo" [ T. S. ELIOT, Assassinio nella cattedrale,in Opere, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1986, pp. 373-374].

Ben diversa, addirittura opposta è l’attitudine di Abramo quando viene richiesto dal Signore di sacrificare il figlio. Egli sa semplicemente che per essere se stesso deve uccidere il figlio, poiché questa obbedienza lo fa diventare ciò che è: il servo del Signore. Sulla base di un calcolo delle conseguenze, questa è l’unica scelta completamente sbagliata. La discendenza finirebbe, e con essa ogni futuro.

Chi ha ragione?

"Dal punto di vista della storia universale diventa falsa una proposizione, che dal punto di vista etico è vera ed è la forza vitale dell’etica: il rapporto di possibilità che ogni individualità esistente ha rispetto a Dio" [S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia", parte II, sez. II, cap. I, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 341b].

È questa, alla fine, la conclusione. Dal punto di vista della storia, Ugo de Morville ha ragione e Abramo ha torto; dal punto di vista etico, ragione e torto si rovesciano.

La falsità della proposizione del Secondo Cavaliere risulta evidente se si considera attentamente la sua argomentazione: essa poggia interamente su ciò che avverrà nel futuro, poiché è in futuro e dal futuro che egli riceve l’assoluzione. Ciò accadrà dunque quando egli sarà già morto.

Questo modo di argomentare dimentica la cosa più evidente: che una volta Ugo de Morville è stato vivo. Ma questo deve essere dimenticato, altrimenti l’intera l’argomentazione crolla, poiché la considerazione storica – cioè il calcolo dei pro e dei contro fatto in base alla prudente previsione delle conseguenze – comprende tutto partendo dal dopo, da quando l’atto è già stato compiuto: non interessa l’uomo nell’istante della sua decisione esistenziale. Ciò che importa non è l’uomo reale, vivo, ma l’uomo già passato.

Al contrario, nell’uso che Abramo fa della ragione etica, egli è giustificato per il modo con cui pone se stesso ora e qui di fronte a Dio.

L’etica è la verità circa il bene dell’uomo – dell’uomo concreto, in carne ed ossa – perché Dio non è il Dio dei morti ma il Dio dei viventi. La suprema decisione cui è chiamata oggi la libertà dell’uomo è se considerare se stesso solo dal punto di vista del tempo o anche e soprattutto dal punto di vista dell’eternità. L’etica è il respiro dell’eternità nell’uomo.

Il senso di questa riflessione sta, in fondo, nell’aver voluto riproporre ancora una volta la questione decisiva: la domanda sull’uomo.