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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Giovanni Paolo II: testimone di Cristo via all’uomo»
Parigi, Istituto di Filosofia Comparata, 10 maggio 2012


Il titolo della conferenza parla di una "via all’uomo". La formulazione ci introduce immediatamente nel nodo centrale dell’attuale questione antropologica: l’uomo ha smarrito la via che lo conduce a se stesso? Come può ritrovare la via verso se stesso?

Volendo cominciare a scendere in profondità viene da chiedersi se è questa una condizione strutturale della persona; una condizione che comunque accompagna l’uomo. K. Wojtyla scriveva: "L’uomo, scopritore di tanti misteri della natura, deve essere incessantemente riscoperto. Rimanendo sempre in qualche modo un essere sconosciuto, egli esige continuamente una nuova e sempre più matura espressione della sua natura". [Persona e atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pag. 77].

Oppure se questa condizione strutturale dell’uomo oggi abbia assunto una drammaticità tale da renderla unica ed incomparabile con ciò che l’uomo ha vissuto quando si è posto alla scoperta di se stesso. Vorrei innanzi tutto riflettere, nel primo punto, su questa congiuntura.

1. L’uomo "sviato"

1,1. La conoscenza che l’uomo oggi ha di se stesso possiede indubbiamente una quantità di dati ben superiore che nel passato. Si pensi solo alla neurologia e alla psicologia clinica. Dunque, l’uomo sta adempiendo ottimamente al dovere di riscoprire sempre più se stesso.

In realtà questo complesso e vasto patrimonio di conoscenza antropologica è stato accompagnato da alcuni eventi culturali che posso solo accennare in questo contesto.

B. Lonergan parla di un "oscurantismo radicale", di una "σκοτομήνη" che ha colpito nell’uomo l’uso della ragione [si vedano i riferimenti bibliografici in F.G. Lawrence – N.A. Spaccapelo – M. Tomasi, Il teologo e l’economia. L’orizzonte economico di B. Lonergan, Armando Ed., Roma 2009, pag. 38. n.19]. E’ come se si fosse sigillata la sorgente di quel domandare originale ed universale in cui Tommaso aveva intravisto il desiderio naturale di vedere Dio, ed Aristotele la forza propulsiva di ogni sapere.

Chi è colpito da questo oscurantismo blocca già al loro sorgere alcune – molte domande, ritenendole senza possibilità assoluta di risposta, perché prive di senso. È come se uno chiedesse quanti chilogrammi pesa una sinfonia di Mozart. Ma in base a che cosa sono separate le domande sensate dalle domande insensate? La risposta consiste in un secondo non meno grave evento culturale, a cui accenno sempre brevemente.

Esso consiste essenzialmente nel ritenere che solo la conoscenza scientifica è conoscenza verificabile / falsificabile, e quindi in grado di rispondere alla domanda: "è vero/è falso dire che …". Si noti – la cosa è di decisiva importanza – che la scienza è dato per scontato essere quella meccanicistico empiristica del modello newtoniano.

Uno dei precetti fondamentali del metodo, della via da seguire per giungere alla conoscenza, è di "oggettivare" ciò che si intende conoscere. Il soggetto che conosce non deve interferire colla sua propria soggettività nel processo conoscitivo. Oggettività significa ripetitibilità della verifica sperimentale mediante una indefinita interscambiabilità e sostituibilità di ciascun conoscente.

Non è difficile comprendere che una tale "via all’uomo" non conduce, non può condurre a conoscere ciò che è propriamente umano.

Comincia a definirsi il senso esatto di ciò che ho chiamato l’uomo "sviato"; di ciò che intendo dire quando dico che l’uomo oggi è stato "sviato". E’ stato messo su una strada, e gli è stata indicata una via a se stesso che non è in grado di portarlo alla meta.

Molti sono i sintomi di questo vagabondaggio. Mi limito a riflettere sul sintomo più evidente di questo "uomo sviato". E’ ciò che l’Enc. Caritas in veritate definisce l’assolutismo della tecnicità [74,1; ma tutto il capitolo sesto è dedicato a questo tema].

Per "assolutismo della tecnicità" intendo la riduzione della intenzionalità umana, cioè del rapporto colla realtà, alla determinazione e costruzione della medesima secondo i nostri progetti. Usando la formulazione tomistica, direi che si riduce l’intelletto alla sua capacità di "misurare le cose" [Qq. dd. De veritate q.1, a. 2c.]: cioè di progettarle e costruirle, fabbricarle e dominarle. Come dice la Caritas in veritate si afferma la coincidenza del vero col fattibile [70]. Di fronte ad un possibile corso di azione la ragione per cui la persona decide di attuarlo è "così agisco, perché è tecnicamente possibile"; e non "così agisco perché è bene agire in questo modo".

Se elimino dalla coscienza dell’uomo la verità del bene moralmente inteso, non resta come forza motivante della volontà che il bene utile e/o piacevole. Forse ciò che ha introdotto l’uomo occidentale nel regno della tecnica è stata precisamente la concezione dell’uomo come soggetto utilitario. [Ho riflettuto a lungo sul rapporto fra tecnocrazia e soggetto utilitario nella Lectio magistralis tenuta alla Società di medicina–chirurgia di Bologna il 12 settembre u.s.; cf. www.caffarra.it, oppure www.bologna.chiesacattolica.it]

Sempre l’Enc. Caritas in veritate parla del rischio dell’umanità "di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità" [ibid.]. L’affermazione è teoreticamente forte. Essa dice che si va costituendo una "forma" che configura ogni approccio dell’uomo alla realtà. Colla conseguenza che "noi tutti conosceremmo, valuteremmo, e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto".

E questa è la definizione congruente dell’ospite più inquietante che è venuto a dimorare nella nostra esistenza: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione che si dia – si doni un senso, poiché non esiste senso che non sia da noi prodotto.

Che ne è dell’uomo dentro all’orizzonte culturale tecnocratico? Molto semplicemente: niente. Dell’essere dell’uomo non ne è più niente, poiché l’essere dell’uomo è una produzione dell’uomo stesso.

Lo "sviamento" dell’uomo sembra andare quindi verso una condizione di non ritorno. Sembra essere un "destino", un "a priori" appunto "dal quale non potrebbe uscire". Non esiste una via alla riscoperta del "se stesso" poiché il "se stesso" non può più rendersi presente nelle grandi esperienze della vita. Non può essere cercato, poiché esso consiste precisamente nella stessa ricerca, ridefinizione, produzione.

1.2 La via. K. Wojtyla – Giovanni Paolo II [d’ora in poi K. W. – GP II] vuole aiutare l’uomo a trovare la via verso se stesso. Per comprendere quale via indica alla ricerca dell’uomo, all’incessante sua riscoperta, è necessario sapere quale meta si propone; che cosa intende, in questo contesto, quando parla di uomo.

La meta è indicata con varie espressioni: l’humanum in quanto tale; ciò che è propriamente umano nell’uomo; l’humanum nella sua irriducibilità. Dirò semplicemente: l’irriducibilità dell’humanum. È una prospettiva teoretica centrale nel pensiero dell’autore. A questo punto basta dare solo uno schizzo di definizione-descrizione. In seguito verremo in possesso di altri elementi per comprendere più profondamente.

Parto da una domanda: l’humanum in quanto tale è un quid unicum nel mondo oppure è ultimamente riducibile, e quindi spiegabile [e quindi se necessario programmabile] in base e alla luce di un quid commune?

K. W. ha dedicato un lungo studio a questa domanda: La soggettività e l’irriducibilità nell’uomo [ora in Metafisica della persona, Bompiani, Milano 2003, 1317-1328].

La storia della risposta occidentale a questa domanda è attraversata da due correnti teoretiche. La corrente che K. W. chiama "comprensione cosmologica"; la corrente che possiamo chiamare "comprensione personalista". Mentre la prima è tendenzialmente portata a considerare l’uomo come parte integrata nel mondo, e quindi sostanzialmente sempre esposta e disposta alla negazione dell’irriducibilità dell’uomo; la seconda trova la sua esemplare prima formulazione filosofica nella definizione dell’uomo data da Boezio. Essa ha due grandi meriti, secondo K. W.: "primo l’affermazione che l’uomo costituisce un distinto suppositum (= soggetto dell’esistere e dell’agire), secondo l’affermazione del suo essere persona" [1321].

Più volte K. W. indica le due correnti chiamandole "visione oggettiva" e "visione soggettiva". Quando tuttavia usa questa formulazione, ha sempre molta cura di definire rigorosamente in che senso usa i termini "oggettivo - soggettivo". Oggettività significa la tendenza teoretica a considerare l’uomo "obiectum naturae", e dunque la sua riducibilità; "la soggettività invece è una specie di termine evocativo del fatto che l’uomo nell’essenza a lui propria non si lascia ridurre né spiegare del tutto attraverso il genere più prossimo e la differenza di specie" [1320]. Non è dunque l’opposizione classica tra oggettivismo e soggettivismo, ma soltanto tra due modi di considerazione filosofica dell’uomo: come oggetto e come soggetto. Non si deve quindi mai dimenticare che nel pensiero di K. W. anche la soggettività dell’uomo come persona è qualcosa di oggettivo, altrimenti si equivoca tutto.

In sintesi: è la contrapposizione fra la comprensione dell’uomo come soggetto o come oggetto. È questo l’aut-aut che G.P.II ha di fronte a sé. "L’irréductible sta a significare ciò che per sua natura non può subire riduzioni, che non può essere ridotto, ma solo mostrato, rivelato" [1327].

Se questa dunque è la meta, se vado alla ricerca di ciò che nell’uomo è irréductible, ciò che è propriamente ed incomparabilmente humanum, quale via devo percorrere? È la questione del metodo.

K. W. parte da un’affermazione di importanza fondamentale, la quale è come il "segnale stradale" collocato all’inizio del percorso. Di essa propone varie formulazioni. Preferisco la seguente: "la definizione di Boezio definisce soprattutto quasi il "terreno metafisico", ossia la dimensione dell’essere in cui si realizza la soggettività personale, affermando quasi la condizione per la "coltivazione" di questo terreno sulla base dell’esperienza" [1321]. Il testo è molto ricco di pensiero.

Il terreno metafisico [nel senso classico] non va abbandonato: la via che ci conduce all’irréductible nell’uomo è tracciata su di esso. Tuttavia per giungere allo scopo, è necessario "coltivarlo". Come? Mediante l’esperienza che l’uomo ha di se stesso, la quale "esige che si introduca nell’analisi dell’essere umano l’aspetto della coscienza" [1323]. Non nel senso che l’esperienza è solo un contenuto della coscienza; ma nel senso che è solo la coscienza a rivelare all’uomo che egli è un soggetto che ha coscienza di sé. L’esperienza della propria soggettività non è costituita dalla coscienza, ma attraverso la coscienza.

Potremmo dunque dire: la via per giungere all’irréductible dans l’homme è l’esperienza che ha l’uomo di sé mediante la sua coscienza. Questa potrebbe essere una definizione del metodo di K. W. alla ricerca dell’irréductible dans l’homme. La categoria dunque di esperienza va accuratamente spiegata, non dimenticando mai, neppure per un istante, che – come scrive K. W. - "non ci leghiamo ad un soggettivismo di visione, ma garantiamo invece la soggettività autentica dell’uomo, cioè la sua soggettività personale in una interpretazione realistica del suo essere" [1323]. Parla anche di un "bisogno di oggettivare il problema della soggettività dell’uomo" [1317]. È un’esperienza dell’uomo che "ci affranca dalla coscienza pura come soggetto pensato e fondato "a priori" e ci introduce nell’esistenza concretissima dell’uomo, ossia nella realtà del soggetto cosciente" [1318].

 

1. 3 La via tracciata: breve esposizione del metodo. Esso è tracciato in modo esemplare nell’introduzione a "Persona e atto", la principale opera filosofica di K. W. Le pagine introduttive sono, a mio giudizio, l’esposizione più rigorosa e completa della chiave di lettura di tutta l’opera filosofica di K. W. Per brevità, cercherò di esporla sintetizzandola in quattro punti.

1, 3, 1. L’esperienza denota il contatto conoscitivo diretto ed immediato dell’uomo con se stesso. Mi fermo un poco per dare qualche spiegazione.

Trattasi di un contatto conoscitivo, non semplicemente sensibile. Non consiste "solo nel ricevere impressioni e che in seguito rimanga unicamente il lavoro dell’intelletto che plasma l’uomo, in quanto suo oggetto, sulla base dell’insieme attuale dei dati sensibili o della serie di tali insiemi" [Persona e atto, in Metafisica della persona 832]. Il concetto dunque è toto coelo diverso dal concetto di esperienza dell’empirismo. L’uomo ha esperienza di se stesso fino a quando opera quel contatto conoscitivo diretto ed immediato, di cui egli è al contempo soggetto ed oggetto.

Questa concezione di esperienza, se non vado errato di ascendenza aristotelica, è quindi essenzialmente diversa da quella fenomenalista, per cui il contenuto dell’esperienza sarebbe solo l’insieme di impressioni sensibili, e da quella aprioristica, per cui l’oggetto sarebbe determinato dalle forme a priori dell’intelletto.

È questo un punto fondamentale nella metodologia di K. W. – GP II: mi fermo un po’ più a lungo. Essendo l’esperienza di cui sto parlando un "contatto conoscitivo" dell’uomo con se stesso, l’esperienza implica – e non semplicemente precede o accompagna – l’esercizio dell’intelletto. Quale esercizio? A questo argomento fondamentale GP II ha dedicato due catechesi sull’amore umano, la Cat. 13 e soprattutto la Cat. 25, §2. In queste pagine, GP II chiama l’attività dell’intelletto implicata nell’esperienza "riduzione". Abbiamo a che fare con una categoria chiave della metodologia [cfr. anche Persona e atto, in Metafisica della persona, 835, 836].

È necessario prima di tutto chiarire che il termine non ha il significato negativo che spesso ha nel linguaggio comune. Secondo questo significato "riduzione" connota l’operazione nella quale la ricchezza o la pluralità delle dimensioni di un oggetto, di una realtà, è impoverita, diminuita, perfino negata. In questo senso diciamo: "l’uomo non può essere ridotto al corpo". Più che di "riduzione", siamo di fronte ad un’operazione di "riduzionismo".

L’operazione "riduzione" di cui parla K. W. GP II presuppone la "induzione": "l’induzione apre il cammino alla riduzione" [Persona e atto]. L’induzione è il processo mediante il quale la ragione comprende l’identità e l’unità di significato nella molteplicità e complessità dei fenomeni sperimentati. L’induzione pertanto non impoverisce l’esperienza; la unifica. Ed anzi l’arricchisce: ciò che prima dell’induzione mi era solo confusamente dato ora è compreso. In Persona e atto K. W. scrive: "l’oggetto è consolidato". Cioè: l’oggetto dell’esperienza, ciò che l’uomo sperimenta di se stesso non si disperde nel mare sempre agitato della molteplicità e della complessità, inafferrabile. L’oggetto è captato, fissato, "consolidato" nella sua identità permanente.

L’induzione apre la porta alla riduzione. Infatti, la complessità e la molteplicità dell’esperienza compresa nella sua unità, esigono e chiedono di essere spiegate. La riduzione è la spiegazione dei significati raggiunti attraverso l’induzione. Essa pertanto consiste in quell’operazione mediante la quale "rendo ragione" di ciò che conosco per esperienza; espongo tutte le ragioni che fanno riferimento all’oggetto, tutte le sue strutture fondamentali ed ultimamente il suo fondamento. Ricordate che K. W. parlava di una "coltivazione del terreno metafisico". Scrive: "il suppositum umano diventa "io umano" e si manifesta come tale a sé grazie alla coscienza. Il che però non significa affatto che l’io umano sia riducibile alla coscienza o anche alla cosiddetta autocoscienza. Esso è soltanto costituito attraverso la sua mediazione in suppositum humanum sulla base di tutto l’esistere (esse) e l’agire (operari) che è proprio del suppositum" [La persona: soggetto e comunità, in Metafisica della persona, 1342]. È la soggettività metafisica.

GP II potrà dire in tutta verità: "la mia personale impostazione filosofica si muove, per così dire, tra due poli: il tomismo aristotelico e la fenomenologia" [Alzatevi e andiamo, Mondadori, Milano 2004, 73]. Nello stesso contesto confessa il suo grande debito a Edith Stein, in particolare ad Essere finito ed essere eterno.

 

1, 3, 2. "L’auto-coscienza va di pari passo con la coscienza del mondo… Con questa conoscenza che lo fa uscire in un certo modo al di fuori del proprio essere, in pari tempo, l’uomo rivela sé a se stesso in tutta la peculiarità del suo essere" [Uomo e donna li creò, Cat. 2-3]. É la seconda fondamentale proposta metodologica. Sarò ora più breve.

L’esperienza che l’uomo ha di sé va di pari passo coll’esperienza che ha del mondo: anzi la prima si genera all’interno della seconda. Ma da questa reciproca coabitazione l’uomo ha esperienza di sé come altro dalle cose, come altro[alius et aliud] dal mondo. "L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante", diciamo con Pascal. "L’uomo si rivela a se stesso direttamente, nel contatto diretto conoscitivo con il mondo, come diverso e distinto dal mondo" [T. Styczen, in Metafisica della persona 785]: distinto e diverso perché essenzialmente superiore.

Il rapporto col mondo delle cose è un costitutivo essenziale della via all’ irriductible dans l’homme.

 

1, 3, 3. Secondo K. W. l’esperienza che l’uomo ha di se stesso, nel senso che ho cercato di spiegare, è l’unica via che ci conduce a riconoscere e conoscere l’irriducibilità, l’originalità dell’uomo. Questa via precede ogni teoria filosofica dell’uomo, perché è la sorgente di ogni teoria dell’uomo. Possiamo dire che K. W. fa proprio il pensiero di E. Husserl quando scrive: "nicht von den Philosophen sondern von den Sachen und Problemen muβ der Antrieb zur Forschung ansgehen". Le "Sachen" di cui parla K. W. – GP II sono sia il mondo delle cose conosciute di pari passo colla conoscenza che l’uomo ha di sé, sia l’uomo che si rende manifesto a se stesso come irriducibilmente diverso perché superiore.

 

1, 3, 4. Una delle domande fondamentali cui ogni metodologia è obbligata a rispondere è la domanda sul criterio di verità: in base a che cosa affermo essere vero ciò che affermo essere vero? Non ho trovato – ma forse non ho fatto una buona ricerca – in K. W. una risposta esplicita, elaborata. È stato piuttosto il suo discepolo preferito, T Styczen, ad affrontare lungamente questo problema, provenendo egli da studi logici e da una formazione epistemologica. Non ho dubbi che la risposta del discepolo sia coerentemente dedotta dal maestro. Lo dico anche sulla base di prolungati colloqui durante molti anni di feconda amicizia.

Il criterio di verità consiste nella coerenza fra ciò che l’uomo afferma/nega circa se stesso e ciò che gli viene rivelato dall’esperienza che ha di se stesso. La proposizione circa l’uomo è vera/falsa in base esclusivamente a ciò che si svela e si rende presente, in linea di principio, mediante l’esperienza che l’uomo ha di sé. Il referente veritativo o falsificativo è ciò che l’uomo conosce di sé mediante la coscienza di sé.

Questa risposta offre una chiave di lettura di ogni quaestio de veritate circa hominem. L’uno e l’altro dei questionanti devono compiere il controllo e la verifica su ciò che è intersoggettivamente controllabile e comunicabile: i dati dell’esperienza che l’uno e l’altro hanno di se stesso. "Ognuno può, infatti, porre se stesso, in un certo senso, nel ruolo del testimone diretto e del giudice di ciò che qualcun altro gli comunica come risultato ed espressione della propria esperienza, come espressione della propria "autocoscienza" [T. Styczen, cit., 788]. Non posso tacere un esempio classico. Tommaso rispose sempre all’averroista che affermava l’unità dell’intelletto: hic homo intelligit. Cioè: "caro amico, ciò che dici sull’uomo è clamorosamente disdetto dall’esperienza che ciascuno ha di sé".

Una tale criteriologia si sostiene tutta sull’affermazione propria al realismo metafisico che esiste una natura della persona umana, comune ad ogni uomo, ed intelligibile da ogni persona umana. La "quaestio" quindi non è controversia di rivali aventi opposti interessi, ma ricerca di una verità che è trascendente ed immanente in ciascuno.

2. Ecce homo!

Alla ricerca di ciò che nell’uomo è propriamente umano, de l’irriductible dans l’homme, percorrendo la via e facendo uso del metodo descritto sinteticamente nel numero precedente, K. W. ritiene che l’esperienza più rivelativa sia l’esperienza della persona in azione: l’esperienza de l’homme agissant. È sulla base di questo presupposto che K. W. costruisce la sua opera filosofica più importante, Osoba i czyn [Persona e atto]. Non si ha nessuna conoscenza profonda del pensiero di K. W. – GP II se non si è letto e lungamente meditato questa opera.

Quale lo scopo che si propone l’autore scrivendo quell’opera, la sua intentio profunda? Non dimostrare che l’atto presuppone la persona, secondo il classico adagio operari sequitur esse. "Sarà invece studio dell’atto che rivela la persona; studio della persona attraverso l’atto. Tale è infatti la natura stessa della correlazione insita nell’esperienza, nel fatto "l’uomo agisce": l’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela" [841]. Nel contatto conoscitivo che l’uomo istituisce mediante l’esperienza dell’azione che sta compiendo, egli esperimenta (a) che è persona e (b) che cosa significa essere persona. "Gli atti sono il momento peculiare della visione e quindi della conoscenza sperimentale della persona" [843]. Lo scopo dunque è chiaro: scoprire la persona, l’irriductible dans l’homme, nel suo atto e mediante il suo atto.

Ma con questo non si è detto tutto. "L’esperienza e nello stesso tempo la visione intellettuale della persona negli atti e attraverso gli atti derivano in particolare dal fatto che gli atti hanno un valore morale" [842]. Si faccia tuttavia bene attenzione. Ciò che l’autore intende dire è che non si ha un’esperienza dell’atto, e quindi della persona che agisce, se non coglie la reale unità tra l’esperienza dei valori morali e l’esperienza dell’uomo. L’una è implicata nell’altra. Se sfugge quest’implicazione non sto vivendo una reale esperienza di me stesso.

Non è necessaria dunque una riflessione sul rapporto fra antropologia ed etica; ancor meno la trattazione dei problemi etici. L’autore parla anzi di una messa fuori parentesi dei problemi etici. Essi sono fattori "fuori parentesi" non perché sono esclusi e negati nella loro specificità, ma perché sono intrinseci ad ogni fattore che sta "fra parentesi". Non esclude quei fattori, né spezza il legame fra il "fra parentesi" e il "fuori parentesi". È un’operazione metodologica, che facilita il cammino intrapreso.

"L’autore si basa esclusivamente – e vi si riferisce – su ciò che si svela e si rende presente, in linea di principio, direttamente ad ogni uomo, nel contesto della coscienza che accompagna il suo atto di conoscenza e di azione, che ognuno può sperimentare da sé in se stesso già nel momento in cui conosce, e soprattutto quando agisce o quando è oggetto di azione" [T. Styczen, 787].

Ho detto "nel contesto della coscienza che accompagna il suo atto". La nota è di importanza fondamentale nella costruzione di Persona e atto, ed infatti tutta la prima parte è dedicata al tema della coscienza [non in senso morale]. La riflessione infatti è fondata continuamente su ciò che si svela a ciascuno, almeno in linea di principio, quando fa "esperienza di se stesso"; quando è auto-cosciente.

 

2,1 Coscienza e personne agissante. K. W. parte dagli elementi classici della dottrina sull’atto, e li presuppone sempre. Li richiamo brevemente.

Lo sfondo della dottrina è la concezione metafisica di potentia – actus. Dal punto di vista metafisico parlare di "atto umano" significa parlare di un atto che realizza, attualizza, una potenzialità propriamente umana. Esistono potenzialità propriamente umane perché sono proprie di una sostanza, di un soggetto che è irriducibilmente umano. Dunque, potremmo disegnare la seguente sequenza: sostanza → potenza → atto.

Il propriamente umano, e dunque alla fine l’atto propriamente umano è l’atto volontario. Volontario significa che esso è posto in essere dalla volontà in quanto guidata da un giudizio della ragione.

È da queste basi che K. W. parte. Nella concezione classica è certo che la coscienza di agire mentre la persona agisce, è un dato che entra nella definizione di actus humanus. Dire che un atto è umano e dire che è in-cosciente non ha senso. Tuttavia nella dottrina classica dell’atto umano, questo dato era sempre presupposto, più che oggetto di un’accurata analisi.

La ricerca nell’uomo di ciò che è propriamente umano, percorre invece questa via: la persona non solo agisce, non è solo soggetto dell’azione. Essa è soggetto che sa di agire: è cosciente di agire. Scrive K. W. : "vogliamo unicamente trarre fuori (per così dire) quell’aspetto sui generis della coscienza che l’actus humanus contiene in sé … In questo studio, …, è nostro compito "esplicare" gli aspetti della coscienza, esporre la coscienza in quanto aspetto essenziale e costitutivo di tutta la struttura dinamica [sottolineatura dell’autore] della persona e dell’atto" [PA, 96-97].

Vediamo quali sono i concetti-chiave di questa esplicazione degli aspetti della coscienza, facendo però una premessa necessaria.

È necessario distinguere coscienza e conoscenza: conoscere qualcosa non è identico ad avere coscienza di essa. L’avere coscienza implica un atto formalmente distino dall’atto conoscitivo. La gnoseologia di K. W. resta sempre strutturalmente tommasiana.

Di conseguenza – la cosa è assai importante – la coscienza che la persona ha di sé è formalmente distinta dalla conoscenza di sé: l’auto-coscienza non è l’auto-conoscenza, anche se l’accompagna. Ma con questo siamo già entrati in medias res.

A) La prima funzione della coscienza è di riflettere i contenuti dell’auto-conoscenza. La coscienza riflette l’auto-conoscenza, la quale a sua volta ha come suo contenuto l’io considerato come oggetto di conoscenza. È l’auto-conoscenza che fornisce all’io quel materiale di conoscenza riflesso dalla coscienza. "Alla coscienza nella nostra concezione non appartiene pertanto l’intenzionalità in senso proprio, ma essa la possiede unicamente nel significato derivato, secondario, grazie all’intenzionalità degli atti del sapere e della conoscenza di sé come potenzialità reali della persona" [PA, 101, nota].

B) Ma questa non è la funzione decisiva della coscienza in ordine allo scopo che l’autore si prefigge. La funzione decisiva è quella che egli chiama la funzione riflessiva.

"Nel rispecchiamento" (prima funzione) "grazie all’autoconoscenza l’uomo, che è soggetto e costituisce il suo proprio io, si presenta pur sempre come soggetto. Il volgersi riflessivo della coscienza fa sì che l’oggetto, proprio perché è ontologicamente soggetto, vivendo interiormente il proprio io, vive contemporaneamente se stesso come soggetto" [PA, 129].

In forza della prima funzione, la persona sa ciò che sta facendo e ciò che è; in forza della seconda funzione, la persona esperimenta l’azione in quanto azione causata da se stessa e se stessa come soggetto agissant, e ultimamente causa sui. L’autore parla di un naturale volgersi (della coscienza) verso il soggetto, che porta a mettere in evidenza la sua soggettività non come "oggetto di auto-conoscenza", ma come esperienza vissuta. K. W. fa un paragone suggestivo: "così, per esempio, si sovrappongono e insieme si distinguono sottilmente il paesaggio montano rispecchiato conoscitivamente nella nostra coscienza e lo stesso paesaggio vissuto interiormente da noi sulla base di tale rispecchiamento" [PA, 127]. Paesaggio rispecchiato conoscitivamente = primo elemento della coscienza di sé = coscienza rispecchiante; paesaggio vissuto interiormente = secondo elemento della coscienza di sé = coscienza riflettente (riflessiva).

Possiamo allora distinguere: "che una cosa è essere soggetto; un’altra essere conosciuto (oggettivato) come soggetto (il che avviene nel rispecchiamento della coscienza); un’altra cosa infine vivere interiormente se stesso come soggetto dei propri atti e delle proprie esperienze vissute (dobbiamo quest’ultimo alla coscienza, nella sua funzione riflessiva)" [PA, 129]. La novità della via proposta da K. W. alla scoperta dell’humanum è di accostarci all’uomo percorrendo la via dell’esperienza vissuta [nel senso rigoroso spiegato], e dell’esperienza vissuta della persona che agisce.

Ancora una volta mi preme sottolineare che è un procedimento opposto a quello delle filosofie della coscienza. La coscienza è sempre pensata in unione intima con l’essere; essa non è chiusa in se stessa, ma per così dire è la porta di ingresso verso l’interno del soggetto, e così lo rivela nel suo grado più elevato: la persona soggetto che agisce. Non si può infatti essere più che persona [quod est perfectissimum in ratione entis].

Proprio la distinzione accurata dell’auto-conoscenza dalla "coscienza réflexive" è fondamentale per non equivocare tutto il discorso. Solo così appare che esso è un vero e proprio arricchimento della grande tradizione del pensiero cristiano circa l’uomo alla ricerca di se stesso.

 

2, 2 La trascendenza della persona nell’azione. Non abbiamo ora il tempo di percorrere, seppure in fretta, le analisi della coscienza che l’uomo ha di sé come causa del suo atto.

Esse raggiungono tre guadagni teoretici fondamentali: la trascendenza della persona nell’azione, l’integrazione della persona, la partecipazione della persona all’esistenza degli altri.

Mi limiterò, per ragioni di tempo, al primo dei tre risultati, ritenendolo quello fondamentale: la trascendenza della persona nell’azione.

La struttura che indichiamo dicendo "l’uomo agisce", nella sua specificità incomparabile con altre strutture, è determinata dalla libertà. Ci sono nella persona altre attivazioni – per es. quelle attinenti alla sfera vegetativa: digerire il cibo, respirare … - ma non sono la struttura "l’uomo agisce", nel senso che accadono solamente nell’uomo, ma non sono dell’uomo. "La persona, infatti, è il soggetto reale del dinamismo; nel caso poi dell’azione essa è non solo soggetto, ma anche agente" [961-962].

L’esperienza vissuta della causazione propria della persona può essere espressa nel modo seguente: posso, ma non sono costretto. È questa la descrizione più accurata del dinamismo propriamente umano. Tra il "io posso" e "non sono costretto" si pone "io voglio/io non voglio".

Questa esperienza fa emergere all’interno stesso della coscienza di un "aliquid" che sta oltre la coscienza: precisamente il soggetto che agisce, vera causa del suo atto in quanto poteva (agire), ma non era costretto. Siamo quindi arrivati all’esperienza vissuta della trascendenza della persona nell’atto. Vediamo brevemente quali sono i fattori che costituiscono l’esperienza vissuta della trascendenza della persona nell’atto.

La coscienza vissuta dell’ "io posso, ma non sono costretto", non è solo coscienza vissuta dell’atto che la persona compie: non stiamo trattando solo di una proprietà dell’azione. Ma è anche coscienza vissuta della persona che "può, ma non è costretta": mediante quest’esperienza "la volontà si rivela come proprietà della persona e la persona che, quanto al suo proprio agire, è costituita propriamente dalla volontà" [965]: Homines sunt voluntates, scrisse Agostino.

È questo propriamente ciò che chiamiamo auto-determinazione. La persona si auto-determina ad agire, "quia" direbbe Tommaso "homo per liberum arbitrium seipsum movet ad agendum" [1, q. 83, a. 1, ad 3um].

L’auto-determinazione è un evento unico nell’universo creato, e dona all’uomo un’incomparabile dignità in ratione entis. Costituisce un inizio assoluto.

L’auto-determinazione [il tommasiano seipsum movere a seipso] si radica, ha come condizione di possibilità che la persona sia dotata di auto-possesso. Non si tratta solo di una banale osservazione: non puoi disporre di ciò che non possiedi. La cosa è più profonda.

L’operatività propria della persona, cioè l’esser causa del suo atto, è diversa dall’operatività che è presente nella persona ma appartiene alla sfera della natura. L’origine di essa non è la persona qua talis. L’atto della digestione non è la persona che si auto-determina a digerire. La ragione è che essa in tali attività non è in pieno possesso di sé: è "posseduta" e quindi "dinamizzata" da leggi naturali bio- chimiche.

In secondo luogo, l’auto-possesso non basta all’auto-determinazione. Esso ha due aspetti: la persona possiede se stessa; la persona è posseduta da se stessa. Possedendo se stessa ed essendo posseduta solo da se stessa e non da altro [sui juris], può volere di divenire persona in atto [secondo, aggiunge la metafisica]. Ma ad una condizione: che sia padrona di sé. "Il dominare se stessi, come proprietà che distingue la persona, presuppone l’auto-possesso e costituisce in un certo modo il suo aspetto oppure una concretizzazione più vicina. L’auto-dominio, che riscontriamo nella persona, può aversi solo quando si ha quell’auto-possesso che solo ad essa è proprio, l’uno e l’altro condizionano l’auto-determinazione" [967].

Anche l’auto-determinazione ha due dimensioni. Essa è sempre la coscienza vissuta di un movimento verso un oggetto: ha un carattere intenzionale. Mi auto-determino volendo qualcosa. Ma la dimensione intenzionale non esaurisce il vissuto dell’auto-determinazione: "in ogni auto-determinazione attuale (ossia in ogni "voglio") l’"io" è oggetto, oggetto primario e più vicino" [969]. In ogni auto-determinazione, mi muovo all’atto e divento persona in atto non semplicemente perché voglio x, ma primariamente e più immediatamente perché voglio essere, realizzarmi nel modo che volendo x posso essere. Tommaso parlando della libertà ha sempre scritto una formula vertiginosa: nella libertà l’uomo diventa causa sui. E i Padri della Chiesa insegnano che nella libertà ciascuno diventa genitore di se stesso. "Quando voglio una cosa qualsiasi, allora decido nello stesso tempo di me" [970]. È in questo che l’auto-determinazione raggiunge la sua intera verità: "l’uomo "specifica"" se stesso "volendo questo o quell’oggetto, questo e quel valore. A questo punto tocchiamo la più profonda realtà dell’atto. Infatti specificando il proprio io – rendendolo questo o quello – l’uomo diviene nello stesso tempo qualcuno" [971].

Abbiamo raggiunto la comprensione di ciò che K. W. intende per "trascendenza della persona in atto" [cfr. 982-983].

Esiste una trascendenza orizzontale, la quale consiste nel superamento dei limiti del soggetto verso un oggetto, mediante l’atto del conoscere e del volere.

Esiste una trascendenza verticale. Essa significa la capacità della persona di far dipendere le sue proprie dinamizzazioni dall’io. È la preminenza dell’io nei confronti del proprio agire stesso, e correlativamente è la dipendenza dell’azione dalla persona: persona eminet super actum suum.

L’individuo come tale è totalmente immanente al suo agire, essendo egli mosso ad agire [agitur – non agit] dalle leggi naturali; la persona è trascendente al suo agire, essendo mossa ad agire da se stessa [seipsam movet ad agendum ].

 

2, 3. Ora possiamo procedere ad un successivo scavo nella coscienza vissuta dell’auto-determinazione e trascendenza della persona. Se così possiamo dire, esse hanno in sé un essenziale significato etico. È la trascendenza della persona che agisce verso la verità sul bene.

Il fondamento e la radice dell’auto-determinazione, della trascendenza verticale è il riferimento alla verità circa il bene, che appartiene all’essenza della scelta ed è rivelato dalla decisione. Più che parlare di una trascendenza della persona verso la verità, è una trascendenza nella verità. Che cosa significano queste affermazioni?

Possiamo partire dalla definizione classica della volontà come ad-petitus rationalis. La distinzione fondamentale del movimento proprio della volontà, l’auto-determinazione, dal movimento proprio dell’istinto; la divaricazione fra l’agere e il pati, fra l’actus personae e l’actus individui, è che il primo, l’auto-determinazione, è abitato da un giudizio della ragione circa ciò che è il bene della persona.

L’auto-determinarsi proprio della persona implica che la persona che si auto-determina abbia giudicato che x sia bene per la persona [e. g. consacrarsi nella verginità] perché la verginità è giudicata un bene della persona.

Per comprendere questo passaggio occorre fare una distinzione classica nell’etica. La persona si auto-determina ad un atto: la scelta e la decisione di realizzarsi nella verginità consacrata. In questo senso si dice: la decisione di … è un bene per la persona. Più semplicemente: è una decisione buona.

Il giudizio circa la bontà della decisione trova il suo fondamento nel giudizio circa la bontà di ciò a cui mi decido: l’essere, il vivere nella verginità consacrata è il bene della persona.

Mediante l’auto-determinazione ciò che è bene, entra nella costituzione del soggetto.

Senza quel giudizio la volontà, meglio la persona non si auto-determina. Non "movet seipsam a seipsa", ma "movetur ab alio", "agitur-non agit".

Quando infatti la persona diventa superiore a se stessa, trascende se stessa così da auto-determinarsi o non, al fine di passare o non all’atto? Che cosa crea questa fermata, se così posso dire, questa distanza di sé da sé? La verità circa il valore, la bontà dell’oggetto che sto per volere. In questo senso l’auto-determinazione è totalmente radicata nella verità circa il bene: radix totius libertatis judicium rationis, aveva scritto Tommaso.

Prima di procedere oltre, si deve fare attenzione a non identificare auto-determinazione e giudizio circa il bene della persona. Essi sono essenzialmente diversi. La prima è creativa, il secondo è manifestativo; la prima ha origine da se stessa, il secondo ha origini "da fuori"; la prima agisce, il secondo dice. È ben diverso conoscere la verità circa il cristianesimo ed essere cristiani!

Procediamo nella riflessione di K. W., entrando finalmente nel cuore della sua testimonianza al dramma umano.

Siamo arrivati al seguente risultato: essere persona – essere se stessi – nel proprio agire vuol dire trascendere se stessi in riferimento alla verità circa il bene. Più brevemente: l’atto è della persona se e quanto essa trascende se stessa verso e nella verità. E quindi: essere se stessi = trascendersi verso e nella verità.

Ma la verità, qualsiasi verità, obbliga all’assenso; non mi consente di essere neutrale. Parlo ancora di giudizi banali. Sono a Parigi, in questo momento: non posso non riconoscere che le cose stanno così. L’intelligenza di fronte ad una verità conosciuta, meglio: la persona nei confronti della verità conosciuta, non può dire con la volontà: "posso assentire, ma non sono costretto". La verità conosciuta costringe l’intelligenza all’assenso.

Noi stiamo parlando non di una qualsiasi verità e conoscenza. Stiamo parlando della conoscenza della verità circa il bene della persona. Più semplicemente: di ciò che è bene/male della persona.

Richiamo alla memoria ciò che sopra ho già detto. L’atto della persona, in forza dell’auto-determinazione, "penetra nel soggetto, nell’io, che è il suo primo ed essenziale oggetto" [1022]. Da questo punto di vista, l’atto non passa, è sempre intransitivo, in quanto configura l’essere della persona. È sempre in direzione di se stessi. Di questo noi siamo testimoni soprattutto "nella morale, dove attraverso l’atto moralmente buono o moralmente cattivo l’uomo come persona diventa moralmente buono o cattivo" [1023]. Chi pensa un triangolo non diventa un triangolo, ma chi decide di rubare diventa un ladro.

Abbiamo così raggiunto il significato più profondo dell’espressione "compiere un atto". Essendo causa dell’atto, la persona compie in esso se stessa; edifica se stessa, realizza se stessa attraverso e nell’atto.

Il giudizio della ragione circa il bene, svela alla persona ciò che attraverso l’atto la realizza o non la realizza: manifesta la realizzazione vera e la realizzazione falsa. Indica quale atto la realizza, quale atto non la realizza; cioè: quale atto è buono, quale atto è cattivo.

È in forza di questo giudizio che la persona è resa capace di scegliere, di auto-determinarsi alla scelta: la verità la libera. In questa situazione, la persona colla sua scelta può compiere l’atto che la realizza: scegliere se stessa; ma può anche negare colla scelta ciò che ha conosciuto colla ragione: scegliere non-se stessa. Ciò che nell’autodeterminazione è a rischio è il nostro se stesso.

La possibilità di salvare se stessi è radicata nella trascendenza verso la verità. "Non accettare con un atto di libera scelta la verità già riconosciuta come verità con un atto mio di conoscenza vuol dire -… - cedere ad una forza aliena sia nei confronti della verità che nei confronti di me stesso, cedere ad una violenza" [T. Styczen, 796]. È alla fine pienamente libero chi si sottomette alla verità. "Senza questa trascendenza – senza superamento e in un certo senso senza crescita di sé verso la verità e verso il bene voluto e scelto alla luce della verità – la persona, il soggetto persona, in un certo senso non è se stesso" [La persona: soggetto e comunità, 1352].

Il nesso fra libertà e verità è il cuore del dramma dell’uomo, ed il nucleo irriducibile dell’humanum qua tale. Il dramma è diventato tragedia, poiché si è pensata la libertà come il potere di determinare la verità dell’uomo, di definire la sua essenza. Ed oggi la tragedia sta diventando farsa: una danza, ma della morte dell’uomo.

 

3. Redemptor hominis Christus

La nostra esperienza quotidiana ci attesta che scegliamo, decidiamo di negare colla scelta della nostra libertà la verità che abbiamo affermato col giudizio della nostra ragione: "video meliora proboque et deteriora sequor".

Che cosa facciamo di noi stessi quando viviamo quest’esperienza? Potremmo chiamarlo suicidio morale nel senso che impediamo l’esistenza a se stessi? In ogni caso, coabitano in ciascuno di noi un "se stesso" con un "non-se stesso": una coabitazione su cui Paolo, Agostino e Shakespeare hanno scritto pagine memorabili. Donde deriva questa condizione al contempo avventizia e naturale? Quale origine ha questa malattia della nostra libertà? Unde malum? È stata la domanda che ha accompagnato tutto l’itinerario di Agostino.

Il dramma del male nell’uomo e nella sua storia è al centro della testimonianza di GP II. Esso non ha soluzione da parte dell’uomo. A questo punto la riflessione si trova di fronte ad un enigma insolubile.

La risposta e la soluzione è nell’atto redentivo di Cristo. "Nel mistero della redenzione l’uomo diviene nuovamente espresso e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato!" [Redemptor Hominis 10]. La Chiesa esiste per offrire all’uomo la possibilità reale di "rinascere", come dice Gesù a Nicodemo. "La Chiesa, che non cessa di contemplare l’insieme del mistero di Cristo, sa, con tutta la certezza della fede, che la redenzione, avvenuta per mezzo della Croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato" [ibid.].

Alla fine dell’introduzione di Persona e atto, K. W. scriveva: "L’uomo non può perdere il posto che gli è proprio in quel mondo che egli stesso ha configurato. Si tratta di venire in contatto con la realtà umana nel punto più giusto, quello indicato dall’esperienza dell’uomo e dal quale l’uomo non può retrocedere senza la sensazione di avere smarrito se stesso" [856].

Ma questa ricerca dell’humanum nell’uomo porta alla fine ad un abisso insuperabile, ad una domanda cui l’uomo non può rispondere: nel momento in cui la persona deve confermare colla sua auto-determinazione il bene conosciuto colla ragione; nel momento in cui il bene può entrare nella soggettività umana, l’uomo non lo conferma e non lo lascia entrare.

La testimonianza circa la verità dell’uomo, alla irriducibilità dell’uomo in quanto persona che agisce, diventa testimonianza a Cristo, unica via attraverso la quale la persona umana diventa capace di compiere ed esprimere se stessa. Non si tratta solo di capire chi è l’uomo, ma di rendere capace l’uomo di divenire realmente ciò che è. Quanto più il nostro sguardo si rivolge all’uomo, tanto più esso deve volgersi all’atto che redime l’uomo. La ricerca della via percorrendo la quale l’uomo ritrova se stesso, ha il suo termine nell’atto redentivo di Cristo, sempre eucaristicamente presente nel mondo. I destini dell’uomo si decidono non all’ONU, ma all’altare.

Esiste un solo antropocentrismo legittimo e doveroso nel pensiero cristiano, quello cristocentrico [cfr. Dives in misericordia 1, 4]. La liberazione della libertà dalla permanente insidia di affermarsi non subordinandosi alla verità, è il nucleo centrale dell’opera redentiva di Cristo, come Paolo insegna nella Lettera ai Galati. Come scrive Von Balthasar, "la liberté et le drame de la création entrent comme moment interne [inneres Moment] dans la christologie" [La dramatique divine. II. Les personnes du drame. 2. Les personnes dans le Christe, Givort – Lethielleux, Paris –Namur 1988, 13].

La concezione dell’uomo, affermatasi in Occidente, secondo la quale non esiste una verità circa il bene; che attribuisce all’uomo – singolo o in società (consensus facit verum/bonum) – la facoltà di stabilire ciò che è bene o male, rende vana la Croce di Cristo. Distaccata dalla Croce di Cristo, l’incapacità della libertà di confermare colla scelta la verità conosciuta colla ragione o è negata o conduce la persona alla disperazione. La consapevolezza della miseria morale dell’uomo, staccata dall’atto redentivo di Cristo, conduce la nostra fragile imbarcazione o contro la Scilla dell’orgoglio o contro la Cariddi della disperazione.

 

4. Conclusione

Penso di avere mostrato come il cammino spirituale di K. W.-GP II sia stato un cammino di testimonianza a Cristo Redentore via per l’uomo a ritrovare se stesso. Ed allora concludo con un testo letterario di K. W. , Fratello del nostro Dio. Dice il protagonista Alberto: "In ognuno di voi ho conosciuto la miseria e Lui. A lungo sono stati separati. Con tutte le forze ho cercato di avvicinarli. Perché prima tu eri un uomo misero e sulla tua miseria regnava la desolazione. Da quando ti sei avvicinato a Lui, la tua caduta si è trasformata in croce e la tua schiavitù in libertà … Il Figlio di Dio è tutta la libertà. Senza traccia di schiavitù … Egli è sempre. Egli raggiunge continuamente le anime. E riproduce in esse … Se stesso" [K. W. Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, 741].

E questo è tutto.