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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


NOVO MILLENNIO INEUNTE: COME?
Riflessione alla "Tre giorni" sacerdoti 2001

E’ continuo il richiamo del S. Padre durante queste settimane a non disperdere la grazia del Giubileo, a considerare "quanto è avvenuto sotto i nostri occhi", poiché "chiede di essere riconsiderato e, in un certo senso, decifrato, per ascoltare ciò che lo Spirito, lungo quest’anno così intenso, ha detto alla Chiesa". [NMI 2,2]. E’ questo il compito pastorale oggi primario. A questo compito hanno voluto dare un aiuto le riflessioni di questi giorni, che intendevano introdurci ad una comprensione più profonda del mondo odierno. Vogliono dare un primo contributo anche le mie seguenti riflessioni. Un "primo", ho detto: sarà necessario riprendere la fatica di quella "decifrazione" di cui parla il Papa, lungo le direttive da Lui donateci nella Lett. Ap. Novo Millennio Ineunte e le direttive che ora intendo offrire alla vostra riflessione.

1. Le due principali direttrici

Mi sono profondamente ritrovato, alla luce dell’impostazione che avevo inteso dare al Giubileo nella Lett. Past. Niente sia anteposto a Cristo, in quanto il S. Padre ha detto nel discorso di ringraziamento a quanti avevano lavorato per le celebrazioni giubilari.

"Il 6 gennaio scorso ci è stata consegnata una preziosa eredità, che va trasmessa alle generazioni future, secondo due principali direttrici. Anzitutto, continuando a tenere Cristo al centro della vita personale e sociale. Se avremo vissuto veramente il Giubileo lo di vedrà dai frutti di santità che porteremo nella vita ordinaria.

In secondo luogo, occorre recare ovunque la testimonianza della carità che si fa perdono, servizio, disponibilità, condivisione. Parafrasando il Vangelo, potremmo dire: "da questo riconosceranno che avete fatto il Giubileo da come sapete amarvi gli uni gli altri" [in O.R. 12-01-2001].

In sintesi: la con-centrazione della nostra persona in Cristo, dalla quale viene generata una comunione umana nuova [cfr. Lett. Past. N° 12, n°15].

Penso che sia utile prima di approfondire il senso di quelle due principali direttrici, fermarci un momento a riconsiderare quanto è accaduto in mezzo a noi durante l’anno giubilare.

Ciò che di più grande è accaduto, quanto cioè è accaduto nel cuore delle persone in termini di conversione, certamente è mistero inverificabile: tanti di voi ne sono stati testimoni nel sacramento della Riconciliazione. Questa constatazione, ovvia per il credente, non ci esime però da una riflessione seria tesa ad individuare alcune linee emergenti dall’esperienza giubilare vissuta dalla nostra Chiesa. Linee emergenti che mi sembrano le seguenti.

La prima è stata la gioia di una ritrovata appartenenza ad una Chiesa, ad un popolo. Di questa gioia ho avuto testimonianze dirette, sia orali, sia scritte, e che [il particolare non è insignificante] si riferivano soprattutto all’esperienza del pellegrinaggio a Lourdes, della celebrazione della S. Cresima in Cattedrale, della celebrazione del Corpus Domini, della celebrazione mariana del 15 ottobre, e del pellegrinaggio ad Assisi-Roma-Loreto. Ho parlato di "gioia di un’appartenenza". Queste parole suggeriscono la più grande tragedia dell’uomo contemporaneo: quella terribile menzogna in cui l’uomo ha creduto, secondo la quale solo quando egli afferma come unica autorità se stesso o ciò che è creato da lui [la legge e lo Stato], può realizzarsi. E’ l’uomo sradicato dall’appartenenza [ed obbedienza conseguente] ad una Realtà più grande di lui. Poiché questo sradicamento è un vero e proprio tradimento dei suoi desideri più profondi, ogni volta che è concesso ad un uomo, ad un popolo di soddisfarvi, quell’uomo e quel popolo vive un attimo di gioia nella verità: il "gaudium de veritate" di cui parla Agostino.

La seconda linea emergente dalla nostra esperienza giubilare è stata il tentativo fatto dalla nostra Chiesa, di fare sempre più propria la "logica dell’Incarnazione", anzi "il movimento stesso dell’Incarnazione" [cfr. NMI 3,2]; il tentativo di radicarsi sempre più intensamente ed estensivamente dentro alla vita della nostra gente. "Ciò che non è assunto non è salvato", amavano ripetere i Padri della Chiesa riferendosi al mistero dell’incarnazione del Verbo. Con questo assioma fondamentale della logica cristiana essi esprimevano due certezze di fede: fuori di Cristo non c’è salvezza; nulla di ciò che è umano è estraneo a Cristo. Ho insistito molto su questa prospettiva che è inscindibilmente cristologica-soteriologica-ecclesiologica, come voi sapete, sia nella mia Lettera pastorale sia nella predicazione durante l’Anno santo. E’ stata essa che ha generato la modalità propria della nostra celebrazione giubilare: incontrare l’uomo di ogni età [bambini, ragazzi, giovani, anziani], ed incontrarlo nelle fondamentali esperienze che tessono la trama della sua vita [matrimonio-famiglia, lavoro, malattia, divertimento]. Il convegno missionario è stato da questo punto di vista un momento fondamentale nel nostro Anno santo.

La terza linea emergente dalla nostra esperienza giubilare è stata, anche se meno evidenziata, la consapevolezza di essere radicati dentro una storia ricca di santità, di fede che ha amato – secondo il genio proprio del nostro popolo – esprimersi nella bellezza dell’arte, e soprattutto che ora deve ringraziare il Signore per il dono di essere rappresentati nella "candida schiera dei martiri" da S. Chiara Maria Nanetti. Ho detto che è una linea che non emerge con la stesa evidenza delle altre, in quanto è stata la modalità propria colla quale abbiamo cercato di realizzare quella purificazione della memoria che il S. Padre aveva posto come uno degli obiettivi del Giubileo. Un avvenimento che per sua natura stessa non può emergere in esteriorità. La nostra Guida del pellegrino così universalmente apprezzata esprimeva bene questa logica, conducendo il pellegrino dentro una "geografia della memoria" della nostra Chiesa. Ho parlato di purificazione della memoria. Vorrei fare al riguardo ancora un’osservazione. Abbiamo iniziato la Grande Missione diocesana celebrando una volta la Ss. Eucarestia per ottenere il perdono dei peccati commessi dai fedeli della nostra Chiesa, ieri e oggi. La purificazione della memoria abbiamo cercato di viverla ravvivando i doni di Dio fattici [cfr. il terzo momento del nostro giubileo sacerdotale].

La quarta linea emergente dalla nostra esperienza giubilare è costituita dalla forza con cui ci è stata riproposta la domanda educativa da parte dei bambini, ragazzi e giovani. Il fatto che l’incontro dei bambini organizzato dalla FISM, dei ragazzi ed i due momenti fondamentali dei giovani, la "statio Crucis" e la GMG, siano stati di una forza ed intensità anche visiva davvero inaspettate, è stato un messaggio, un grande messaggio che chiederà di essere attentamente decifrato ed intercettato. Per ora ed in questa sede mi limito a due constatazioni. La prima: questi avvenimenti stanno ad indicare quanto attento, continuo e prezioso sia stato il lavoro svolto nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti. La seconda: questi avvenimenti ci hanno ancora una volta detto che niente e nessuno può spegnere nel cuore umano quel desiderio, quella invocazione di felicità vera, che nei bambini, ragazzi e giovani si traduce in domanda di essere educati. Non è stato per caso che abbiamo iniziato col giubileo degli educatori; che nei cinque messaggi finali dato il 5 gennaio l’uno riguardava i giovani e l’altro gli educatori.

E’ possibile ricondurre queste quattro linee emergenti dalla nostra esperienza giubilare ad un centro in cui si incontrino tutte e quante? Esiste un centro che definisca la nostra esperienza giubilare? non esito un momento a rispondere a questa domanda nel modo seguente: l’INCONTRO CON CRISTO VIVENTE NELLA CHIESA. E’ la categoria dell’incontro la chiave di volta della nostra esperienza giubilare: incontro dell’uomo, di ogni uomo e di tutto l’uomo, con la persona di Cristo crocefisso risorto. Un incontro celebrato nella gioia di appartenere al "corpo" in cui solamente esso è possibile; un incontro in cui si manifesta la verità intera e quindi il senso ultimo di ogni esperienza umana; un incontro che richiede alla misericordia divina il perdono dell’uomo; un incontro invocato da chi entra nella vita e nell’universo dell’essere, come unica ipotesi ragionevole interpretativa della realtà. Un incontro celebrato, cercato, immeritato, invocato.

2. Fissando il volto di Gesù e dell’uomo

La prima e fondamentale direttrice secondo la quale la grande esperienza giubilare deve essere custodita e sviluppata è proprio quella di rimanere dentro l’incontro con Cristo. E’ la dimensione giovannea dell’esperienza cristiana che dovremo sempre più assimilare: dimorare nel Cristo vivente nella sua Chiesa. Solo se questa dimensione impasterà la nostra esistenza, l’altra essenziale dimensione della vita cristiana, quella paolina, potrà essere presente nel modo dovuto. Mi sia consentito di dire qualcosa su questo "rimanere-dimorare nel Cristo".

L’archetipo [il princeps analogatum] di questo rapporto con Cristo è la stessa comunione che esiste fra il Padre ed il Figlio unigenito: è dentro a questa relazione interpersonale che noi siamo introdotti rimanendo in Cristo. Più precisamente, nella relazione dell’Unigenito verso il Padre.

L’incontro con Cristo, meglio la nostra dimora dentro all’incontro con Cristo istituisce un rapporto fra il discepolo e Gesù più reale di quello vissuto dai discepoli in Palestina durante la vita terrena di Gesù medesimo. "E’ un incontro di persone come tali, un incontro che ha superato ogni ostacolo, ogni opacità, un incontro che non conosce più assenza, perché è interamente presenza. Questo incontro impegna tutta l’esistenza dei discepoli. Così la parola e l’amore di Gesù diventano essi il "luogo" dove si svolge la loro vita. Più ancora, è il "cuore" stesso di Gesù che diventa la loro dimora, la loro patria" [P.- M. Jesumanis, Realiser la comunion avec Dieu, ed. Gabalda, Paris 1996, pag. 526].

Questa reciproca dimora di Gesù nel discepolo e del discepolo in Gesù non avviene … per esclusione degli altri, ciascuno per suo conto. L’unione con Gesù realizza allo stesso tempo l’unione dei discepoli fra loro: fra le due non c’è soluzione di continuità.

In che modo potremo dare una dimensione sempre più giovannea alla nostra Chiesa, alla nostra esperienza di fede? E’ una domanda alla quale dovremo ritornare nei mesi seguenti. Per ora mi limito al punto centrale. E il punto centrale è il mistero eucaristico: creduto, celebrato, venerato. Dare una "dimensione giovannea" alla nostra Chiesa significa dare una dimensione più intensamente e più chiaramente eucaristica alla stessa.

Sono sempre più numerose le voci autorevoli che si interrogano sui modi con cui stiamo celebrando i divini Misteri nella Chiesa latina: interrogativi che non possono essere evasi colla semplice qualifica di interrogativi lefebvriani. Dobbiamo interrogarci seriamente se le nostre celebrazioni eucaristiche sono la celebrazione del mistero del sacrificio di Cristo, se donano veramente ai fedeli il senso di un Mistero che viene a dimorare dentro alla nostra vita quotidiana per renderla più vera e più umana oppure se non si avverte più alla fine nessuna soluzione di continuità fra il nostro quotidiano vivere ed il nostro celebrare il Mistero non nel senso che il primo è attratto dentro al secondo, ma al contrario il secondo nel primo. Vi chiedo di fare una seria riflessione al riguardo nelle vostre comunità.

Certamente deve esserci una "actuosa partecipatio" da parte di tutti al mistero eucaristico, ministro e fedeli; tuttavia sarebbe errato tradurre "actuosa" con "attiva", nel senso che comunque tutti devono fare qualcosa. "Actuosa" significa "vivente". Ho l’intenzione di affidare alla Commissione liturgica diocesana una presa d’atto molto attenta al riguardo, secondo criteri che elaborerò con il Consiglio Presbiterale.

Ma la radice di una degna celebrazione del mistero eucaristico è che la iniziazione eucaristica sia teologicamente corretta, spiritualmente edificante e umanamente affascinante. Sto parlando della preparazione dei bambini al mistero eucaristico, in particolare alla prima comunione. L’Ufficio Catechistico Diocesano è già da mesi al lavoro per preparare un sussidio catechetico che debitamente rivisto degli organismi diocesani competenti, dovrà essere poi accuratamente seguito nelle nostre comunità.

Si dovrà anche rivedere accuratamente la disciplina delle binazioni e trinazioni festive. Il rischio è che ci abituiamo a celebrare l’Eucarestia.

Il problema della celebrazione dell’Eucarestia si inserisce in un contesto più ampio sul quale ora vorrei attirare la nostra attenzione. Tutti i più grandi commentatori antichi e moderni del quarto Vangelo hanno sottolineato che è centrale in esso l’affermazione secondo la quale il "mezzo" che consente all’uomo di raggiungere ed incontrare la persona vivente del Verbo incarnato è la fede. E’ essa che fa "entrare" e "rimanere" in Cristo l’uomo. E’ la fede che istituisce la relazione di reciproca immanenza fra Gesù e il suo discepolo, sorgente di una vita non più mortale ma eterna.

Questa dato rivelato ci costringe a porre la domanda: quale posto occupa la cristologia e la soteriologia nella nostra predicazione? Occupa veramente il posto centrale? Cioè: di che cosa/di chi abitualmente parliamo quando predichiamo? Nella condizione attuale non possiamo più dare per conosciuto nulla. Ed il "mistero di Cristo" è "fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale" [cfr. NMI 15,3]. Tutto il n° 16 della lett. Ap. NMI è da leggersi attentamente: Gesù Cristo non è una delle tante possibilità offerte all’uomo per la sua salvezza. E’ l’unica.

La "dimora" [eucaristica] del discepolo in Cristo è dimora in Cristo che dona Se stesso per l’uomo: per ogni uomo e per tutto l’uomo. Abbiamo meditato lungamente su questa sintesi non pensata ma vissuta fra dimensione contemplativa e dimensione attiva come chiave di volta del nostro ministero sacerdotale nella festa del b. Giovanni Tavelli. Vi prego di leggere l’omelia che feci allora, interamente dedicata a questo tema centrale nella nostra esistenza sacerdotale. Non c’è dubbio che sta qui il significato vero e più profondo di quel "ripartire da Cristo" di cui il S. Padre sta insistendo tanto in queste settimane di immediato post-giubileo.

Nel testo citato agli inizi di questa mia riflessione abbiamo visto come il S. Padre individui nella testimonianza della carità la seconda delle direttrici principali secondo le quali va trasmessa la preziosa eredità del Grande Giubileo. Io stesso nella celebrazione di chiusura ho introdotto la consegna dei Messaggi finali richiamando al fatto che l’uomo incontrato da Cristo lo si riconosce dal suo essere capace di "produrre" una cultura nuova e di amare: due facce della stessa medaglia, la vita in Cristo. Che cosa significa tutto questo? Voglio rispondere tralasciando, lo abbiamo già fatto e non mancheranno occasione per farlo ancora in seguito, la riflessione propriamente teologica e filosofica sulla Storia: è di questa che stiamo parlando. La mia preoccupazione ora è piuttosto pratica. Ed anche all’interno di questa preoccupazione mi limito ad alcuni cenni essenziali, anche se incompleti.

Esiste una premessa che oggi non può più essere data per scontata neppure fra i credenti: la Chiesa è il corpo di Cristo visibile. Ciò che i potenti di questo mondo, dagli imperatori di Roma agli imperatori di questo tempo, non vogliono accettare è l’esistenza della Chiesa come popolo: un cristianesimo incarnato non "deve" esistere perché non "può" esistere. La reazione alla GMG è da questo punto di vista esemplare. E’ lo scandalo del Verbum – caro che è insopportabile per cui o si deve rifiutare la "caro" identificando la fede cristiana in un vago spiritualismo o si deve rifiutare il "Verbum" chiedendo al popolo cristiano di essere nella piazza "come se Dio non esistesse".

Tenendo presente sempre questa premessa, riprendo il filo della mia riflessione: che cosa significa che l’uomo incontrato da Cristo è un uomo colto perché sa amare, o reciprocamente che sa amare perché è un uomo colto?

Significa porre la cura del matrimonio e della famiglia al centro delle nostre preoccupazioni pastorali. E’ nel matrimonio che l’uomo e la donna mostrano in maniera esemplare e paradigmatica di essere stati rigenerati da Cristo. E’ nella famiglia che viene generato un popolo cristiano.

Significa porre la domanda educativa come perenne, insonne questione in ogni luogo dove la persona umana si presenta per essere aiutata a crescere: nelle nostre parrocchie, nelle nostre associazioni e movimenti, nelle scuole della Chiesa e dello Stato.

Significa riprendere l’impegno per una formazione dei nostri laici alla dottrina sociale della Chiesa: quest’anno si è ripresa l’iniziativa della Scuola. Dovremo riflettere su questa esperienza.

Ma voglio terminare questo punto della mia riflessione con una sottolineatura che reputo assai importante.

Questa fondamentale direttrice secondo la quale dovremo far fruttificare l’eredità del Grande Giubileo ha e deve avere come un simbolo reale che ne sia per così dire l’espressione ed il sigillo permanente. Questo simbolo reale è costituito da due realtà: la concreta, stupenda testimonianza di carità data dalla Charitas diocesana, dalle conferenze di S. Vincenzo e da alcuni di voi; la Casa Betania della Carità. Il fatto che in essa abbia trovato spazio il SAV ha un significato simbolico: è nella affermazione del valore della persona più debole il pilastro della cultura cristiana e l’atto più grande della carità.

Le sfide odierne

L’esperienza giubilare, la sua fedele custodia e la sua assimilazione accade dentro ad un contesto in cui il popolo cristiano si trova ad affrontare alcune grandi sfide: sfide inedite e mai prima incontrare. Le ho elencate, o poco più che elencate nella Veglia del 31 dicembre. Vorrei ora riprendere e sviluppare un poco quella riflessione. Le sfide mi sembra che siano soprattutto le seguenti, quattro.

La sfida del nichilismo: essa consiste nella negazione di un originario rapporto della nostra ragione colla realtà. Negazione che comporta una considerazione della realtà medesima alla stregua di un’illusione o di un gioco, le cui regole sono frutto di pura convenzione. E’ la sfida al realismo della fede, perché nasce dalla negazione della ragione.

La sfida del cinismo morale: negata ogni consistenza alla realtà, scompare il senso della "divaricazione" fra bene/male, e con ciò il gusto della scelta libera. Ogni scelta ha lo stesso significato, e pertanto nessuna scelta ha significato. L’etica, intesa come passione per la custodia dell’umano, è estinta. E’ la sfida al realismo della speranza, perché nasce dalla negazione di un fine ultimo della vita.

La sfida dell’individualismo sociale: è il risultato delle due posizioni precedenti. La convivenza è coesistenza di egoismi opposti. Questa definizione del sociale umano è ritenuta valida per ogni società umana: dal matrimonio alla convivenza fra i popoli. È la sfida alla carità cristiana, perché nasce dalla negazione pura e semplice della categoria etico-antropologica della prossimità.

È possibile raccogliere questa triplice sfida sotto una sola "cifra"? Forse sì. È la "cifra" della libertà, misura della dignità e della grandezza dell’uomo: è la questione del significato ultimo del nostro essere liberi, sia nella nostra dimensione individuale, sia nella nostra dimensione sociale. Il coniugarsi delle tre sfide ha generato una cultura estranea al fatto cristiano, anzi spesso contraria. Dal fatto cristiano si accettano solo alcune conseguenze etiche: nulla di più.

La sfida dell’immigrazione culturale: non solo di una immigrazione intesa come presenza "fisica" di altri popoli. E’ il fatto dell’improvvisa e comunque inaspettata rottura dell’unità culturale della nostra comunità. E’ la sfida alla nostra identità cristiana.

Ci sono poi dei luoghi in cui "il fare i conti" con queste quattro sfide diventa inevitabile. Questi luoghi sono la famiglia, l’educazione della persona, l’impegno politico.

Conclusione

La riflessione precedente è solo un abbozzo di un lavoro che dovremo portare aventi nei prossimi mesi. La gioia di un incontro accaduto genera la missione. Non è il confronto dottrinale, che in primo luogo ci è chiesto; non è la testimonianza di una vita santa che dobbiamo in primo luogo esibire. E’ la narrazione di un fatto che ci è accaduto, invitando ogni uomo che incontriamo a viverlo. "Il cristianesimo" scrisse L. Wittgenstein "non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà dell’anima umana, bensì la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo".