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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Il messaggio di Gemma e l’esistenza sacerdotale
Ritiro ai sacerdoti
Lucca 13 febbraio 2003

Vorrei proporre alla vostra meditazione e preghiera una dimensione essenziale dell’esperienza di fede di S. Gemma in rapporto alla nostra esistenza sacerdotale. S. Gemma ci guida ad una intelligenza teologicamente più profonda del nostro sacerdozio.

Struttureremo la nostra meditazione in tre punti. Nel primo punto partiremo – come sempre si deve fare – dalla Parola di Dio: nel secondo punto rifletteremo sull’esperienza di Gemma; nel terzo cercheremo alla luce della parola di Dio, meglio capita per l’esperienza della santa, di riflettere sul nostro sacerdozio.

1. Esiste un testo paolino, che nonostante la sua obiettiva difficoltà interpretativa, è un testo chiave per comprendere la nostra esistenza sacerdotale: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" [Col 1,24; ma è da leggersi fino al v. 29]. Esiste dunque un "per voi" [pro vobis – upér emón] della sofferenza apostolica misteriosamente unito al "per noi" della passione di Cristo. Il verbo greco tradotto in italiano con "completo" significa originariamente "vicissim, ex mea parte suppleo; agitur quasi de re coniunctim facienda in qua duo vel plures suam quisque partem praestant" [M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Romae 1966, pag. 449]. Dunque, il senso letterale preciso è il seguente: la Redenzione dell’uomo compiuta nella passione di Cristo [il "pro nobis" umano – divino dell’agire del Verbo] si congiunge alla e si compie nella passione umana dell’apostolo [il "pro vobis" apostolico]. Più chiaramente. Il fine dell’opera di Cristo non è ancora stato raggiunto in quanto il Vangelo della grazia non è stato ancora annunciato a tutti, e pertanto la redenzione dell’intera creazione non si è ancora compiuta. Ciò che manca a quest’opera redentiva è che ora Paolo compia il suo ministero apostolico, soffrendo in questo ministero ciò che deve soffrire: nella sofferenza che implica il ministero sopportata "per voi" si realizza ora e in questo luogo il "per noi" della sofferenza redentiva di Cristo. [Se non vado errato questa è l’interpretazione prevalente nell’esegesi: cfr. per es. Ch. Masson, L’Epitre de s. Paul aux Colossiens, in Commentaire du Nouveau Testament X, Neuchatel-Paris 1950, pag. 111].

Abbiamo una conferma straordinaria in 1Cor 1,5: "… abbondano le sofferenze di Cristo in noi": La sofferenza dell’apostolo è la sofferenza di Cristo che si rinnova, in un certo senso, nell’apostolo stesso: la sofferenza redentiva.

E’ da notare che la sofferenza che l’apostolo prova non è un qualsiasi sofferenza. E’ la sofferenza che nasce dal ministero apostolico e lo accompagna abitualmente. Sono le prove che l’apostolo vive a causa delle potenze avverse alla predicazione del Vangelo.

La Parola di Dio dunque ci ha svelato un grande mistero: l’apostolo vive in sé – più precisamente nella sua sofferenza – il "pro nobis" dell’atto redentivo di Cristo.

2. Chiediamo ora a Gemma di farci penetrare in profondità questo divino insegnamento circa il nostro ministero apostolico.

Percorreremo uno dei tratto più impressionanti e caratteristici della sua esperienza di fede: la coscienza vissuta del peccato del mondo ["la grazia più grande che Gesù mi ha fatto": Autobiografia, pag. 253] connessa con una singolare partecipazione di Gemma alla passione di Cristo. È il "per noi" rivissuto da Gemma nella compassione con Cristo per il peso del peccato del mondo. Ma procediamo con un po’ di ordine dentro ad un mistero di grazia tanto profondo.

Mi limito ad un solo resto di Gemma: "Gesù stesso mi dice spesso che dovrei vergognarmi a farmi vedere, perché sono proprio la peggiore di tutte le sue creature" [Lett. 28, pag. 351]. È fuori di dubbio che Gemma si giudicava come impastata di peccato. [Si veda E. Zoppoli, La povera Gemma, ed. Il Crocefisso – Scala Santa, Roma 1957, pag. 667-675].

Questa convinzione intima pone un problema. Esso è posto dalla verità morale di Gemma: nella sua vita non c’è stato nessun peccato mortale. Ella ha custodito intatta la sua innocenza battesimale: come poteva dire e pensare senza mentire che era una grande peccatrice? Anzi, dire "dovrei vergognarmi a farmi vedere" davanti al Signore, quando – come insegna Paolo – il primo effetto della giustificazione è invece che "noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo" [Rom 5,1]? (E’ un problema, questo, teologico posto anche per S. Teresa del B. Gesù, mi sembra, e anche per S. Pio da Pietralcina). Né si può pensare a "pie esagerazioni" di persona squilibrata od ossessionata dall’idea di peccato: non sembra che Gemma si trovasse in una simile condizione.

Possiamo partire da un testo di S. Tommaso: "tutti gli uomini che nascono da Adamo si possono considerare come un solo uomo (unus homo), in quanto si trovano tutti nella natura che ricevono dal primo genitore … come anche Porfirio dice che per partecipazione i molti uomini sono un solo uomo" [1,2, q.81,a.1]. La concezione individualistica dell’uomo che ci ha pervasi fino alle radici del nostro essere, ci impedisce di cogliere la profonda verità di testi come quello di Tommaso, che per altro esprime una verità presente nei padri della Chiesa.

Pensati e voluti in Cristo, gli uomini sono liberati da questa "solidarietà nel male": mediante la fede ed il battesimo essi sono reintegrati nella loro originaria unità, in Cristo. Scrive ancora S. Tommaso: "il capo e le membra sono come una sola persona mistica. E pertanto la soddisfazione di Cristo appartiene a tutti i fedeli in quanto sue membra" [3, q.48,a.2; questa idea dell’una persona mystica è un’idea centrale nella teologia tommasiana della Redenzione].

Dunque l’uomo, ogni uomo si trova ad essere predestinato a formare in Cristo "una persona mystica" e nello stesso tempo di fatto nasce formando in Adamo "un solo uomo". Col Battesimo si ha il passaggio decisivo, dall’una all’altra solidarietà, nel senso preciso – come ha insegnato il Tridentino – che viene tolto il peccato originale, ma non la peccaminosità, l’inclinazione al peccato, il "fomes concupiscentiae".

Questi semplici accenni di antropologia teologica ci aiutano non poco a capire l’esperienza di Gemma. "… l’anima mistica, illuminata dalla divina grazia, afferra la realtà di siffatta corruzione profonda della natura causata dal primo peccato, come appartenente tutta a se stessa in quanto partecipe di tale natura. Di qui il sentimento di responsabilità e corresponsabilità, non solo dei propri, ma anche dei peccati altrui e non solo dei peccati passati ma anche di quelli futuri, di tutti, di quelli di tutti gli uomini: l’orrore per tutti gli errori ed orrori che l’uomo ha commessi e commetterà nella sua storia fino alla fine del mondo" [C. Fabro, Gemma Galgani testimone del soprannaturale, ed. CIPI, Roma 1987, pag. 147-148].

Ma l’appartenenza di tutta la corruzione umana a se stessa Gemma la vive, e la può vivere, solamente dentro alla sua identificazione colla passione redentiva di Cristo. E’ in Cristo e con Cristo che muore sulla croce, che Gemma vive "un’esperienza totale del peccato virtuale, che è esperienza reale del peccato reale in atto e non puramente del peccato possibile" [ibid. pag. 149]. Quanto più una persona è nel Cristo che muore sulla Croce, tanto più essa sente appartenere a se stessa tutta la corruzione umana: il peso di tutto il peccato del mondo. Donde il desiderio di Gemma di espiare il peccato, di prendere parte all’atto redentivo di Cristo.

La consapevolezza di essere partecipe al peccato di tutto il mondo e l’offerta di sé per la redenzione del mondo sono il concavo ed il convesso della stessa esperienza: l’esperienza della propria unione col Christus patiens "quasi una persona mystica", per dirla con Tommaso. L’esperienza di avere in sé tutti i peccati degli uomini, il vivere in senso interamente vero la solidarietà coi peccatori non sarebbe una esperienza autenticamente cristiana se non fosse generata dal nostro essere in Cristo, né potrebbe in alcun modo essere vissuta "per" i peccatori. E’ stata la stessa esperienza di Teresa del B. Gesù che visse in sé il grande peccato del mondo moderno: l’incredulità [cfr.G. Moioli, L’esperienza cristiana di Teresa di Lisieux, ed. Glossa, Milano 1998, pag. 155-169; pag. 169-173]. Ed è stata anche la grande esperienza di Silvano del Monte Athos che si sentì dire dallo Spirito Santo: "tieni il tuo spirito all’inferno e non disperare" [si veda E. Bianchi, O. Clément, I.Zizionlas, Silvano dell’Athos, ed. Quiqajon, 1999].

[E’ stata notata una profonda sintonia fra la meditazione teologica di S. Anselmo d’A. sul mistero della redenzione e l’esperienza mistica di Gemma: cfr. F.M. Léthel, Connăitre l’amour du Christ, ed. du Carmel, Venasque 1999, pag. 128-130].

3. Abbiamo ascoltato la parola dell’Apostolo. Abbiamo meditato come questa parola è stata vissuta da Gemma: la santa ci ha dato un’intelligenza più profonda della parola di Dio. Ed ora fermiamoci a meditare in questa luce sul nostro ministero sacerdotale.

Carissimi fratelli, il momento centrale della nostra esistenza sacerdotale è costituito dalla celebrazione dell’Eucarestia. Che cosa significa la centralità dell’Eucarestia? Che essa è la chiave interpretativa unica e completa di tutta la propria vita.

Ciascuno di noi vive e configura la propria esistenza alla luce dell’interpretazione che egli dà di essa. Interpretare significa capire il significato; significa rispondere alla seguente domanda: "quale è il significato della mia vita?". Esso è inscritto in ciascuno di noi dal carattere sacramentale impresso nella nostra persona dall’imposizione delle mani: carattere sacramentale che è in ordine alla missione. E così il cerchio interpretativo si chiude: la missione è il significato del nostro esserci. Cioè: esiste una coincidenza perfetta fra la nostra persona (la nostra vita) e la nostra missione. Questa esaurisce completamente la ragione del nostro esserci: non c’è altra ragione di vivere all’infuori di questa.

Qualora questa coincidenza non si avverasse, si aprono due alternative esistenziali davanti alla libertà del sacerdote: o vive una vita che ha contemporaneamente più significati, cioè una vita ambigua, o vive il proprio sacerdozio come un impegno assunto e da svolgere coscienziosamente, cioè una vita noiosa.

L’Eucarestia è la chiave interpretativa, unica e completa della nostra vita perché costituisce il contenuto della nostra missione: in Cristo e con Cristo servi della Redenzione dell’uomo.

Gemma ci introduce dentro ad una dimensione essenziale di questo servizio alla redenzione dell’uomo: il mysterium iniquitatis vissuto dentro al mysterium pietatis. Il "mistero della pietà" è la morte di Cristo sulla Croce, che lo introduce nella vita eterna: è questo mistero che noi celebriamo quando celebriamo l’Eucarestia. Ma questo "mistero della pietà" si oppone a quel "mistero di iniquità" nel quale si trova l’uomo che rifiuta l’amore di Dio. Questa opposizione, vissuta in modo straordinario da Gemma, è l’intima natura della nostra missione sacerdotale. "La Chiesa di continuo innalza la sua preghiera e presta il suo servizio, perché la storia delle coscienze e la storia delle società nella grande famiglia umana non si abbassino verso il polo del peccato col rifiuto dei comandamenti divini "fino al disprezzo di Dio", ma piuttosto si elevino vero l’amore, in cui si rivela lo Spirito che dà la vita" [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Dominum et vivificantem 48,1; EE/8, ].

Più precisamente, che cosa implica questo portare nelle nostre carni lo scontro redentivo fra il "mysterium iniquitatis" e il "mysterium pietatis"?

Poiché la coincidenza fra missione, vita e persona è posta in essere dalla nostra libertà, in primo luogo implica un modo di essere libero, di concepire e vivere la propria libertà che è denotato da due termini: espropriazione-obbedienza. La libertà è autopossesso, nella sua matura metafisica: in ordine a che cosa ultimamente? All’affermazione di sé attraverso un autonomo progetto di vita oppure attraverso un dono di sé stesso fino alla totale auto-espropriazione?

Poiché la coincidenza di cui sopra esige una precisa visione dell’uomo, essa ci chiede di verificare continuamente la risposta che noi diamo alla domanda sull’uomo: siamo convinti che il male per eminenza dell’uomo è il male morale, il peccato? Oppure che altri mali siano più gravi?

Poiché questa coincidenza di cui sopra ci pone in un preciso rapporti con l’uomo, con ogni uomo, il rapporto istituito da Cristo sulla Croce, il "nucleo" della nostra esistenza sacerdotale – questo ci insegna Gemma! – è costituito dal nostro "stare alla tavola dei peccatori" per dire la salvezza di Cristo. In una parola: il cuore del nostro vivere è l’amore redentivo che Cristo ci comunica e vuole rivivere in noi. E’ la carità del pastore che dona la vita: "perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa".