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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


MESSA CRISMALE 2000
Cattedrale 20 aprile 2000

1. "Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri. Oggi si è adempiuta questa Scrittura". Venerati fratelli, grandi sono i misteri che stiamo celebrando, poiché stiamo celebrando "l’adempimento di questa Scrittura". Quale? "Lo Spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione". Stiamo celebrando il grande mistero dell’adempimento di questa profezia in Cristo e in maniera partecipata in ciascuno di noi.

E’ il mistero dell’"unzione di Cristo" che in primo luogo noi celebriamo oggi: il mistero della sua consacrazione sacerdotale, e quindi della sua missione.

Venerati fratelli, non dovremmo mai stancarci di meditare o abituarci a meditare sul mistero della consacrazione sacerdotale di Cristo e quindi sul suo sacerdozio, dal momento che il nostro non è che una sua partecipazione.

L’elevazione ipostatica della sua umanità costituisce la sua unzione-consacrazione sacerdotale, ma essa deve essere sempre vista intimamente orientata alla morte sulla Croce ed alla sua glorificazione nella Risurrezione. "Incarnazione, morte e risurrezione sono considerate come i vertici, strettamente collegati tra di loro, di un unico ed identico avvenimento salvifico. L’incarnazione appare ordinata alla morte redentrice che, a sua volta, ha come conseguenza la risurrezione, la quale per l’uomo Gesù significa la pienezza della gloria. La glorificazione rappresenta il punto finale di quel cammino che Cristo percorre dalla incarnazione alla morte" [J. Alfaro, in Mysterium salutis, vol. 5, ed. Queriniana, Brescia 1971, pag. 870]. L’"oggi" di cui parla il Cristo come tempo in cui si compie la profezia, l’"anno di grazia del Signore" è costituito precisamente dall’intero Evento-Cristo, accaduto in tre momenti fondamentali: Incarnazione-Morte-Risurrezione. Origene, commentando il testo del Levitico in cui si descrive il giorno della espiazione (Lev 16), dice: "Se dunque considero che il vero pontefice, il mio Signore Gesù Cristo, in quanto posto davvero nella carne, era con il popolo tutto l’anno, quell’anno del quale Egli stesso dice: mi ha mandato a evangelizzare i poveri e a proclamare l’anno di grazia del Signore e il giorno del perdono, noto che una sola volta in questo anno, nel giorno della propiziazione, entra nel santo dei Santi: cioè quando, compiuta l’economia, penetra i cieli ed entra nel Padre, per renderlo propizio al genere umano e per pregare per tutti quelli che credono in Lui" [Omelie sul Levitico, CN ed., Roma 1985, pag. 215-216]. L’anno di grazia, l’anno giubilare è costituito dal tempo in cui dura la presenza visibile del Verbo incarnato in mezzo a noi e il giorno della salvezza è il giorno della sua morte-risurrezione.

Cerchiamo di cogliere con intelligenza di fede l’unità di quell’ "anno di grazia" che è costituito dall’Incarnazione-unzione del Verbo, dalla sua Morte e dalla sua Risurrezione; i singoli momenti infatti di questo tempo che compie la Scrittura profetica, possiedono efficacia redentiva solo nella loro intrinseca connessione. L’adempimento delle Scritture è già anticipato nell’Incarnazione; è realizzato nella Morte sulla Croce; è perfezionato nella Risurrezione. Il Verbo prendendo una natura in tutto simile alla nostra, già accettava per ciò stesso la morte. Prendendo una natura in tutto simile alla nostra, egli è libero della libertà propria dell’uomo, vale a dire di quella libertà che deve responsabilmente decidere sul significato ultimo della vita della persona e quindi della sua morte: "Entrando nel mondo" – scrive l’autore della Lettera agli Ebrei – "Cristo dice: tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato … Allora ho detto: Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà" [Eb 10,5-7].

La morte poi del Verbo incarnato sulla Croce è nel suo intimo oblazione che il Verbo incarnato fa di Se stesso al Padre; atto di obbedienza nella pienezza dell’amore. E’ l’unico, vero, perfetto sacrificio che esprime umanamente in forma perfetta la divina figliazione del Verbo; è l’atto nel quale ciascuno di noi è stato liberato dalla sua condizione di peccato.

La Risurrezione infine è stata l’accettazione da parte del Padre di questo Sacrificio di Cristo: nella Risurrezione l’atto di auto-donazione fatta dal Verbo incarnato sulla Croce ottiene dal Padre valore eterno. Il Risorto vive permanentemente, partecipa eternamente nella sua umanità alla Vita gloriosa del Padre, come Agnello immolato: "Vidi … un Agnello come immolato" (Ap 5,6). "Il Cristo risorto non muore più, ma l’atto per il quale si è offerto di passare attraverso la sofferenza e la morte per entrare nella gloria, permane anche nello stato glorioso, e anzi è proprio lì che esso trova la sua ultima perfezione, la sua piena realtà di sacrificio gradito e riconciliatore … Il suo sacrificio non ha bisogno di essere ripetuto, poiché esso è sempre attuale" [M.J. Nicolas, Théologie de la Résurrection, Paris 1981, pag. 335].

Questo è il sacerdozio di Cristo: sacerdozio unico, senza ascendenza, senza discendenza (cfr. Eb 7,3). Sacerdozio unico che si esprime in un sacrificio permanente, definitivo, irripetibile, indistruttibile: stat Crux, dum volvitur orbis.

2. Celebrando l’unzione di Cristo da parte dello Spirito, noi oggi celebriamo anche la nostra partecipazione alla stessa: la nostra unzione, il nostro dies natalis come "sacerdoti per il suo Dio e Padre". E’ un immenso mistero quello in cui cerchiamo di addentrarci, è un dono immeritato: il "dono" e "mistero" del nostro inserimento sacramentale nel sacerdozio di Cristo.

L’eterno sacrifico di sé, che Cristo compie in cielo, non è un sacrificio diverso da quello della Croce. E’ questo stesso sacrificio nella sua compiuta realizzazione. Esso non ha bisogno di essere attualizzato: è sempre attuale! Ha bisogno di essere reso presente in ogni luogo e tempo, perché sia dato ad ogni uomo di parteciparvi. Esso è reso presente nel sacramento dell’Eucarestia: sacramentum sacrificii Christi, come dice S. Tommaso. Il terzo prefazio pasquale dice: "Egli continua a offrirsi per noi e intercede come nostro avvocato: sacrificato sulla Croce, più non muore, e con i segni della passione vive immortale".

La liturgia eucaristica può quindi essere vista da due punti di vista. Vista dal cielo, essa è la manifestazione sensibile in questo mondo, nella nostra storia, dell’atto di offerta di se stesso che l’Agnello celebra in eterno; vista dalla terra, essa è la partecipazione dell’uomo all’atto con cui Cristo "continua ad offrirsi per noi e intercede come nostro avvocato". Non c’è dunque differenza sostanziale fra la liturgia celeste e la liturgia eucaristica: nell’eternità noi faremo ciò che ora facciamo quando celebriamo l’Eucarestia.

E’ dentro a questo grande mistero, "mysterium fidei", che è l’Eucarestia, che scopriamo la verità intera del nostro sacerdozio. In che modo, secondo la considerazione discendente, la celebrazione eucaristica è l’epifania del sacerdozio di Cristo ora glorioso presso il Padre? Certamente, noi pensiamo subito alle sante specie consacrate ad all’atto della transustanziazione del pane e del vino. Ed è corretto che noi pensiamo a questo. Ma non è sufficiente. L’Agnello immolato non si rende presente solamente nell’atto con cui si dona sacramentalmente; Egli si rende presente anche nella persona attraverso cui rende possibile la presenza sacramentale del suo dono, cioè la nostra persona. Nel sacrificio redentore di Cristo dobbiamo considerare infatti sia "il sacerdote che offre", sia "la vittima offerta", sia "l’atto dell’offerta".

Esiste pertanto in ciascuno di noi una configurazione permanente a Cristo, costituita dal carattere sacerdotale: una unione abituale della nostra persona alla persona di Cristo. Ed esiste una unione attuale della nostra volontà con quella di Cristo che rende possibile l’atto consacratorio, l’atto che transustanzia il pane e il vino. In forza di questa duplice unione-conformazione a Cristo, nell’essere [carattere sacramentale] e nell’agire [atto consacratorio], il Cristo si rende oggi presente nel suo essere lo Sposo che compie l’atto di donarsi per la sua sposa (cfr. Ef 5,25-26). Ciascuno di noi è il sacramento vivente di Cristo che dona se stesso per la salvezza dell’uomo. La grande teologia cattolica ha coniato una formulazione del mistero del nostro essere ed agire, che dà le vertigini: "in persona Christi". Questa formulazione non significa "a nome di Cristo" o tanto meno "nelle veci di Cristo"; ma una specifica, sacramentalmente reale identificazione col sommo, unico ed eterno Sacerdote. Siamo appunto il "sacramentum Christi-Sponsi Ecclesiae": nel nostro essere e nel nostro agire.

Ciò che ho detto vale senza dubbio in modo eminente di ciascuno di noi quando celebriamo l’Eucarestia. E da ciò deriva una conseguenza importantissima dal punto di vista della comprensione della nostra vita sacerdotale.

Ciò che è primo ed eminente in un dato ordine di cose, è principio, fondamento e spiegazione di tutto il resto. La celebrazione eucaristica è principio, fondamento e spiegazione di tutta la nostra esistenza sacerdotale. E’ principio perché da essa deriva tutto il nostro ministero; è fondamento perché su di essa la nostra esistenza sacerdotale deve permanentemente stabilizzarsi; è spiegazione perché la celebrazione eucaristica, in quanto espressione eminente del nostro "carattere" sacerdotale, è l’unica chiave interpretativa vera di tutta la nostra esistenza. Potremmo dire in modo sintetico: dobbiamo "dimorare" sempre dentro alla celebrazione eucaristica; essa è la nostra "dimora" abituale. Che cosa significa tutto questo?

Diciamo subito che non significa la riduzione del nostro ministero sacerdotale alla celebrazione dei divini Misteri. Non diremo mai abbastanza che la prima e più urgente espressione del nostro ministero è l’evangelizzazione, senza della quale la Chiesa non può semplicemente neppure cominciare ad esistere. Che cosa dunque significa "dimorare nella celebrazione eucaristica"? che cosa significa fare della celebrazione eucaristica la nostra dimora permanente? La risposta la troviamo precisamente nella rinnovazione delle promesse sacerdotali che faremo fra poco. Ed è un significato che attiene al nostro essere ed attiene al nostro operare.

3. Attiene al nostro essere. "Volete unirvi intimamente al Signore Gesù?" vi verrà chiesto fra poco. Ecco che cosa significa dimorare nella celebrazione eucaristica. Essere là dove è Gesù: Gesù è sull’altare col suo corpo offerto e col suo sangue effuso. Siamo chiamati a realizzare una tale unione con Cristo da eliminare qualsiasi scarto ed opacità nel nostro rapporto con Lui.

Essere con Gesù: con Gesù che dona Se stesso sull’altare per la salvezza dell’uomo. Siamo chiamati a realizzare una tale unione col Cristo da evitare qualsiasi "uscita" o interruzione dalla comunione che con Lui si è realizzata.

Essere in Gesù: in Gesù che si fa servo della dignità dell’uomo. Siamo chiamati a realizzare una tale unione in Cristo da vivere un’esperienza profondissima di immanenza stabile l’uno nell’altro. Oh che nel cuore di nessuno ci sia una tale tristezza da fargli pensare che queste sono vuote parole; e che la vita è ben altro!

Ma dire che la celebrazione dell’Eucarestia è la nostra dimora stabile ha anche un significato eminentemente pratico, che attiene cioè al nostro agire sacerdotale ed umano. Ed infatti la stessa domanda continua: "…rinunciando a voi stessi e confermando i sacri impegni che, spinti dall’amore di Cristo, avete assunto liberamente verso la sua Chiesa?"

Ho detto che la celebrazione dell’Eucarestia è l’unica chiave interpretativa vera di tutta la nostra esistenza. Il nostro dramma si trasforma in tragedia quando introduciamo nella nostra coscienza morale altre chiavi interpretative diverse da quella eucaristica. Da che cosa in ultima analisi dipende il progetto con cui ogni uomo configura la sua vita? Dall’idea che egli ha di libertà. Noi siamo ciò che pensiamo sia il significato del nostro essere liberi. Ora due sono le idee di libertà che si scontrano nel cuore di ogni uomo, quindi anche nel nostro cuore: libertà nella [obbedienza alla] Verità; libertà nella negazione della Verità. Nel rapporto fra libertà e verità dimora il dramma dell’umano esistere.

Quale è la verità del nostro essere? E’ la celebrazione dell’Eucarestia il luogo dove impariamo a rispondere a questa suprema domanda. "In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo … Cristo, che è il Nuovo Adamo, svela anche pienamente l’uomo a se stesso" [Cost. past. Gaudium et Spes 22]. E quindi l’uomo non può ritrovare pienamente se stesso se non attraverso un dono sincero di sé [cfr. ibid. 24,4]. La Verità del nostro essere sacerdotale è l’amore che fa di noi stessi un dono offerto per la salvezza dell’uomo: nel dono di Cristo, eucaristicamente sempre presente. Venerati fratelli, lascio a voi di meditare sulle implicazioni di questa definizione (eucaristica) di libertà come capacità di donarsi.

E’ davvero grande il "dono" e il "mistero" della nostra configurazione a Cristo in forza della quale in Lui e con Lui ciascuno di noi può dire in verità: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio … e predicare un anno di grazia del Signore". Amen

E voi, carissimi fedeli, abbiate sempre una profonda venerazione per i vostri sacerdoti: amateli di vero amore. Non rendete difficile il loro ministero con la vostra indocilità. Si realizzi nella reciproca comunione dell’amore quanto diceva di sé Agostino: "eo feror quem fero: sono sostenuto da coloro che io sostengo". Così veramente sia.