home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Istituzione matrimoniale e laicità dello Stato
Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia
Roma, 11 maggio 2006


Cercherò in primo luogo di precisare nel modo più chiaro possibile l’oggetto della mia riflessione.

Dico subito che esso è un problema che si pone in un’area geograficamente limitata [l’Occidente europeo e nordamericano] ma culturalmente ancora assai influente nel mondo, anche perché in possesso di forti poteri di produzione del consenso.

La problematica non riguarda l’istituzione matrimoniale da ogni punto di vista, ma riguarda in primo luogo la definizione di essa come tale [prescindendo dalla varietà delle forme storiche] fino ad ora comunemente condivisa: unione legittima fra un uomo ed una donna in ordine alla procreazione-educazione dei figli. La prima domanda è precisamente la seguente: questa definizione è frutto esclusivamente della convenzione sociale e trova solo in essa la sua giustificazione oppure è espressione di un’esigenza naturale scoperta ed interpretata dalla ragione?

La nostra riflessione tuttavia non affronta direttamente ed ancora meno esclusivamente questo problema ma piuttosto il seguente. Supposto che in un data società si metta in discussione la fondazione naturale della definizione suddetta di matrimonio; supposto che esista la formale richiesta di riconoscimento legale di altre forme di convivenza equiparandole all’istituzione matrimoniale fin qui definita: come deve regolarsi lo Stato nei confronti di questa richiesta?

Ultima precisazione in ordine a determinare rigorosamente l’ambito della nostra riflessione. La richiesta di equiparazione civile nelle nostre società occidentali viene abitualmente fondata da un duplice ordine di ragioni strettamente connesse. La prima è il richiamo ai valori di autonomia ed uguaglianza, che sono i due pilastri delle nostre società liberali: ciascuno sceglie in piena libertà la concezione di vita buona secondo cui vivere; ciascuno deve godere degli stessi diritti. La seconda è il tema della laicità [forse sarebbe meglio dire: neutralità] dello Stato, in forza della quale nessuna concezione di vita buona deve essere privilegiata, ma ciascuna deve godere della stessa ospitalità.

Orbene la vita matrimoniale è parte essenziale della concezione di vita buona propria di ogni persona, in connessione colla dimensione sessuale della propria vita. E pertanto: supposto il principio della neutralità dello Stato; supposto i principi di autonomia ed uguaglianza; supposto che la definizione finora data di matrimonio è meramente frutto della convenzione sociale, lo Stato deve ugualmente riconoscere sia la comunità coniugale in senso tradizionale sia altre forme di connivenza a carattere sessuale-affettivo. La domanda a cui cercherò di rispondere è la seguente: questa richiesta è ragionevole?

La costruzione della mia risposta si muove, per così dire, dentro alla logica della "domanda di equiparazione", nel senso che viene costruita verificando la coerenza supposta fra "neutralità/laicità dello Stato" e "equiparazione fra le diverse forme di convivenze". A questo mi limiterò.

La completezza del discorso esigerebbe di compiere la stessa verifica sulla coerenza fra il concetto di autonomia-uguaglianza ed equiparazione.

Soprattutto sarebbe necessario fare il discorso sul rapporto matrimonio e persona umana. Ma … ars longa sed vita brevis.

1. L’IMPOSSIILE SEPARAZIONE

Penso necessario partire dal presupposto basilare di ogni richiesta di equiparazione, e cioè la necessaria separazione fra l’organizzazione politica della società e la concezione di vita buona propria di ogni cittadino.

Farò un’essenziale esposizione di questa teoria e poi mi impegnerò a mostrarne l’inconsistenza teoretica e la sua impraticabilità.

1,1 [Breve esposizione della teoria]. Formulata in maniera ancora molto rozza ma non falsamente, la teoria sostiene che organizzazione politica, pubblica della società e concezioni di vita buona presenti in essa connotano due ambiti che non devono comunicare.

E ciò si realizza da parte dello Stato, colla scelta della neutralità nei confronti delle varie concezioni di vita buona; da parte dei cittadini, colla scelta di confinare nel "privato" le proprie concezioni di vita buona.

Ma procediamo con ordine, vedendo in primo luogo come si arriva a questa risposta, o più precisamente quali sono i suoi presupposti.

Il primo presupposto è che nessuna concezione di vita buona è vera in alternativa alla sua contraria. È impossibile qualificare come vera qualsiasi concezione di vita buona e quindi falsa la sua contraria, dal momento che esse esprimono sempre e semplicemente fini e preferenze soggettivamente motivate, e sempre quindi rivedibili. È per questa ragione che nel contesto di questa teoria non si parla di "bene/vita buona", ma di "concezioni di vita buona", volendo così connotare una necessaria pluralità fino al limite [anche se non sempre né necessariamente] della mera soggettività. Insomma: una verità circa il bene della persona e della società o non esiste [relativismo etico] o non può essere razionalmente affermata e dimostrata [agnosticismo etico].

Corollario del primo presupposto: qualunque scelta [legislativa, amministrativa…] a favore dell’una concezione piuttosto che dell’altra diventa inevitabilmente parzialità ingiusta e violazione dell’autonomia del soggetto.

Il secondo presupposto è che deve essere possibile organizzare la vita associata prescindendo imparzialmente dalle varie concezioni di vita buona; attraverso proposte universalmente condivisibili perché giustificabili senza riferimento a nessuna delle varie concezioni di vita buona; ed attraverso proposte che non sono meramente formali o procedurali. Il concetto di "giustizia" denota precisamente questa modalità di organizzare la vita associata: la vita [associata] giusta è la vita progettata secondo questa modalità. La giustizia quindi "si situa come punto di equilibrio e di imparzialità, tra pretese diverse e contrastanti e quindi anche tra possibili standards di eccellenza" [A. Verza, La neutralità impossibile, cit. pag. 22].

1,2 [Riflessione critica]. Vorrei ora suggerirvi un’essenziale riflessione critica nei confronti di questa risposta.

Dobbiamo renderci subito conto che ci troviamo veramente dentro ad uno dei "nodi" del dramma contemporaneo.

Questo dramma è costituito dall’incapacità di rispondere ad esigenze spirituali che sembrano fra loro contrarie. Da una parte si avverte ogni giorno più l’urgenza di risposte alle grandi domande etiche e bioetiche, e dall’altra si è quanto meno incerti sulla possibilità di fondarle ragionevolmente. Ancora. Da una parte si avverte il bisogno di un "tessuto connettivo spirituale" universalmente valido, e dall’altro si nega l’esistenza di principi universali ed ancor più di assoluti morali vincolanti. È stato detto giustamente che le persone in quanto agenti morali sono in una condizione di "stranieri morali" [H.T. Engelhardt], che rende ogni giorno più difficile proporre risposte condivise e quindi efficaci.

La via di uscita da questa situazione sopra proposta – quella della separazione – è percorribile? La mia risposta è negativa, a causa della sua inconsistenza teoretica e della sua impraticabilità esistenziale.

Inizio dal mostrarvi l’inconsistenza teoretica. È teoreticamente inconsistente una proposta quando è in se stessa contraddittoria, nel senso che non è in grado di accogliere in sé tutta la portata dei suoi assiomi. Più brevemente: la neutralità – imparzialità può essere più affermata che mantenuta.

(a) Essa implica una precisa concezione di vita buona che trova nell’autonomia dell’individuo il suo valore di base. La proposta cioè non è neutrale – imparziale fino al punto da giudicare imparzialmente, da essere neutrale di fronte alla proposta autonoma od eteronoma [la proposta cristiana ed ultimamente quella ebraica non è né di auto-nomia né di etero-nomia].

Il concetto-valore di autonomia è un concetto da usare con molta consapevolezza critica poiché nel momento in cui lo si afferma come "metodo", lo si propone di fatto come "contenuto". Come vedremo la giuridica equiparazione fra matrimonio e convivenza omosessuale è un caso esemplare di questo transitus in aliud genus. Essa viene non raramente giustificata colla teoria che stiamo discutendo. In realtà l’equiparazione è la scelta di una precisa concezione di matrimonio e famiglia.

(b) All’interno di questa proposta è stata elaborata la categoria di tolleranza. Ora il concetto stesso di tolleranza connota un atteggiamento non di neutralità imparziale verso le concezioni di vita buona tollerate. La tolleranza connota un giudizio negativo o comunque non favorevole nei confronti di concezioni, soprattutto se aggressive, in contrasto con i valori della vita giusta intesa come sopra.

Se si vuole parlare-pensare coerentemente di neutralità ed imparzialità della condotta pubblica nei confronti di tutti, bisogna bandire l’idea che esista, e possa/debba esistere un gruppo tollerante di cittadini ed un gruppo tollerato, discriminati in base alle loro concezioni di vita buona. Le seconde in sostanza non sono più trattate imparzialmente.

Come si vede, quindi, la proposta di separare organizzazione politica della società e concezioni di vita buona finisce col contraddirsi.

(c) Perché la separazione di cui stiamo parlando sia pensabile, è necessario che la giustificazione razionale delle norme di giustizia non sia desunta da nessuna concezione particolare di vita buona: neutralità nelle giustificazioni.

Ma una tale posizione è impossibile in quanto qualsiasi tipo di giustificazione, di argomentazione deve far riferimento ad un quadro ideale d’insieme, ad una visione dell’uomo. Solo un "sistema etico" particolare e quindi "parziale" può essere alla base di questa proposta politica, contro i suoi presupposti fondamentali.

L’unica giustificazione quindi è che questo è l’ethos particolare della società in cui viviamo e che deve essere semplicemente sostenuto. Non è quindi una vita giusta universalmente giustificabile, razionalmente giustificabile, ma solo giuspositivamente e storicamente.

(d) Resta, e lascio intenzionalmente inevaso il problema in realtà di base, e cioè la tesi dell’agnosticismo etico e quindi il giudizio dato sulle "concezioni della vita buona" .

Ed ora vorrei mostrare che non solo questa proposta è teoreticamente inconsistente, ma è anche non praticabile. In un duplice senso: di fatto nessuno Stato la pratica "allo stato puro"; non è augurabile che sia praticata.

Riguardo al primo significato di impraticabilità rimando semplicemente all’argomentazione c) di sopra. Ed aggiungo che le carte costituzionali dei paesi occidentali veicolano sempre un preciso quadro di valori e di principi.

Vorrei invece fermarmi più a lungo sul secondo significato. L’idea di fondo, la tesi che sostengo, è la seguente: tra le diverse forme di vita sociale e i diversi stili di vita personale lo Stato deve privilegiare e favorire quelli che creano e custodiscono valori sociali ["capitali sociali": Donati – Zamagni - Belardinelli], a preferenza di quelle forme e stili che non li costituiscono o li usurano.

Questa tesi, come risulta chiaro da quanto ho detto finora, è recisamente contraria alla teoria e alla pratica della neutralità come principio guida di qualsiasi azione che abbia rilievo pubblico. In questo senso dico che non è da augurarsi che la neutralità sia praticata. E "sono proprio i problemi che dobbiamo fronteggiare a seguito della crisi del Welfare State e dell’asse individuo-Stato a spingerci verso il superamento del principio di neutralità e dell’idea che sta alla base, secondo la quale i diritti sarebbero da intendere esclusivamente come diritti individuali" [S. Belardinelli, L’idea di Welfare community, in (a cura di) S. Belardinelli, Welfare community e sussidiarietà, Egea ed., Milano 2005, pag. 18].

Mi limito ad una sola riflessione, ma che reputo fondamentale. La convivenza civile non può sussistere se non è pervasa da uno spirito particolare, da un ethos impastato di fiducia reciproca, di senso del bene comune, di fraternità, di responsabilità. Esso inoltre non può essere costituito che attraverso quel lungo processo di "socializzazione" della persona che ha il suo inizio nella comunità famigliare e si continua anche nelle altre formazioni sociali. La convivenza civile ha bisogno di questi "capitali sociali". Essa quindi deve favorire le forme sociali che li producono.

Bisogna interrogarsi se una totale neutralità dello Stato alla fine non dilapidi il suo [dello Stato ]necessario ordine normativo ed i capitali sociali indispensabili.

In questo senso, il relativismo etico soprattutto, ma anche l’agnosticismo etico non è una base consistente per una giusta convivenza umana. Una vita giusta ha bisogno di radicarsi in una vita buona. Non solo questo è un progetto sociale possibile, ma desiderabile.

2. L’INGIUSTA EQUIPARAZIONE

Tenendo conto di tutta la riflessione precedente, la mia tesi è la seguente.

La vita coniugale intesa nel senso tradizione ha in se stessa e per se sessa una preziosità ed una bontà umana che merita di essere difesa e privilegiata da chi ha responsabilità del bene comune.

Il bene comune è la bontà propria della relazione sociale; è la bontà propria insita nella relazione sociale. Esso è parte costitutiva del bene della persona essendo questa costitutivamente sociale; l’affermazione e la realizzazione di se stesso è sempre, implica necessariamente l’affermazione di ogni altra persona. Il fatto umano originario è che l’uomo è – con l’uomo. Una visione individualistica dell’uomo secondo la quale la relazione all’altro non è originaria e non appartiene alla natura della persona, è falsa. Costruire una civiltà ed una cultura giuridica su questa base; edificare la civitas su questa visione, porta inevitabilmente a negare il bene della persona.

Se riflettiamo sulla società coniugale nel senso tradizionale, vediamo che in essa si realizza in nuce il bene intero insito nella relazione sociale. In questo senso profondo da sempre la sapienza giuridica dei popoli afferma che prima societas in coniugo, ove la primarietà denota non ovviamente una qualità cronologica ma una principalità. Come a dire: ciò che la società umana è come tale, è già al principio presente nella società coniugale.

In questa infatti l’altro è affermato in quanto altro nella uguaglianza dell’essere e della dignità. L’alterità radicale in cui si dualizza la natura umana è costituita da femminilità e mascolinità: la persona umana è uomo e donna. Si ha all’interno dell’identica natura umana la tensione dialettica fra alterità ed identità, che trova la sua soluzione archetipale nella comunità coniugale. Ho detto "archetipale". Cioè: quanto accade nella comunità coniugale è "arché-typos" di ogni vero e buon rapporto sociale ove l’altro è affermato e riconosciuto come tale [nella sua alterità] nell’identità che si costituisce: l’altro come se stesso. Non a caso il secondo capitolo della Genesi narra la nascita del rapporto sociale, l’uscita dalla solitudine originaria, non in un indistinto incontro con l’altro, ma nel porsi della donna di fronte all’uomo.

È nella comunione coniugale che si costituisce il "capitale sociale", che nella comunità omosessuale non viene neppure iniziato.

Ne deriva che nell’edificazione di un sociale umano buono, in altre parole in ordine alla difesa e promozione del bene comune umano, restare neutrali di fronte al fatto che la comunità sessuale-affettiva fra persone umane si configuri eterosessualmente o omosessualmente, significa restare neutrali di fronte al bene comune: a che si edifichi o non una vita associata buona.

Penso di trovare una conferma dell’ingiustizia insita nella suddetta neutralità in una conseguenza che a lungo termine non potrebbe non manifestarsi, dal momento che essa [neutralità] la contiene in germe.

L’equiparazione fra convivenza omosessuale e comunità coniugale è pensabile solo partendo dall’affermazione che non esiste una modalità nel realizzare la propria sessualità-affettività che possa essere socialmente non riconosciuta, purché sia rispettata l’autonomia dei partners e la loro libertà. Esclusi quindi pedofilia e stupro, la neutralità di cui stiamo parlando eliminerebbe nell’ethos e nella ragione pubblica quei principi in base ai quali la nostra cultura giuridica ha rifiutato la poligamia ed il poliamore, ovvero la molteplicità simultanea di relazioni sessuali stabili.

A questo punto si può inserire la riflessione sulla forma di convivenza eterosessuale senza vincolo coniugale vero e proprio: le unioni di fatto. Ciò che la differenzia dalla comunità coniugale è il rifiuto precisamente del reciproco vincolarsi, cioè del reciproco consegnarsi. È in sostanza una convenzione fra due individui che vogliono rimanere tali, cercando di avere da questa convivenza vantaggi e benessere affettivi o altri [non necessariamente illegali]. Il "bene sociale" insito in questa convivenza è quindi essenzialmente diverso da quello insito nella comunità coniugale in senso tradizionale. E la conseguenza della progressiva legittimazione della molteplicità simultanea di relazioni sessuali non è da escludere dalla equiparazione fra convivenza di fatto e comunità coniugale.

Ma in ordine alla costituzione del "capitale sociale" è necessario prendere anche in considerazione il grande tema della generazione della persona.

Partiamo da un riflessione semplice. Ciò che qualifica in modo proprio e specifico la genitorialità umana non è semplicemente la generazione biologica, ma la generazione nel figlio dell’umano. La generazione nel figlio dell’umano si chiama educazione. La genealogia della persona è – né poteva essere diversamente – un evento biologico-spirituale.

Penso che non sia difficile capire che in ordine al bene umano comune il fatto educativo sia di importanza decisiva. Chi dunque ha responsabilità primaria del bene comune può rimanere neutrale a che la persona sia generata [nel senso profondo sopra indicato] all’interno di una comunità coniugale o di una convivenza di fatto? A che la persona sia generata all’interno di una comunità coniugale oppure possa essere affidata ad una coppia omosessuale riconosciuta come coppia genitoriale?

È un motivo fondamentale ed una ragione fra le più convincenti che la comunità coniugale debba essere protetta e non equiparata in nessun modo a nessun’altra convivenza sessuale-affettiva, la sua singolare idoneità ad assicurare ai figli la necessaria educazione perché possano crescere umanamente bene.

Se questo è vero come i fatti dimostrano, l’equiparazione che rifiutiamo, è da ritenersi ingiusta anche perché non rispetterebbe l’uguaglianza di ogni persona umana. Equiparare in ordine alla genitorialità significa essere neutrali a che non siano assicurate le stesse condizioni educative alla persona che ha diritto di essere educata. È di fatto impedita l’uguaglianza a livello di un diritto fondamentale dell’uomo.

Termino con una riflessione di carattere più generale. Anche se non raramente negata nella teoria giuridica, la rilevanza educativa della legge civile è un fatto. Essa contribuisce non raramente e non superficialmente a formare l’ethos pubblico e i convincimenti della ragione pubblica. Ciò è particolarmente vero per l’istituzione matrimoniale.

La legge può configurare la comunità coniugale come una forma di comunione sessuale-affettiva cui i singoli sono liberi di accedere, ma la cui definizione non è a disposizione di chi di sposa: non può essere formulata e riformulata a piacimento. Oppure la legge può decidere, attraverso l’equiparazione di cui parlavo, che il matrimonio ricevuto dalla tradizione è frutto di mera convenzione sociale e che pertanto il matrimonio può essere pensato e realizzato nei modi corrispondenti ai desideri, interessi e scopi propri di ogni individuo.

Il risultato della seconda scelta giuridica non sarà a lungo termine che nell’ethos e nella ragione pubblica matrimonio ed altre forme di convivenze avranno la stessa stima e riconoscimento? Il risultato sarà che l’equiparazione di fatto sosterrà quelle visioni dell’uomo che non sono ospitali vero la monogamia, e che alla fine potrebbe minare l’istituzione matrimoniale alla base.

Il prof. Joseph Raz ha scritto: "la monogamia, ammesso che rappresenti l’unica valida forma di matrimonio, non è alla portata dell’individuo. Per poterla vivere, essa richiede una cultura che la riconosce e che la sostenga attraverso l’atteggiamento del settore pubblico e delle istituzioni".

Ovviamente Raz non intendeva dire che la persona in qualsiasi ordinamento giuridico non possa essere capace di comprendere e di scegliere il matrimonio. Egli pensa - e consento con lui - che il matrimonio è un istituto "fragile" se non è sostenuto dalle leggi e dalle istituzioni. L’orientamento della ragione pubblica è decisivo per difendere il matrimonio. La mia tesi è che l’equiparazione costituisce una rinuncia a questa difesa, e quindi una abdicazione alla promozione del bene umano comune.

Conclusione

Il problema che abbiamo affrontato ha radici profonde. Esso in ultima analisi nasce dalla negazione che esista una verità circa il bene della persona, che non sia creata dal consenso sociale. Questa dimensione del problema non va mai dimenticata, poiché è quella decisiva.

Ma il nostro problema rimanda anche ad un altro aspetto della condizione spirituale contemporanea. È il fatto che un’intera generazione di adulti è come diventata incapace di educare le nuove generazioni. Fatto – se non vado errato – che non era mai accaduto.

L’educazione infatti è l’introduzione dell’uomo dentro alla realtà, e la relazione con l’altro così come la dimensione sessuale della persona è parte costitutiva della realtà umana. Ciò che voglio dire è che se si è ridotta l’istituzione matrimoniale ad una convenzione sociale, a qualcosa che è a totale disposizione delle scelte dell’individuo, ciò significa che è accaduta una profonda "estraneazione" dell’uomo da se stesso. Ora, l’uomo possiede un solo strumento per introdursi nella realtà, la sua ragione. "Perciò, paradossalmente, il primo problema che noi avvertiamo verso la cultura moderna è che ci sentiamo come mendicanti dell’idea di ragione, perché è come se nessuno avesse più il concetto di ragione" [don L. Giussani]. Senza l’ipotesi di una verità circa il bene dell’uomo, senza l’ipotesi dell’esistenza di un senso insito nella realtà, noi non ci introduciamo in essa. E la riteniamo mera "materia" a nostra disposizione.

Esiste dunque un problema filosofico, un problema educativo, ma anche e non dammeno un problema politico che emerge da tutta la riflessione precedente. Ciò emerge chiaramente se si riferiamo alle politiche sociali per la famiglia.

Non raramente sono pensate come politiche di sostegno ai singoli individui che compongono il nucleo familiare. Ma assistiamo alla progressiva consapevolezza della necessità di porre al centro non il singolo, ma la relazione sociale famigliare in cui vive. La "battaglia" per l’equiparazione appare veramente di retroguardia, da questo punto di vista.