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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


DIO E RAGIONE: nemici, estranei, alleati?
Milano, Università Cattolica, 6 maggio 2009


"Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere": così disse Benedetto XVI nell’incontro con il mondo della cultura al Collegio dei Bernardini a Parigi. Queste parole ispireranno in un certo senso tutta la mia riflessione.

1. La domanda da cui parto è la seguente: è ragionevole guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime? O per formulare la stessa domanda col vocabolario tommasiano: è vero che assieme alla inclinazione a "vivere in società", l’inclinazione a "conoscere la verità su Dio" è costitutiva della natura umana?

Ho trovato la via della risposta in una singolare Operetta morale di G. Leopardi: Il dialogo di Malambruno e di Farfarello. Come è stato detto, questa pagina leopardiana sembra essere il riassunto del Faust di Goethe [così G. Fighero; Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico?, Ed. Ares, Milano 2008, pag. 39].

Il protagonista, Malambruno, chiede ad un piccolo demone, Farfarello, di renderlo felice. Poiché questi risponde che non rientra nelle sue possibilità, "Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge", Malambruno chiede che almeno gli venga tolta l’infelicità di non poter essere felice pienamente. E qui troviamo il punto culminante del dialogo.

"Malambruno – Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità?
Farfarello – Se tu puoi fare di non amarti supremamente.
M. – Cotesto lo potrò dopo morto.
F. – Ma in vita non lo può nessun animale: perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.
M. – Così è.
F. – Dunque amandoti necessariamente del maggior amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possa fuggire per nessun verso di non essere infelice".
M. – Né anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felice né pago.
F. – Nessuno veramente.
M. – E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerà di essere infelice.

[G. Leopardi, Operette morali,
ed. La Biblioteca di Repubblica, Milano 2004, pag. 416].

È ragionevole guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, perché è ragionevole chiedersi se esista una risposta adeguata, soddisfacente al "desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo". È ragionevole, per non lasciare inevasa la domanda di felicità.

Queste affermazioni meritano di essere rigorosamente pensate e dimostrate.

È originariamente evidente ad ogni persona che esiste nel proprio cuore il desiderio di una felicità senza limiti e senza termini. Come è ugualmente certo che ciascuna persona umana compie scelte diverse, ritenendo che ciò che sceglie sia la risposta al suo desiderio.

Da questa duplice costatazione possiamo forse dedurre che non esiste la risposta alla domanda di felicità, ma solamente tante risposte quante sono le persone? Che non esiste il bene in sé e per sé ma solamente tanti beni quanti sono le persone che vi aspirano? Se così fosse, la ragione non dovrebbe prefigurare un "universo di cose ultime", ma solo di cose penultime. O meglio: dovrebbe semplicemente affermare l’esistenza del finito, giudicando la ricerca dell’"oltre il finito" una malattia della ragione. Dobbiamo dunque guardare le cose più in "profondità"; leggere più attentamente la nostra esperienza quotidiana di "fili d’erba assetati".

Nessuno potrebbe scegliere un bene come risposta alla sua domanda di felicità, se non facesse un confronto fra ciò che desidera e ciò che quel bene gli offre; se non giudicasse quel bene alla luce del suo desiderio. Dunque pre-esiste nella nostra mente un’attesa, una domanda sensata che implica una nozione di felicità alla luce della quale noi giudichiamo i singoli beni che si offrono come risposa all’attesa, come realizzazione concreta di quella nozione. Come scrive Agostino: "… prima di essere felici, nelle nostre menti è tuttavia impresso il concetto di felicità, per mezzo di questo infatti sappiamo e diciamo risolutamente e senza alcuna esitazione che vogliamo essere felici" [Il libero arbitrio II, IX 26; in Tutti i dialoghi, Bompiani ed., Milano 2006, pag. 1015].

La domanda dunque che la ragione non può evadere è se a questo "concetto di felicità" impresso nelle nostre menti corrisponda o meno una realtà che sia capace di saziare il desiderio dell’uomo, oppure se esso sia una sorta di "idea regolatrice" delle nostre scelte e nulla più. In questo senso la ricerca di un "ultimo" oltre il "penultimo", di un "bene sommo" oltre ai "beni limitati" è un compito da cui una ragione fedele a se stessa non può esimersi.

Ma vediamo meglio l’intimo rapporto fra il desiderio di una beatitudine piena e l’uso di una ragione che guarda oltre le cose penultime e si mette alla ricerca di quelle ultime, oltre i "beni limitati" alla ricerca del "bene illimitato". Di una ragione cioè che intenda verificare se esista il bene corrispondente al desiderio.

Ci aiuta a cogliere questo rapporto una riflessione agostiniana, che troviamo nel libro delle Confessioni [X, 20,29].

Agostino in ordine alla felicità distingue le persone umane in tre classi: chi già la possiede; chi non la possiede, ma ha la speranza di possederla; chi né la possiede né spera di possederla. Soffermandosi a considerare la condizione di questi ultimi, Agostino, notando che anch’essi continuano comunque a desiderarla, conclude che in qualche modo l’hanno conosciuta [nescio qua notitia], altrimenti non potrebbero desiderarla. La donna del Vangelo non si metterebbe alla ricerca della dracma perduta, se non avesse la possibilità di riconoscerla qualora la trovasse; non avrebbe la possibilità di riconoscerla, se non ne conservasse la memoria.

Il desiderio della felicità, di una pienezza di essere, non nasce semplicemente da una mancanza, ma da un possesso accaduto e non più reale. Diciamo: nasce da una presenza, non da una assenza [cfr. X, 20,29: "Eppure lo possediamo, non so in che modo"].

"Dove dunque" si chiede Agostino "e quando ho fatto esperienza della mia felicità, per poterla ricordare e amare e desiderare?" [X, 21,31].

Ciò di cui ho esperienza quotidiana è un’attrazione. È l’attrazione il medium quo della conoscenza. Ciò che attrae infatti è presente nell’attrazione che esso suscita in chi è attratto. È questo il modo proprio della presenza della causa finale nelle persone. La felicità non può essere quindi semplicemente la realizzazione di se stesso [cfr. De civitate Dei 8,8; NBA V,1, pag. 559-560], ma non può neppure consistere in un’alterità irrelata, in un qualcosa di totalmente altro.

È questa originaria esperienza; è questa presenza assente/assenza presente la sorgente che muove la ragione a cercare il conosciuto Ignoto. E nello stesso tempo funge da bussola, da criterio per riconoscere l’Ignoto conosciuto quando si rendesse presente, dandomi la possibilità di stringermi a Lui ed esserne posseduto.

Ci aiuta a capire questa condizione esistenziale dell’uomo la famosa pagina agostiniana della lettera a Proba, dedicata alla preghiera.

In essa Agostino dice che la preghiera è in fondo lo stesso desiderio umano in quanto chiede a Dio di essere adempiuto: desiderio e preghiera si coimplicano. Ma non è questo il punto che ci interessa.

Procedendo in questa coimplicazione, Agostino si chiede: ma che cosa desideriamo, alla fine? una sola cosa: la vita beata, cioè la felicità piena.

In realtà però non sappiamo che cosa è, in che cosa consista non dico formalmente, ma realmente e sperimentalmente. È questo il significato profondo delle parole dell’Apostolo: "non sappiamo che cosa sia conveniente domandare" [Rom 8,26].

Ma nello stesso tempo, ci occorre non raramente di dire che la vita beata, la vita vera non può essere quella che stiamo vivendo. È un "non sapere" che ha in sé una "sapere": sa che esiste una vita beata, ma che non è questa. "Est ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia" [Ep. 130, 15.28; NBA XXII, 104. Il S. Padre Benedetto XVI nell’Enc. Spe salvi 11-12 fa un suggestivo commento di queste pagine agostiniane].

"Il desiderio di sapere" che definisce la ragione "porta dentro di sé la notizia di ciò che compie il desiderio, e la custodisce nella memoria come un gusto, un sapore (sapere, appunto) per ciò che è vero, o almeno per ciò che non inganna" [Felicità e desiderio (a cura di C. Esposito et al.) ed. di pagina, Bari 2004, pag. 81].

Scrive G. Marcel: "Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino […] verso una meta della quale possiamo dire al tempo stesso e contraddittoriamente che la vede e che non la vede. Ma l’inquietudine è appunto come la molla interna di questo progredire e qualunque cosa dicano coloro che pretendono di bandirla in nome di un ideale tecnocratico, l’uomo non può perdere questo sprone senza divenire immobile e senza morire".

Concludo questo primo momento della nostra riflessione. Nelle strutture stesse della persona si trova la presenza di un desiderio che dà origine a tutta la fatica del ragionare. Come educatori o siamo in grado di far prendere coscienza limpida di questa struttura desiderante dell’humanum o perdiamo il nostro tempo.

2. Nel già citato discorso di Parigi il S. Padre riferendosi alla vicenda di Paolo ad Atene all’areopago [cfr. At 17,23], scrive:

"Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio".

Non a caso Benedetto XVI parla di "umiltà della ragione", anzi di "umiltà dell’uomo". È necessario che al momento dell’incontro col fatto dell’autodonazione di Dio in Cristo, il desiderio che ha messo l’uomo in ricerca, venga come capovolto per non ridurne il dono di Dio alla sua misura. Initium sapientiae timor Domini, ci ricorda la Scrittura.

Questo capovolgimento – meglio: conversione del cuore – sussiste nelle seguenti attitudini.

La prima è la totale ricettività, passività del cuore di fronte all’infinita libertà del Dono. Ireneo parla di un’argilla che si lascia semplicemente plasmare [cfr. Adv. Haereses IV, 39,2].

La seconda è, coerentemente, la totale disponibilità del soggetto nei confronti dell’immenso Oggetto. Il vocabolario cristiano ha un’espressione molto forte: obbedienza del giudizio. Espressione che al contempo denota l’attitudine della fede che si fa immanente alla ragione – il giudizio è l’atto della ragione – e l’elevazione della ragione alla misura della Verità divina.

Come scrive profondamente S. Ilario di Poitiers: "ut dum infínitas aeternae in eo est potestatis, omnem terrenae mentis amplexum potestas aeternae infinitatis excedat" [De Trinitate I, 13; SCh 443, pag. 230].

Ma l’uomo può far collassare questa tensione del suo essere? Può odiarsi fino al punto, direbbe il diavoletto leopardiano, da restringere l’uso della sua ragione alla ricerca delle cose penultime? Ciò può sicuramente accadere.

Vorrei ora tentare un breve profilo fenomenologico di questo collasso spirituale, oggi purtroppo non raro. Parto da una considerazione di fondo.

La ricerca di Dio – quaerere Deum – come sommo Bene costituisce un vero e proprio "salto", in quanto comporta un superamento della sfera della realtà connaturale, proporzionata alla nostra ragione: Ens dicitur id quod finite participat esse, et hoc est proportionatum intellectui nostro, scrive Tommaso [Comm. Super librum de Causis, lect. 6, Pera, n. 175, pag. 47a].

È un salto; ma nello stesso tempo è volontà di dare piena soddisfazione alla ricerca di felicità piena, non fermandosi ai beni limitati.

Perché l’uomo si rifiuta di fare questo "salto" e di ascoltare fino in fondo la domanda della ragione e del cuore? Per trovare una risposta a questa domanda mettiamoci alla scuola di alcuni grandi diagnostici del cuore umano.

A questa domanda Agostino risponde perché gli uomini "si adattano a ciò che possono e ne sono paghi, perché ciò che non possono non lo vogliono quanto basta per riuscirci" [Confessioni X, XXIII, 33]. L’intuizione diagnostica di Agostino viene sviluppata, ritengo in modo insuperabile, da S. Kierkegaard in La malattia mortale.

In quest’opera egli distingue una disperazione per debolezza ed una disperazione per ostinazione.

La disperazione per debolezza è l’attitudine di chi "non vuole essere se stesso" [in Opere, Sansoni ed., Firenze 1972, pag. 648b]; la disperazione per ostinazione è l’attitudine di chi "vuole essere se stesso" "strappando l’io da ogni rapporto con una potenza che l’ha posto o staccandolo dall’idea che esista una tale potenza. Con questa forma infinita l’io vuole disperatamente disporre di se stesso e creare se stesso" [ibid. pag. 656 b]. Mentre il primo dispera per l’eterno, il secondo rifiuta la necessità di avere un fondamento diverso da se stesso. Nell’un caso come nell’altro c’è una curvatura completa in se stessi, dovuta o a debolezza ["non sono in grado di andare altre il finito, e quindi non esisto per l’Eterno"] o ad ostinazione ["non voglio neppure prendere in considerazione il bisogno e la possibilità di una felicità eterna"]: "io basto a me stesso". Ovviamente "io" può denotare sia il singolo sia il genere.

È l’arco della speranza, alla fine, che misura la forza con cui il pensiero si lancia verso la realtà. Su questo Agostino ha visto giusto.

E a questo punto una profonda pagina di S. Tommaso ci fa vedere dove alla fine l’amicizia e l’alleanza della fede colla ragione viene siglata.

Nel quarto libro della Summa contra Gentes Tommaso espone i motivi della Incarnazione del Verbo. Il primo motivo è il seguente: data l’infinita distanza che separa l’uomo dal bene sommo, l’uomo era insidiato dalla disperazione di poter giungere al suo possesso, e dunque alla beatitudine piena. Questa condizione avrebbe potuto indurre nell’uomo una sorte di tedio: "circa inquisitionem beatitudinis tepesceret". Dio allora ha unito a Sé la natura umana "ad spem hominis in beatitudinem sublevandam". L’unione ipostatica afferma di fatto la possibilità per l’uomo di unirsi a Dio [cfr. S C G IV, cap. 54 ]. La ragione ora può tendere a Dio perché Dio si è mostrato nella carne umana: si è proporzionato, adeguato alla nostra misura perché noi potessimo proporzionarci alla sua. Nessuna ragione ha osato tanto quanto la ragione guidata dalla fede. La fede infatti percepisce nel Verbo incarnato e la risposta alla domanda umana di beatitudine e la capacità che viene offerta all’uomo di raggiungerla.

Abbiamo forse toccato il fondo della questione dell’esistenza. Infatti, da una parte, la beatitudine non può essere vera se non si realizza in un atto della persona, se non è opera della persona. Ma dall’altra parte, essa – la beatitudine – si pone al di là delle possibilità dell’uomo. La libertà per essere, deve in fondo riceversi da un Altro [teologicamente: deve essere liberata dalla grazia].

Possiamo avere una qualche comprensione di questo che è il "nodo" di ogni destino umano, se riflettiamo al rapporto della persona col [fare il] bene. Mi limito ad un accenno.

Il fatto che in ordine alla scelta del bene la mediazione della coscienza sia imprescindibile non significa che essa sia la sorgente ultima del bene che attraverso essa conosco. Il fatto che l’uomo possa muoversi verso il bene solo auto-determinandosi verso di esso, non significa che egli sia la fonte ultima dell’ordine morale. Che solo l’uomo possa decidere se fare il bene o compiere il male, non significa che solo esso possa decidere che cosa è bene/ che cosa è male. "Dipendere dalla verità" e "dipendere da sé" non si annullano a vicenda. La verità circa il bene mi lega; ma essa mi lega nell’unico modo in cui lo può fare nei confronti dell’uomo: mediante il giudizio della sua ragione. Sempre e solo col mio atto di conoscere la verità circa il bene, lego me stesso. "La coscienza morale rivela … la dipendenza dalla verità insita nella libertà dell’uomo. Questa dipendenza … è la base dell’autodipendenza della persona, ossia della libertà nel suo significato fondamentale, della libertà come autodeterminazione" [K. Woitila, Persona ed atto, Rusconi, Milano 1999, pag. 371].

Se si spezza questa tensione fra "dipendere dalla verità" e "dipendere da sé" si riduce l’uomo o ad uno schiavo o ad un esperimento inutile.

Concludo. È nella tensione verso il Bene sommo, verso la beatitudine piena, che la persona si avverte come soggetto trascendentale della verità circa il Bene sommo. È già nel plesso dei vari beni limitati come di beni che partecipano del Bene illimitato, che la persona è messa in tensione nella ricerca di quel Bene infinito che solo può saziare la sua sete di felicità. Come ha scritto E. Montale: "sotto l’azzurro fitto/del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / "più in là"" [in Ossi di seppia, in Tutte le poesie, ed. Mondatori, Milano 1990, pag. 73].

Chi fa "collassare" la propria ragione dentro la prigione delle strutture finite dello spazio e del tempo, si impedisce di concepire e cercare un Bene sommo. Agisce certo contro la ragione impedendole di esplicarsi in tutta la sua potenzialità, ma agisce per ciò stesso contro l’amore di Dio che desidera comunicarsi all’uomo ed esserne corrisposto.

Alla fine, il fondamento ultimo della propria soggettività e la costituzione di questa fondazione è una scelta che implica l’impegno totale della libertà. Chi è più ragionevole, don Chisciotte o Sancho Panza?