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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


GIORNATA DELLA PACE
1 gennaio 2001

1. " E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo". L’augurio che l’apostolo fa a noi all’inizio del terzo millennio, non è desiderio solamente umano. Esso è conseguenza di un fatto che l’apostolo sapeva già accaduto. È il fatto narrato dal Vangelo nel modo seguente: "venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: pace a voi". L’imperativo dell’apostolo "regni la pace nei vostri cuori" è conseguenza di un dono di grazia già fatto "vi dò la pace, vi dono la mia pace". La grazia della pace diventa compito della nostra libertà.

Dobbiamo notare accuratamente due dimensioni di questa grazia e, quindi di questo compito di pace.

Essa è la pace di Cristo, diversa dalla pace del mondo. La pace di Cristo è in primo luogo riconciliazione dell’uomo con Dio nella liberazione dell’uomo medesimo dall’ingiustizia.

Essa poi ha sia una dimensione interiore, "nei vostri cuori", sia una dimensione esteriore. Il cuore è nel vocabolario biblico il centro della persona, ciò da cui nascono giudizi, decisioni: i criteri dei nostri giudizi, il modo di vedere gli altri, le nostre scelte devono essere quelli della pace donata e voluta da Cristo. Ma questa pace non è solo interiore. Essa deve estendersi a tutto il corpo ecclesiale, custodendo tutti la pace gli uni con gli altri, come le diverse membra del nostro corpo conservano pace e concordia reciproca. Non siamo in pace con Dio, se non siamo uniti insieme come le membra di uno stesso corpo. Che cosa questo comporti concretamente è lo stesso apostolo ad insegnarlo: "rivestitevi… di sentimenti di misericordia, di bontà…".

2. "Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore". Anche il cuore in cui regna la pace di Cristo può essere turbato: anche se la pace donataci da Cristo può essere messa in pericolo. La ragione è che l’uomo può trovarsi in situazioni storiche nelle quali le attitudini di cui parlava l’apostolo sono difficili da custodire sia fra le persone singolarmente prese, sia fra i vari soggetti sociali e/o politici. Nel Messaggio che il S. Padre Giovanni Paolo II ha inviato in occasione dell’odierna Giornata Mondiale della Pace, richiama la nostra attenzione su un fatto che può rendere difficile la pace sia fra le persone, sia fra le varie comunità: la coesistenza fra culture diverse causata dall’immane fenomeno dell’immigrazione, dai vari mass-media e dalla mondializzazione dell’economia.

Il breve spazio di tempo concesso all’omelia e la sua natura liturgica non consentono un’esposizione completa degli orientamenti fondamentali che devono guidarci in questa condizione. Mi limiterò ad alcune osservazioni che ritengo particolarmente urgenti nella nostra situazione.

La condizione umana è collocata fra due poli, il polo dell’universalità e il polo della particolarità, in tensione continua tra loro. Infatti, in forza della stessa natura umana di cui siamo tutti partecipi, siamo spinti a sentirci, quali siamo, membri di un’unica grande famiglia. Ma la nostra comune natura umana non esiste fuori della storia, per cui ciascuno è necessariamente legato in modo più intenso a particolari gruppi umani: la famiglia propria in primo luogo, fino a quella realtà indicata dalla parola "nazione" o dalla parola "patria".

Data questa condizione umana, da una parte non può non esistere una diversità culturale anche assai profonda fra popoli e nazioni diverse, ma dall’altra parte "ad un’analisi attenta e rigorosa, le culture mostrano molto spesso, al di sotto delle loro modulazioni più esterne, significativi elementi comuni" [Messaggio ivi, n° 7,1], dal momento i supremi interrogativi e interessi ultimi dell’uomo sono identici in ogni cuore umano.

Essendo questa la condizione umana, nel confronto cui ogni giorno sempre più saremo sottoposti, con culture diverse dalla nostra, sono da evitare due atteggiamenti ugualmente sbagliati: intendere il rispetto alla cultura dell’altro come rinuncia alla propria identità; ritenere che tutte le culture siano ugualmente valide per lo sviluppo dell’uomo. Il primo atteggiamento comporta spesso compromessi con la propria coscienza morale, progressiva dilapidazione del patrimonio spirituale insito nella diversità ed infine rischio di omologazione a chi di fatto è più potente. Il secondo atteggiamento rinuncia in via pregiudiziale "ad interrogarsi circa gli orientamenti etici fondamentali che caratterizzano l’esperienza culturale ci una determinata comunità" [ivi, n° 8,2], dimenticando che esiste un criterio di giudizio di ogni cultura: il "suo essere per l’uomo e per la promozione della sua dignità ad ogni livello ed in ogni contesto" [l. c.].

Carissimi fratelli e sorelle, concludo con una riflessione che ritengo la più importante di tutte: solo in Cristo l’uomo è capace di vivere questa diversità senza divisioni nell’unità e questa unità senza rinunciare alla propria identità e senza cedere al relativismo cinico. Perché? Perché è Cristo il "punto di convergenza" nel quale il Padre ha progettato di ricapitolare tutto. Anziché ritenere che la missione cristiana sia insidia al dialogo fra le culture, al contrario solo essa fa vivere la condizione umana in una tensione feconda fra universalità e particolarità: in Lui infatti "non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, non c’è uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"[ Gal 3, 28].