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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Prolegomeni ad una riflessione sull'anima
Brescia, 5 marzo 2011


In quale condizione si trovi oggi il discorso sull’anima è detto molto bene da R. Spaemann quando scrive: "Parlare di persone è abituale. È caduto in discredito invece parlare di anime. Il materialismo… tenta di sopprimere l’anima, senza sostituirla, e di mostrare come le condizioni e le attività attribuite ad essa siano fisiologiche. A sua volta, la teologia cristiana rinuncia più o meno a prendere le difese dell’anima" [Persone, Laterza, Bari-Roma 2005 (orig. 1998), 142].

Possiamo rassegnarci a questa liquidazione del problema dell’anima? La mia riflessione non affronterà dunque direttamente la domanda, ma essa cercherà di mostrare di che cosa si parla quando parliamo di anima, e quale è la "posta in gioco" in tutta questa problematica.

1. Parto da una pagina dei Fratelli Karamazov, assai illuminante per il nostro tema.

"- Ma Ivan, esiste allora l’immortalità? qualcosa di piccolo, di piccolissimo?
No, non esiste nemmeno una piccola immortalità.
Per niente?
Per niente.
Vale a dire lo zero assoluto o c’è qualcosa d’altro? Forse esiste qualcosa di diverso? sarebbe pure qualcosa!
Lo zero assoluto.
Alèska, esiste l’immortalità?
Esiste.
Dio e l’immortalità?
Sia Dio sia l’immortalità"

Il vecchio padre ha posto il problema dell’anima dal punto di vista esistenziale più profondo. La domanda: esiste l’anima? coincide esistenzialmente colla domanda: noi, io e voi, dopo la morte vivremo una vita cosciente ed eterna nella insostituibile incomunicabilità di ciascuno e nella reale comunione con gli altri? oppure la nostra sorte finale, di me e di voi, è il nulla eterno?

Si noti bene che immortalità su cui ci si interroga quando ci si interroga sull’anima, significa non il permanere di una vita cosciente neutrale, ma di una vita cosciente positiva, beata cioè. La domanda dunque circa l’anima significa: posso essere eternamente felice? o la partita della felicità finisce per sempre con la morte? Agostino dice giustamente che questa è la domanda più importante di tutte, sapere se siamo immortali [cfr. Soliloqui II, 1].

Esiste cioè una coappartenenza concettuale fra l’idea di anima e l’idea di immortalità. È questo anche l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Il timore più profondo dell’uomo di fronte alla morte, dice il Concilio, è in realtà il timore della "perpetua extinctio" di se stesso, della "totalis ruina et definitivus exitus suae personae". Ma nello stesso tempo, l’uomo istintivamente rifugge da questa prospettiva, e con verità. L’irriducibilità della persona alla sola materia è precisamente quel germe di immortalità che l’uomo ha in sé [cfr. Cost. Past. Gaudium et spes, 18, 1; EV 1/1371].

L’affermazione della irriducibilità della persona umana alla sola materia coincide con l’affermazione dell’esistenza dell’anima. Ora – come scrive Tommaso – l’eternità appartiene allo spirito come la rotondità al cerchio.

Concludo dunque questo avvio alla mia riflessione, dicendo, in sintesi, che il discorso sull’anima è il discorso sul destino finale dell’uomo. Discorrendo dell’anima non discorriamo di "qualcosa". Discorriamo di "qualcuno": io, ciascuno di voi.

2. Prima di procedere nella mia riflessione, devo ora fermarmi a considerare un’altra implicazione del problema dell’anima. Potrei, per chiarezza, enunciarla nel modo seguente: se non esiste l’anima [= riducibilità alla materia di tutto l’uomo], l’urphenomenon dell’io cosciente diventa inspiegabile. È questa una riflessione molto suggestiva, anche se difficile.

Ciascuno di noi vive quotidianamente l’esperienza del proprio amore, del proprio pensiero, delle proprie decisioni. Più precisamente [e questo è d’importanza decisiva], viviamo quotidianamente l’esperienza che "io amo", "io penso", "io decido". Non sperimentiamo solo la sequela di varie operazioni isolate le une dalle altre, prive di un soggetto che le compie: abbiamo l’esperienza del soggetto che le compie, le mette in atto. Chi nega questo chiude gli occhi ai più elementari dati del nostro vissuto.

Si faccia bene attenzione. Non si tratta di un "passaggio logico" dall’operazione che si sta compiendo all’io che la compie, come si passa da un effetto alla causa. Il soggetto [che ama, che pensa, che decide] ci è dato immediatamente. Non solo. "Dobbiamo aggiungere che il nostro stesso essere ci è accessibile in un modo interamente interiore, perché lo viviamo coscientemente dall’interno. Non vi è nessuna datità di un essere che sia più immediata ed interiore di questa auto-consapevolezza della persona" [J. Seifert, Essere e persona. Vita e Pensiero, Milano 1989, 157]. Agostino ha scritto pagine mirabili su questo tema. Riporto solo un testo.

"Non c’è nulla che lo spirito conosca altrettanto bene come ciò che gli è presente e nulla è più presente allo spirito che lo spirito a se stesso.
…………
Tuttavia così grande è la forza del pensiero che lo spirito stesso, in qualche modo, non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stesso
…………
è un qualcosa che appartiene alla natura dello spirito il vedere se stesso e, quando pensa se stesso, il ritornare su di sé non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale"
[De Trinitate XIV, 5, 7; 6, 8 – NBA IV ,573. 577].

L’occhio vede sempre un oggetto, ma l’occhio non vede se stesso. Il soggetto invece è dato a se stesso, in un modo assolutamente interiore, e viene sperimentato come fondamento unico e permanente di una miriade di azioni.

"L’uomo non solo agisce coscientemente, ma è anche consapevole della sua azione nonché del fatto che è lui che agisce; è quindi consapevole dell’atto e della persona nella loro correlazione dinamica" [K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Milano 1999, 97].

Dunque una prima conclusione. La persona sperimenta se stessa immediatamente ed interiormente come soggetto che esiste in sé e per sé, cioè non inerente e come appoggiato su qualcosa di altro, una sorta di escrescenza di qualcosa d’altro.

Quando noi diciamo "persona" denotiamo precisamente questa realtà, questo soggetto di cui abbiamo esperienza immediata non come un "oggetto che mi sta di fronte", ma dall’interno.

Ora chiediamoci: è possibile che la persona si esperimenti immediatamente e dall’interno e al tempo stesso che essa sia totalmente riducibile alla materia [ai processi cerebrali ovvero al cervello]? La risposta è negativa: la materia non si dà a conoscere in questo modo. "L’oggetto materiale sta sempre davanti al tuo intelletto riflettente come un oggetto e non può mai esserti dato dall’intimo come avviene con te stesso" [J. Seifert, op. cit., 330]. Accade questo perfino col proprio corpo – cioè che ti sia dato come un oggetto - in un qualche modo.

Da questa riflessione possiamo ora avere una comprensione più profonda della "posta in gioco" quando si discute dell’anima.

La discussione sull’anima è la discussione sull’originalità propria dell’humanum, originalità che il pensiero cristiano ha denotato col nome di persona. Quando nell’universo compare l’uomo, compare qualcosa di unico, non totalmente riducibile a ciò che lo ha preceduto. Mantenere teoricamente l’originalità propria dell’humanum e negare che il "nocciolo" della persona sia una sostanza spirituale, è impossibile. Simul stant, simul cadunt, originalità dell’humanum ed esistenza dell’anima.

Con ciò non si vuole dire che l’anima come soggetto spirituale della persona non sia intimamente legata al corpo, e che le attività spirituali non siano condizionate dalla nostra attività cerebrale. Al contrario. La corporeità umana diventa propriamente comprensibile solo in forza della sua unione con una soggettività spirituale. Uno dei momenti più rivelativi di questo è la capacità della genitalità umana di essere segno efficace di un atto eminentemente spirituale come l’amore coniugale.

Da questo deduciamo, en passant, un corollario assai importante. La negazione della soggettività semplice e spirituale della persona mette in atto una progressiva reificazione, oggettivazione del composto umano. Non posso su questo fermarmi ulteriormente.

Non solo l’originalità assoluta dell’humanum è incompatibile colla totale riducibilità del medesimo alla materia. È il fatto che ogni persona umana è un individuo nel senso di qualcosa di originariamente realmente irripetibile. "La persona è un essere potenzialmente universale, ma immancabilmente distinto, irripetibile, insostituibile … La persona è l’eccezione, non la norma. Il mistero dell’esistenza della persona è nella sua assoluta insostituibilità, indivisibilità e unicità, è nella sua incomparabilità" [N. Berdiaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, Milano 2010, 101]. Di questa irripetibilità, insostituibilità abbiamo non solo una conoscenza metafisicamente fondata, ma ne abbiamo soprattutto un’esperienza vissuta nell’amore, e nel dolore che proviamo per la morte della persona amata.

Potremmo continuare la nostra riflessione sulla relazione fra l’esistenza della persona come soggetto spirituale e quello che ho chiamato l’urphenomenon dell’io cosciente. Mi fermo. Siamo peraltro giunti al guadagno più importante: il concetto di persona come sostanza-soggetto spirituale, irripetibile ed insostituibile. In sintesi: il concetto di persona e di anima stanno o cadono assieme.

3. In questo punto della mia riflessione vorrei mostrare come da una parte la libertà è il "luogo" dove l’io che è la persona si dà a vedere immediatamente; e dall’altra come non è pensabile la libertà se non radicata nella soggettività spirituale.

Partiamo da alcune esperienze elementari e quotidiane. La prima. Ciascuno di noi ha dei desideri che potremmo chiamare di base, sia riguardanti la sua costituzione biologica [la fame, la sete …] sia riguardanti la sua natura spirituale [desiderio di conoscere, di amare …]. È un dato che abbiamo in comune con ogni vivente, essere dotati di inclinazioni. Ma, la persona può volere o non volere di attuarle. Posso volere piuttosto l’ignoranza che la conoscenza, perché non voglio sobbarcarmi la fatica dello studio, per esempio.

Tutta questa esperienza ci fa conoscere, ci mostra che non solo – come abbiamo visto – il modo con cui la natura, le cose che si danno a conoscere è essenzialmente diverso dal modo con cui l’io è presente a se stesso. Ci mostra che è anche possibile stabilire una distanza interna alla persona fra l’essere-se stesso e l’essere-tale [cioè dotato di natura umana]. Il "se stesso" non è semplicemente la sua natura, ma possiede la sua natura; la possiede in modo che ne può disporre.

La seconda e più profonda esperienza, che S. Tommaso ama spesso richiamare. Non basta avere orecchi per udire, bisogna voler ascoltare. Si dice infatti che non c’è nessun sordo peggiore di chi non vuole sentire. Dunque: odo perché voglio udire. Capire un teorema di matematica è un atto dell’intelligenza, ma esige attenzione, applicazione. Dunque: capisco perché voglio capire. E così via. In una parola: ogni facoltà è messa in moto dalla volontà. E la volontà da chi è mossa? odo perché voglio udire; capisco perché voglio capire; voglio perché … voglio. Cioè: la volontà muove se stessa, e non è mossa da niente e da nessuno. Il che non esclude che abbia delle ragioni per mettere in moto se stessa; ma di questo ora non parlo.

Le due esperienze sommariamente descritte ci conducono ad una sola conclusione. Esiste un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di un auto-possesso che esclude la dipendenza causale del suo determinarsi dalle leggi e dai fatti del mondo materiale. Un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di un auto-governo che contraddice il fatto che esso [il nocciolo della persona] sia necessariamente regolamentato da processi cerebrali. Un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di una capacità di auto-determinazione - risposta "si" o "no" alle ragioni per cui agire - che esclude un rapporto causale dei meccanismi e funzioni cerebrali.

Auto-possesso, auto-governo, auto-determinazione: sono le tre dimensioni costitutive di ciò che chiamiamo libertà. L’io che è la persona, nel suo nocciolo sostanziale, non è costituito dal suo cervello e dalle funzioni cerebrali. È un "qualcosa" che è altro [aliud] dalla materia [cfr. già Platone, Fedone, 98 C - 99 B: Platone distingue ormai chiaramente la vera causa ed il mezzo senza il quale la vera causa non potrebbe essere mai causa]. Le sostanze puramente materiali non si possiedono, non possiedono le loro azioni che sono causate da cause ad esse esterne. "La libertà come capacità di essere origine non ulteriormente indagabile di atti che prendono principio spontaneamente dallo stesso nocciolo personale, ci è conoscibile con immediata evidenza" [J. Seifert, op. cit., pag. 349]. L’esercizio, gli atti della libertà sono inderivabili, cioè la libertà "produce" qualcosa di originario, è qualcosa di originario.

Alla fine dunque delle due l’una. O si nega l’esistenza di un "nocciolo spirituale" della persona – dell’anima – ed allora non ha senso parlare della libertà della persona. O si accetta l’immediata evidenza della libertà ed allora non si può negare l’esistenza dell’anima. In breve: non c’è libertà senza l’io; non c’è io senza libertà. Questa è la posta in gioco quando discutiamo dell’anima.

Ora vorrei fare alcune considerazioni per far capire ancora più profondamente questa "posta in gioco".

La prima. La libertà è la possibilità dell’amore. Se l’io non è capace di auto-possedersi, come può auto-donarsi? Non si dona ciò che non si possiede. Se l’io non è capace di auto-governarsi, ma è etero-governato, come può auto-determinarsi al dono di sé? Non per caso D. Hume, che negò l’esistenza dell’anima, scrisse che noi non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi.

Forse non c’è espressione, rivelazione più splendida dell’io dell’amore, perché l’amore è semplicemente impossibile senza l’io che ama e la realtà dell’io amato. La più perfetta realizzazione, attuazione del proprio io è l’auto-donazione propria dell’amore.

Quando noi discutiamo dell’anima, la posta in gioco dunque è la possibilità dell’amore.

La seconda. Poniamoci davanti a due modi di realizzare la propria vita: quello di p. Kolbe che dà la vita e quello di Hitler che ha progettato la distruzione del popolo ebreo. Nessuno si sente di dire che e l’una e l’altra esistenza hanno in sé lo stesso valore, che non sono assiologicamente diverse: è un evidenza immediata.

Ma se si nega la libertà di p. Kolbe e la libertà di Hitler – la libertà della vittima e la libertà dell’assassino – quell’evidenza originaria è negata, semplicemente perché non ha senso parlare di diversità assiologica. La progettazione della vita dell’uno e dell’altro sarebbe il risultato di forze impersonali. O l’uomo è ciò che è mediante la sua libertà, o il parlare di divaricazioni assiologiche è privo di senso. Ci troveremo di fronte ad un vero e proprio "collasso ontologico", essendo l’intera realtà neutralizzata nei confronti di ogni distinzione di valore.

Quando si discute dell’anima la posta in gioco della discussione è, per così dire, la stoffa di cui è intessuta la realtà. Il resto sono chiacchiere.

La terza. Se il "nocciolo spirituale" della persona è inderivabile dall’universo creato dove pure affonda le sue radici; se – come l’esperienza ci attesta – abbiamo avuto un’origine, dobbiamo concludere che, se si ammette l’esistenza di Dio, ogni persona umana giunge all’esistenza perché immediatamente creata da Dio stesso. "L’anima spirituale, l’autentico soggetto della mia esistenza, viene suscitata direttamente dalla chiamata di Dio. Ogni concepimento ha un fondamento metafisico: Dio crea ogni volta l’anima rivolgendovisi in modo personale … in tal modo io rimango in rapporto immediato con Dio" [R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 512]. E quindi, data la mia origine, ultimamente io sono responsabile di me stesso solamente davanti a Dio.

Ne consegue che nessuno di noi viene all’essere per caso o per necessità: ogni uomo che viene concepito è portatore di un progetto. Non è la ripetizione di uno "stampo biologico".

Quando si discute sull’anima, la posta in gioco della discussione è la sostituibilità/insostituibilità della novità del concepito colla causalità e casualità biologica dell’origine.

Concludo. Ci sono due libri che pure scritti a tre secoli di distanza per contrarium si richiamano a vicenda anche nel titolo: il Castello interiore di S. Teresa d’Avila e Il Castello di F. Kafka [Trovo questo confronto in A.M. Sicari, Nel Castello interiore di S. Teresa d’Avila, Jaca Book, Milano 2006].

È suggestivo confrontare i due incipit. "Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre lo nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il Castello". E Teresa: "possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un solo diamante o di un tersissimo cristallo … Io non vedo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima".

Ambedue, dopo questo incipit, descrivono l’itinerario della persona verso se stessa dove si ha l’incontro con Dio medesimo: Teresa sa indicare questo cammino; Kafka vive la condizione di chi sta fuori e non trova più la via per entrare, perché trova solo burocrati o sofisti che lo distolgono dall’impresa convincendolo che forse persino è un itinerario privo di senso.

La questione antropologica e la questione dell’anima coincidono: Teresa e Kafka ne presentano le due soluzioni alternative.