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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


LA LIBERTA’ MINACCIATA: è possibile essere liberi oggi?
APERTURA ANNO ACCADEMICO ISTITUTO DI SCIENZE RELIGIOSE
19 ottobre 1996

Che la libertà sia minacciata continuamente, è la nostra esperienza quotidiana. Che la minaccia alla libertà sia minaccia alla dignità della persona umana è una certezza che appartiene al nostro patrimonio culturale definitivamente acquisito. Tuttavia non sempre l’uomo è consapevole da quali minacce la sua libertà è messa a rischio. La mia riflessione si propone di richiamare l’attenzione su quella che ritengo essere oggi la minaccia più grave alla nostra libertà: grave sia in se stessa sia perché ad essa solitamente non si fa caso. Anzi: si afferma essere condizione necessaria della nostra libertà precisamente ciò che ne costituisce la sua minaccia più grave. E siamo così nel cuore della tragedia dell’uomo di oggi: ritenere che la sua libertà sia difesa dal peggior nemico della libertà. Difesa dal nemico: come se si ritenesse che l’HIV fosse ciò che costituisce il nostro sistema di immunizzazione. Ma voglio entrare subito in argomento, partendo dalla considerazione di un fatto che è sotto gli occhi di tutti.

1. La “relazione pura” ed il “soggetto utilitario”
 
 Partiamo dalla riflessione sull’istituzione matrimoniale, alla quale ho dedicato molto temo. Il sociologo A. Giddens ha pubblicato recentemente (1992) un libro ora tradotto anche in italiano (ed. Il mulino, 1995): La trasformazione dell’intimità - Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne. In che cosa precisamente consiste la trasformazione della vita coniugale? Nel fatto, egli pensa, che è divenuta una “relazione pura” che cosa significa? Ecco come Giddens descrive il fenomeno della relazione pura.
“Una situazione nella quale una relazione viene costituita in virtù dei vantaggi che ciascuna delle parti può trarre dal rapporto continuativo con l’altro. Una relazione pura si mantiene stabile fintanto che entrambe le parti ritengono di trarre sufficienti benefici come per giustificarne la continuità” (pag. 68).
Cioè: nella relazione pura si sta insieme fin che conviene; in essa l’unica cosa che conta è “la parità dei conti nel dare e nell’avere” (pag. 72).
 Ci si pongono qui due domande, l’una attinente all’istituzione matrimoniale e l’altra al concetto di “relazione pura” come tale.
 La prima domanda: si può oggi ritenere che il “vissuto” coniugale è descrivibile veramente come relazione pura? Sono convinto di sì. Basta pensare come sia ormai del tutto estranea alla mentalità dominante l’idea di definitività, di indissolubilità: una mentalità che ha esaltato l’idea di “fallibilità” di tutte le affermazioni umane (Popper) come condizione sine qua non della libertà, di “anarchismo” (anything goes, di Feyerabend) come sua regola d’oro. Del resto già nel 1982, N. Luhmann aveva descritto questo fenomeno della strutturale instabilità del matrimonio. “Così succede che, per mettersi al riparo da ogni delusione, non ci si sposa più, o, se lo si fa, lo si fa con la precisa convinzione che, qualora non andasse più bene, domani si può sempre cambiare. Persino il linguaggio sembra adeguarsi al nuovo clima; al cinema o in televisione, per fare un esempio banale, è sempre più raro che si senta qualcuno usare l’espressione «ti amo». E’ un po’ come se l’espressione avesse qualcosa di fastidiosamente definitivo; molto più prudente limitarsi a un temporaneo «con te sto bene».” (S. Belardinelli, Il gioco delle parti, ed. AVE, Roma 1996, pag. 52).
 La conseguenza di questa visione è che la vita di coppia è sottoposta ad una crescente contrattazione: si contratta ormai tutto o pressoché tutto. E pertanto si capisce che alla fine, la definizione stessa di matrimonio è diventata negoziabile. Cioè: non esiste più un matrimonio che possa essere esibito come naturale. E’ per questo che ormai molti, addirittura il Parlamento europeo, propongono che sia riconosciuto anche alle coppie omosessuali il diritto di mettere su famiglia, di non essere discriminate nella distribuzione degli alloggi rispetto alle coppie eterosessuali, di adottare figli o, se lesbiche, di farsi inseminare con le tecniche oggi a disposizione. Insomma, il matrimonio è sempre più basato su “contratti rivedibili”.
 Ho richiamato l’attenzione sul vissuto matrimoniale odierno non per fermarmi sopra di esso, ma in quanto esso è uno dei più significativi tests di un avvenimento spirituale che ormai ha investito non solo la persona dei coniugi, ma la persona come tale. Vorrei ora giungere ad individuare e descrivere questo avvenimento spirituale.
 Perché il vissuto coniugale è un test particolarmente significativo? Perché ... non è la Chiesa Cattolica a stabilire che per concepire un bambino ci vuole un uomo e una donna, ma è la natura. Mi spiego. L’istituzione matrimoniale è una delle realtà più “naturali” fra le istituzioni umane: “dal dì che nozze, tribunali ed are dieron alle umane belve d’esser gentili” ,dice il poeta. Ora se anche l’istituzione matrimoniale è sempre più ridotta a “relazione pura”, cioè ad una relazione senza più alcun “residuo di natura”, sempre più sul modello di un modello “fallibile” di vita, basato su una “negoziazione rivedibile”, questo significa che il movimento di rimuovere ogni limite naturale dall’agire personale ha forse toccato il suo traguardo finale.
 Tuttavia, un “residuo naturale” è rimasto. Ed infatti, come già dicevo, c’è una regola che precede ogni contrattazione coniugale: la parità dei conti del dare e dell’avere in termini di felicità individuale. Ogni relazione è costituita in virtù dei vantaggi che se ne traggono. Dunque, qualcosa di naturale permane ed è il desiderio di aver vantaggi dalla relazione costituita.
In sintesi, allora, potremmo dire: tutto è liberamente contrattabile in ragione ed in vista di un calcolo egoista di piaceri e dolori. E questa è esattamente la definizione di utilitarismo. Per utilitarismo infatti, si intende “ogni dottrina che si basi nell’affermazione che i soggetti umani sono retti dalla logica egoista del calcolo dei piaceri e dei dolori, dal loro solo interesse, o dalle loro preferenze; e che è bene che sia così, perché non esiste altro fondamento possibile delle norme etiche se non la legge della felicità, degli individui o della collettività degli individui” (A. Caillé, Critica della ragione utilitaria. Manifesto antiutilitarista nelle scienze sociali, ed. Bollati Boringhieri, Torino 1993, pag. 13).
Dicevo che il test coniugale è particolarmente significativo per farci capire un evento spirituale di enorme portata che sta accadendo. Quale evento: l’utilitarismo dominante. O, il che è lo stesso: l’avvento del soggetto utilitario.
 Fermiamoci brevemente a riflettere su questo avvenimento spirituale, partendo da una constatazione sulla quale A. Mc Intyre ha richiamato l’attenzione. La concezione della persona come soggetto utilitario ha potuto costituirsi ed imporsi come concezione dominante solo in una società, come la nostra, nella quale l’economia ed il mercato sono diventate pratiche sociali del tutto indipendenti. In una parola: in una società  nella quale non solo si pratica il mercato, ma che è divenuta società di mercato. Ma non è tanto sulla vicenda storica che vorrei attirare la vostra attenzione, ma sulla vicenda teoretica che rende possibile pensare che la persona umana sia esclusivamente  un soggetto utilitario.
 Ancora una volta (e mi scuso di ripetermi, ma il discorso nella sua obiettiva difficoltà, esige molta chiarezza) per soggetto utilitario intendo quella concezione secondo la quale la persona umana è “individuo che vuole solo soddisfare propri desideri, che ragiona per soddisfarli, che cerca il proprio vantaggio e concepisce la collaborazione con gli altri individui in funzione del proprio vantaggio” (G: Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale, ed. LAS Roma 1996, pag. 251).
 Ora è interessante notare che questa concezione dell’uomo era già stata affermata nella filosofia ateniese del V sec. A.C. ed era stata sconfitta, almeno a livello teoretico, da Platone ed ancora più da Aristotele. In che modo? “Platone ed Aristotele poterono filosoficamente prevalere mettendo a punto un procedimento argomentativo che consentisse di riconoscere quale è il vero bene, in opposizione al bene semplicemente apparente. Per nessuno dei due l’intelletto (nous) era semplicemente strumentale a desideri e passioni: ma poteva essere egemonico grazie alla sua capacità di conoscenza vera, capacità di scoprire e di riconoscere ciò che sono veramente la giustizia, le virtù, l’eudaimonia” (G. Abbà, cit. pag. 251). Se questa capacità è negata, la ragione non può avere alcun altro ruolo nella vita umana se non quella di destreggiarsi accuratamente nel calcolare i propri interessi, nel riuscire a raggiungere il proprio vantaggio senza eccessivi svantaggi. Può avere un ruolo diverso da questo? No, poiché la ragione non può conoscere una verità sul bene della persona che non sia il proprio utile. Persa questa capacità, la ragione perde la sua egemonia e diviene, da padrona, serva dei propri desideri ed interessi. A questo punto, era dato via libera alla nascita del soggetto utilitario e di elevare l’utilitarismo a sistema di spiegazione e legittimazione dell’agire umano individuale, sociale e politico.
 In conclusione. Nasce il soggetto utilitario in quanto viene negata alla ragione ogni “funzione” regolativa della condotta umana in vista di un bene (telos-fine) intrinseco alla medesima condotta. Viene alla stessa ragione attribuito esclusivamente la “funzione” strumentale di assicurare, mediante la condotta umana, soddisfacimento a desideri, passioni, interessi. Chiamo teoria utilitarista, la teoria che giustifica questa concezione della persona umana.

2. Il “soggetto utilitario” e la libertà

 Consentitemi di esprimere fin dall’inizio in sintesi ciò che andrò esponendo poi. Ne guadagnerà ancora una volta la chiarezza espositiva.
Il soggetto utilitario è completamente refrattario alla morale naturale come la concepisce la dottrina cristiana: è al di qua della distinzione fra bene e male, perché è al di qua della distinzione fra vero e falso.
 Ma una persona che si ponga in questa condizione si auto-distrugge, come soggetto libero.
 Quindi, la vera minaccia alla nostra libertà è costituita dall’utilitarismo oggi generalizzato: il soggetto utilitario non è un soggetto libero.
 Non è difficile dimostrare la completa refrattarietà del soggetto utilitario ad ogni proposta di morale naturale così come la concepisce la visione cristiana. Che cosa intendo per “proposta di morale naturale”? intendo quella visione della persona umana in forza della quale esistono ragioni per agire che sono logicamente indipendenti da preferenze, da desideri, da decisioni. Queste ragioni hanno le seguenti proprietà.
a) Sono ragioni che valgono prima di ogni decisione, convenzione: valgono in sé e per sé.
b) Sono ragioni che non si fondano su preferenze, desideri che la persona intende soddisfare.
c) Sono ragioni che si impongono a tutte le persone e valgono come norma comune a tutte e a ciascuna di esse.
d) Sono ragioni alla luce delle quali ciascuno può regolare i propri interessi, desideri e preferenze, anche rinunciando (ragionevolmente, cioè per un’intima esigenza di ragionevolezza) alla loro soddisfazione.
e) Sono ragioni che, pertanto, non possono mai essere violate adducendo come motivo della propria violazione, il proprio interesse o quello del gruppo sociale al quale si appartiene.
Ma con questo non è tutto detto. Quali sono concretamente queste “ragioni per agire” che ... (le cinque proprietà)? Sono i beni umani o il bene del soggetto umano come tale. Alla domanda che cosa si intende per “proposta di morale naturale”, possiamo rispondere nel modo seguente: è la morale che ordina e regola il desiderio umano in vista del bene umano personale e comunitario. Ora perché, il soggetto utilitario è refrattario a questa proposta? Perché il soggetto utilitario si trova  al di qua della distinzione bene-male? Perché si trova al di qua della distinzione vero-falso. Mi spiego.
 Se l’unica ragione per agire è il proprio interesse, le proprie preferenze, i propri gusti, la persona umana non ha più nessuna possibilità di giustificare qualsiasi scelta né personale (individuale) né sociale.
 Per definizione, nella teoria utilitarista i propri interessi individuali vengono accampati semplicemente come interessi che di fatto uno ha: essi non devono, non possono avere giustificazioni ragionevoli. Stando così le cose, allora non c’è ragione né per soddisfarli né per non soddisfarli, né per osservare né per non osservare quel supposto ordine morale costruito sulla base di essi. La loro soddisfazione trova spiegazione solo nella spinta, nell’impulso che essi imprimono nel soggetto verso il loro (degli interessi) compimento. Non trovano spiegazione altrove. Cioè: soddisfacendoli, la persona è mossa ad agire, ma non muove se stessa ad agire. Non ha cioè una ragione per agire.
 Ancora, non ha alcuna giustificazione razionale un ordine, un complesso di regole viste solo come prodotto di una convenzione, in vista della cooperazione di individui che hanno solo interessi. Una convenzione che non sia basata su criteri normativi prevî alla convenzione stessa, non vincola: non c’è legge che mi obblighi ad osservare le leggi.
 Dunque, il soggetto utilitario è totalmente impermeabile alla proposta morale. E qualcuno potrebbe dire: tanto peggio per la morale, perché io mi tengo gli interessi! La cosa non si risolve così facilmente poiché chi si colloca in questa situazione del “tanto peggio per la morale, perché io mi tengo gli interessi miei” si auto-distrugge come soggetto libero. E siamo così al “cuore” della nostra questione, che può essere ancora una volta riformulata nel modo seguente: se ci riduciamo ad essere un “soggetto utilitario” possiamo dirci ancora soggetti liberi, oppure in questo caso il dirci liberi diventa un puro flatus vocis? La nostra risposta è che soggetto utilitario e soggetto libero sono contrari a che l’uno distrugga l’altro.
 Partiamo da una constatazione alla quale si giunge attraverso un’attenta meditazione sul nostro agire. E la constatazione è la seguente. La persona umana non riesce a ridursi di fatto nei panni della soggettività utilitaria. Sono vestiti troppo stretti. Non può ridursi ad essere solo questo perché non può fare a meno di aspirare alla verità: la persona non può vivere senza aspirare a conoscere la verità. E questa aspirazione non consente più di ridurre la ragione ad essere pura ragione strumentale alla soddisfazione dei propri desideri ed interessi.
Se infatti la ragione fosse solo strumento di soddisfazione dei propri interessi, la costituzione di un ordine sociale si ridurrebbe ad uno scontro sul piano della pura forza, di opposte ideologie. Ora, il fatto che ci si “renda conto” di questo, che si cerca almeno di dimostrare che questo assunto è falso, significa già che si è usciti da una ragione puramente strumentale, che la persona è orientata profondamente alla verità. In sostanza è ciò che già Agostino notava: se tu dici che non esiste verità, affermi già che esiste la verità! La verità non si lascia confutare.
Ancora. Se l’unico movente ad agire è l’impulso che viene dalle proprie preferenze, interessi e/o gusti, non esiste più una ragione per seguire l’una piuttosto che l’altra; non esiste più una ragione ultimamente decisiva per richiedere un rispetto agli altri, alla realizzazione degli altri. Perché il loro interesse deve valere più degli interessi miei? I loro gusti più dei miei? Il parlare di “inviolabile dignità” di ogni uomo non avrebbe più senso. Ora, noi osserviamo che questa concezione di fatto non guida l’uomo: le dichiarazioni dei diritti della persona stanno lì a dimostrarlo. Nel momento stesso in cui lo nega, l’uomo afferma il suo orientamento ad una verità su un bene umano che non è riducibile al semplice soddisfacimento dei suoi interessi o gusti. Afferma che questo bene deve guidare e orientare il suo agire, essere la ragione per cui agire, anche come regola di governo dei suoi istinti, gusti ed interessi: il proprio interesse cessa di essere sovrano e viene regolato secondo il bene umano.
In una parola: la persona umana non può non essere orientata a perseguire la ricerca del bene umano, a riconoscerlo ed ad aderirvi. Ma questa è precisamente la definizione di libertà: capacità di sottomettersi al bene, riconoscendolo non per altra ragione che la sua verità, aderendovi non per altra ragione che la sua bontà. Più brevemente, Agostino: per questo siamo liberi, perché ci sottomettiamo solo alla verità.
Allora, a questo punto, non è difficile vedere che la vera minaccia alla nostra libertà, è che la persona umana decida di restringere la sua misura dentro una soggettività puramente utilitaria. Decide cioè di restringere la misura del suo orientamento alla verità alla ricerca di ciò che serve o non serve alla soddisfazione dei propri gusti. Di restringere la misura del suo orientamento al bene alla ricerca di ciò che è utile. Di restringere la misura del suo orientamento al bello alla ricerca di ciò che è piacevole.
Certamente: anche questa è una decisione libera: la decisione libera di rinunciare alla propria libertà. E’ la situazione paradossale già descritta da Dostoevskij: l’uomo ha oggi  un solo modo di affermare che egli è libero, il suicidio. E’ la situazione in cui ci troviamo: una ricerca esasperata di regole di vita, tutte ugualmente estranee all’uomo che la persona oggi ha scelto di essere. Non può sopravvivere senza morale; egli è radicalmente refrattario ad ogni morale.

Conclusione
 
Mi ero proposto di indicarvi quale è la minaccia più grave che oggi incombe sulla nostra libertà. E’ stato un percorso faticoso. La conclusione è stata: la minaccia più grave è la riduzione della persona umana a soggetto utilitario; è l’utilitarismo diffuso.
Tutto ciò che ho detto può essere riassunto da quanto ha scritto H. Arendt: “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione ... fra vero e falso non esiste più” (in Le origini del totalitarismo, ed. Comunità, Milano 1967, pag. 649).