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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Liberazione ed etica
1984

 


La recente Istruzione richiama l’attenzione sul fatto che la teologia della liberazione, di cui essa parla, finisce coerentemente col togliere ogni consistenza all’etica (cfr. VIII, 9 ). Donde due domande: perché questo discorso è costretto, alla fine, a negare significato al problema etico? dove si colloca l’etica in una corretta teologia della liberazione? Cercherò di rispondere schematicamente a queste due domande. 

 

1. - L’inconsistenza dell’etica

 

L’accusa è grave ed a prima vista sembrerebbe infondata: il tema della giustizia non è uno, se non il tema centrale di questa teologia? e la giustizia non è uno dei valori etici più alti? Ma non sono qui in questione le intenzioni dei teologi della corrente di cui parliamo, ma la logica interna del discorso.

Ora, date certe premesse è inevitabile che si concluda alla negazione dell’etica. Quali premesse? la prima è la stessa definizione di verità. È un punto centrale, poiché, come scrisse san Tommaso, “il bene presuppone il vero” (cfr. De Veritate q.21 a.3). Dal momento in cui — più o meno consapevolmente — non si definisce più la verità come propria del pensiero che si adegua alla realtà — che corrisponde all’essere — , ma definisco come vero ciò che dimostro come tale attraverso una prassi storicamente efficace, l’agire dell’uomo è misurato solo dalla potenza effettiva di cambiare una data situazione, che esso mostra di possedere. Ed è in questa corruzione del concetto di bene-male in quello di efficace-inefficace che si annida la distruzione completa dell’etica. Si può verificare questa corruzione da due punti di vista, l’uno che parte da una distinzione classica non solo nel pensiero cri stiano, e l’altro che mostra la contraddittorietà di questa posizione. Il primo punto di vista si fonda su un’esperienza umana quotidiana. Le realizzazioni dei nostri dinamismi operativi si collocano su due livelli, fondamentalmente: quello del “fare” e quello del l’“agire”. La prima realizzazione connota l’operare umano in quanto produttivo di determinati effetti, come per es. costruire una casa, scrivere un libro e così via. La seconda connota l’operare umano in quanto realizzazione della persona umana in quanto tale: questa, infatti, si realizza nei suoi atti. Orbene, la distinzione fra il fare e l’agire è essenziale: si tratta di due modi essenzialmente diversi di realizzare i propri dinamismi operativi. Infatti, mentre con il suo fare l’uomo risponde e soddisfa a determinati bisogni (il bisogno di cibo, di una abitazione, per esempio), con il suo agire, l’uomo risponde alle esigenze — 0, meglio, ai valori — che lo caratterizzano come persona. Di conseguenza, la regola fondamentale del fare è che l’effetto prodotto sia realmente in grado di soddisfare il bisogno per cui è sta to prodotto (una casa è costruita per abitarvi), la regola fonda mentale dell’agire — la norma suprema della moralità — è che fra la verità della persona umana e l’atto ci sia una corrispondenza (ciò che scolasticamente si chiama: la conformità alla ragione retta). Donde, ancora, il problema fondamentale di chi fa è un problema di efficacità, mentre il problema fondamentale chi chi agisce è un problema di fedeltà (alla verità dell’uomo). Si potrebbe anche dire con una formula sintetica: il fare è per l’avere: l’agire è per l’essere.

So che mi si potrebbe obiettare: ma i bisogni a cui il fare dell’uomo cerca una risposta, non sono forse bisogni umani? E siamo nel cuore del problema. Per essere molto brevi: sono certamente bisogni umani, ma proprio perché tali ed in quanto tali, la loro soddisfazione, mediante il fare, deve rispettare l’uomo, non riduttivamente considerato, ma l’uomo nella verità intera del suo essere-persona. L’avere è al servizio dell’essere. Più semplicemente. Se per avere una casa in cui abitare, uccido chi ne possiede due perché non me ne vuole cedere una, certamente ho raggiunto efficacemente il mio scopo e posso soddisfare il mio bisogno di avere un’abitazione. Ma è la mia umanità come tale che è tradita. Ho certamente una casa, ma sono meno uomo: sono stato efficace, ma non sono stato buono.

La critica che molti teologi della liberazione rivolgono alla dottrina sociale della Chiesa, di non essere efficace, di essere astratta, è significativa. Essa mostra che hanno ridotto l’operare umano ad una sola dimensione, quella del fare.

Ma questa riflessione ci conduce ad una seconda. Questa riduzione, che, come si vede, annulla semplicemente l’etica, è tragicamente contraddittoria. Tragicamente, ho detto. Non si tratta solo di un errore teoretico, ma di un errore che porta alla distruzione dell’uomo.

Se, infatti, è buono quell’agire che dimostra di essere storica mente efficace, sorge inevitabilmente una domanda: efficace in ordine a che cosa? Si risponde: in ordine alla creazione di condizioni sociali più umane. Ma in base a quale criterio si discerne il “più umano” dal “meno umano” o dal “non umano”? I casi sono due: o si presuppone una verità dell’uomo che precede e giudica il suo agire, una verità indipendente dalla storia, tale che può giudicare non-umano un fare anche storicamente efficace; o si nega questo presupposto ed allora sarà inevitabilmente “più umano” quell’azione o quel processo che riesce ad avere ragione di altri, perché più forte (è bene ciò che vince). Non occorre essere molto addentro alla pubblicistica liberazionista per rendersi conto che è questa seconda risposta che è affermata. Donde, la continua affermazione della conflittualità, della necessità di “prender partito”, della lotta per avere un potere e così via.

Siamo alla distruzione totale non solo del messaggio cristiano, ma di ogni etica semplicemente naturale: cioè dell’uomo. Una distruzione tanto più pericolosa, perché si veste ancora e sempre del linguaggio dell’etica, ma svuotandolo totalmente dal suo interno. L’ipocrisia dell’errore è l’ultimo omaggio che esso rende alla verità.

 

2. - La consistenza dell’etica

 

L’etica, intesa non come una particolare disciplina filosofica o teologica, ma come il retto agire della persona, è la stessa verità dell’uomo che esige di essere riconosciuta, fatta, dalla libertà della persona medesima. Le sue esigenze, incondizionate ed assolute, attraversano tutto l’operare libero dell’uomo — anche il suo fare — e penetrano in ogni settore dell’attività libera della persona e gli danno la loro “forma” umana in senso forte. In questo senso, anche l’attività economica, l’attività politica sono sottomesse all’etica e questa ne condiziona interamente il valore propriamente umano. “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?” dice il Signore. Che giova costruire un sistema economico che funzioni, se per esso ed in esso l’uomo perde se stesso? La consistenza che attribuiamo all’etica è il segno della consistenza e del valore che attribuiamo all’uomo.

Lo so: con ciò che diciamo, contestiamo un “dogma” della cultura moderna, quello che ha scorporato la politica dal sapere etico (Machiavelli) e l’economia dall’ordine morale (“gli affari sono affari”). Ma è necessario chiederci, al punto cui siamo arrivati, quale è stato il costo in umanità di questa operazione.

La soluzione vera del problema che è alle origini della teologia della liberazione deve essere cercato altrove: nella ricostruzione di una unità del soggetto umano che subordina ogni suo fare alle esigenze della sua intera verità di soggetto, di persona. Sono sempre più convinto che questo sia il problema culturale centrale. La contrapposizione weberiana fra un’etica della responsabilità — che sarebbe propria del politico — ed un’etica della convinzione — che sarebbe propria del Santo — non è solo dannosa all’uomo, ma è falsa: è dannosa, perché falsa.

Se quello è il vero nodo di tutta la problematica, allora la prima esigenza è quella di un’educazione della coscienza morale nella verità. Ora l’educazione della coscienza morale raggiunge il suo scopo quando crea nell’uomo un acuto senso, quasi una sorta di spirituale istinto, della distinzione irriducibile tra il bene ed il male e la convinzione che il destino dell’uomo e della storia si colloca dentro lo scontro fra l’uno e l’altro, senza possibilità di essere neutrali. Questa è la prospettiva veramente educativa, Non quella che tende a dare all’uomo la convinzione che la distinzione più irriducibile è quella fra oppressori ed oppressi, fra classe dominante e dominata, e che sia questo lo scontro decisivo per l’uomo.

Ed in questa prospettiva l’azione della Chiesa si articola in due momenti imprescindibili. Attraverso il suo Magistero essa deve continuamente dire all’uomo la verità sull’uomo: la verità intera e le esigenze etiche che da essa sgorgano. Nei suoi laici, deve tendere a tradurre queste esigenze nel sociale. Per costruire un’economia giusta, non è sufficiente né essere giusti né essere economisti: è necessario essere unitariamente economisti giusti; occorre possedere scienza-coscienza. Quando si operasse una dissociazione, l’uomo potrà anche avere di più, ma certamente sarà meno (uomo). Ed il vero problema non è che tutti abbiano di più, ma che tutti siano di più.