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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


L’umanesimo cristiano di fronte ai dubbi e alla potenza della scienza
Lendinara 26 maggio 1999

Nel titolo che avete voluto dare alla vostra riflessione, si parla di "potenza della scienza " e di "dubbi della scienza". E noi ci domandiamo: che cosa pensare di fronte alla potenza della scienza? Di fronte ai dubbi della scienza? Dobbiamo procedere con molto ordine nella nostra riflessione, data la sua complessità, dividendo in tre tempi il nostro discorso.

1. LA POTENZA DELLA SCIENZA

Vorrei cominciare coll’attirare la vostra attenzione sul significato di questi due termini "potenza e "scienza", che per noi oggi sembrano coincidere, ma che per sé non sono affatto sinonimi.

Col termine "scienza" noi connotiamo un modo di conoscere la realtà dotato di precise proprietà. Voi lo sapete! Ci sono tanto modi di conoscere la realtà. Quando io dico: "il sole sorge alle ore …", esprimo una conoscenza del movimento del sole così come mi appare agli occhi. E’ una conoscenza raggiunta attraverso l’esercizio dei propri sensi. Quando un uomo dice: "quanto mi vuol bene mia moglie!", esprime la conoscenza di un avvenimento, l’amore della propria sposa; una conoscenza – tutti voi lo capite bene – che non è solo frutto dell’esercizio delle proprie facoltà sensibili. Una delle modalità con cui l’uomo conosce la realtà, è la modalità scientifica. Quali sono le caratteristiche proprie della conoscenza scientifica? Sono due: il rigore e l’oggettività. Mi spiego.

Il rigore è quella proprietà del sapere scientifico per cui ogni affermazione deve risultare giustificata e logicamente correlata alle altre.

L’oggettività è quella proprietà del sapere scientifico per cui qualsiasi affermazione può essere controllata, verificata da chiunque attraverso il compimento di determinate operazioni.

Ciò può bastare, almeno per ora, per dire che cosa significa conoscere "scientificamente" la realtà.

Come vedete, descrivendo il sapere scientifico non ho mai parlato di "potere" o di "potenza". Per introdurre nel nostro discorso questo concetto, dobbiamo prima spiegare accuratamente un altro termine: il concetto di tecnica. Dobbiamo fare particolarmente attenzione a quanto sto per dire.

Parlando di scienza, ho sempre parlato di conoscenza scientifica. Cioè: la funzione specifica e primaria della scienza è la conoscenza della realtà. La tecnica invece indica la capacità, l’abilità di realizzare un progetto. Mentre cioè la scienza si propone di conoscere qualcosa, la tecnica si propone di fare qualcosa. "La scienza è essenzialmente una ricerca della verità, la tecnica consiste essenzialmente nell’attuazione di qualcosa di utile" (E. Agazzi, Il bene il male e la scienza, ed. Rusconi, Milano 1992, pag. 72). E di fatto, ci sono ottimi tecnici che sono scientificamente ignoranti; ci sono grandi scienziati che sono pessimi tecnici.

Non è difficile però capire che esistono rapporti molto stretti fra scienza e tecnica. Rapporti bi-direzionali. Da una parte, infatti, è praticamente impossibile fare qualcosa se non sulla base di precise conoscenze: la tecnica presuppone sempre una qualche conoscenza scientifica. Dall’altra parte, oggi il raggiungimento delle conoscenze scientifiche esige sempre più una sofisticatissima strumentalizzazione tecnica: la scienza presuppone sempre la tecnica.

Ora, tenendo ben presenti queste due attività umane, la scienza e la tecnica, che cosa è accaduto ad un certo momento della nostra storia occidentale? Un avvenimento di straordinaria portata culturale. Esso consiste nell’aver costituito una certa coincidenza della scienza colla tecnica, concependo la scienza sempre più come tecnologia. Mi spiego.

Il rapporto dell’uomo colla natura viene sempre più pensato come dominio dell’uomo sulla natura, che si esprime attraverso l’uso, la sottomissione e la manipolazione della stessa. La conoscenza scientifica non è più esercitata perché mossi da un disinteressato desiderio di saper la verità, ma è sempre più considerata come un sapere utile che deve dare all’uomo un dominio sempre più grande sulla natura. E quindi, alla scienza così concepita si chiede sempre più non solo di spiegare i fenomeni, ma di progettare anche strumenti che sulla base di conoscenze ed esperienze già acquisite, consentano all’uomo quel dominio.

"In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze".

[F. Bacone, Nuovo organo, Libro II, §52, ed. UTET, Torino 1986, pag. 795]

In breve: il sapere scientifico è sempre più considerato uno strumento operativo. "Scientia est potentia" (F. Bacone, ibid. pag. 552): la scienza è potere di fare, e di modificare la natura in vista dei progetti dell’uomo.

Abbiamo finalmente raggiunto il significato di quella congiunzione "potenza della scienza". Essa ha nella nostra cultura un senso molto preciso: l’impresa scientifica è semplicemente uno dei momenti nei quali si esplica la libertà dell’uomo o – il che equivale – la libera progettazione che egli fa di sé stesso. Libera significa che è una progettazione la quale in linea di principio non assume più l’immodificabilità della natura come suo limite. La scienza è al servizio del fare libero dell’uomo: un fare che, almeno in linea di principio, non riconosce limiti.

I DUBBI DELLA SCIENZA

Questo modo di concepire l’impresa scientifica da qualche tempo ha perduto la sua innocenza: ha cioè cominciato a dubitare che questa potenza della scienza fosse veramente in grado di portare l’uomo a quel regno della libertà che era nel desiderio. Cerchiamo di individuare questi dubbi: dai più superficiali, a quelli più profondi, fino a quello radicale che ormai si è piantato dentro alla coscienza dell’uomo di oggi.

I primi dubbi sono indicati coll’espressione oggi ben nota a tutti di "problema ecologico". Essi nascono dalla certezza ormai ampiamente condivisa di non poter dominare, usare a manipolare la natura senza limiti. Non voglio fermarmi ulteriormente su questo punto.

Ho parlato diverse volte di "natura" durante la mia riflessione. Abbiamo finora pensato, dicendo "natura", all’ambiente di cose, piante ed animali (l’ecosistema, si chiama oggi), che costituisce la "casa" dell’uomo. E l’uomo? che ne è dell’uomo dentro a questo modo di concepire l’impresa scientifica? Rispondendo a questa domanda, incontriamo un insieme di dubbi ben più profondi e drammatici di quelli che costituiscono il problema ecologico.

Che ne è dell’uomo dentro a questa "potenza della scienza"? per rispondere a questa domanda devo richiamare molto brevemente il fatto che nella nostra cultura si è sempre più instaurata una visione dualista della persona umana. Per visione dualista intendo quella visione secondo la quale il corpo non è parte costitutiva della persona: la persona non è, ma ha il suo corpo. Da questa visione ne è progressivamente derivato l’idea che il corpo umano rientra pienamente fra gli "oggetti" della tecnologia scientificamente progettata e realizzata: l’uomo o quanto meno una sua dimensione costitutiva, viene esposto e reso disponibile alla potenza della scienza.

Ma procediamo ulteriormente. Accanto al progressivo imporsi di questa visione dualistica della persona, e non indipendentemente da essa, la soggettività umana subisce una progressiva riduzione, nel senso seguente. Si nega che la volontà dell’uomo sia capace di volere un bene che non sia la propria individuale utilità e/o piacere; si nega che la nostra ragione sia capace di "vedere" ragioni per agire che non siano riconducibili a ragioni di utilità propria. Questa riduzione conduce l’uomo ad una tragica confusione: la confusione dei fini del proprio agire con i risultati del proprio agire stesso. il bene cioè consiste nel raggiungere effettivamente un risultato previsto, voluto e desiderato. E qui precisamente ci reincontriamo con la "potenza della scienza": essa è lo strumento ciò che serve alla realizzazione dei propri desideri. Se desidero, e ciò che desidero è tecnicamente raggiungibile, lo posso esigere. Il desiderabile e il tecnicamente possibile è ciò a cui ho diritto: il saper-poter-fare è criterio del lecito/illecito. Ed è questa un’ulteriore e più profonda "esposizione" dell’uomo alla potenza della scienza.

Ma tutto questo ha anche una dimensione politica. La ricerca scientifica esige oggi ingenti investimenti di denaro. Essa pertanto esige delle scelte circa l’allocazione di risorse sempre comunque limitate: chi decide? Se teniamo presente ciò che abbiamo detto finora, voi capite che si tratta di una domanda che ha enorme rilevanza sulla nostra vita di ogni giorno. Non solo, ma – più semplicemente – oggi la potenza della scienza della comunicazione è tale fa indurre i desideri che sono funzionali a chi detiene quella potenza. Cioè: non si producono più beni per soddisfare desideri, ma si producono desideri per soddisfare le esigenze della produzione.

Ancora nel 1949, K. Jaspers scriveva: "dopo l’azione esercitata con la tecnica sulla natura, l’uomo si trova a dover subire la reazione del procedimento tecnico sulla propria essenza, che viene inevitabilmente modificata" (Origene e senso della storia, ed. Comunità, Milano 1965, pag. 130-131). Cioè: alla domanda "che ne è dell’uomo?" dobbiamo rispondere che sempre più egli si trova sottoposto a quella potenza che aveva voluto per essere libero. E siamo così arrivati a quello che ho chiamato il dubbio radicale: il reale ha in sé e per sé un senso [una verità – una bontà] oppure esso è a totale disposizione dell’uomo? cioè: esiste una verità oppure solo un "decidere che sia vero"? esiste un bene in sé e per sé oppure solo un utile-dannoso e/o un piacevole-spiacevole? La "potenza della scienza" in quanto si è trasformata in "ideologia tecnologica" ci ha portato a porre questa domanda radicale: l’uomo è il custode di un senso originario oppure è il creatore di ogni significato? Che cosa significa essere liberi?

L’UMANESIMO CRISTIANO

Come dobbiamo rimanere dentro a questa situazione spirituale? Vorrei leggervi due testi, il primo è di Platone ed il secondo di Aristotele.

"Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento ad esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica."

[Platone, Leggi, Libro X 903c]

Dal canto suo Aristotele:

"Sarebbe assurdi pensare che la politica o la saggezza siano le forme più alte della conoscenza, a meno di non pensare che l’uomo sia la realtà di maggior valore nel cosmo […] Di fatto ci sono realtà di natura ben più divina dell’uomo, come, ad esempio, i corpi celesti di cui è costituito il cosmo"

[Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro VI, 1141a-b]

 

Gesù ha detto: "che cosa vale per l’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?" l’umanesimo cristiano ha al suo centro l’affermazione che, come scrive S. Tommaso, "persona est quod est perfectissimun in ratione entis". Non esiste nulla in questo universo creato che possegga un valore superiore ad una persona. Ciascuno di noi ha un valore in sé e per sé: ha valore cioè di fine, non di mezzo. Donde viene ad ogni uomo questo valore infinito? infinito qui significa che non può essere misurato, e quindi che non può essere contro-bilanciato con nessun’altra realtà.

All’uomo questo valore deriva dal suo essere immediatamente relazionato, direttamente finalizzato alla comunione con Dio stesso: nella conoscenza e nell’amore.

In questa visione, chiediamoci: in che modo l’uomo potrà difendere la sua dignità? Non rinunciando mai alla sua capacità di attingere ala verità ultima dell’essere; non estinguendo mai in sé il desiderio di ciò che è bene in se e per sé. Nel momento in cui rinuncio all’uso delle capacità della mia ragione secondo la loro misura intera; nel momento in cui restringo la misura del mio desiderio; se taglio il "cordone ombelicale" che mi connette alla Verità, alla Bontà, alla Bellezza, la mia libertà si riduce ad essere spontaneità e la mia ragione si riduce ad essere la serva della mia spontaneità.

A causa del "collasso" che l’uomo ha fatto subire alla sua ragione e alla sua volontà, si è completamente esposto, cioè si è messo a totale disposizione della "potenza tecnologica". Una disponibilità che può assumere o il volto della sottomissione o il volto della ribellione (= ideologia neo-pagana ecologista). Lo schiavo è colui che si sottomette o si ribella. L’uomo libero né si sottomette né si ribella, perché non re-agisce ma agisce: essere liberi significa essere "causa di se stessi" (S. Tommaso d’A.).

Quali sono i segni di questa condizione di schiavitù? Sono almeno i seguenti tre: il predominio dell’erotismo sull’amore; il predominio dell’impersonale sul personale, il predominio del previsto sulla novità imprevedibile.

Dunque: riallacciare la propria persona alla Verità, alla Bontà, alla Bellezza. Solo così l’impresa tecnologica rientra nei suoi limiti, poiché solo così siamo ancora in grado di chiederci: "che cosa è giusto fare con la tecnica?" e non essere destinati a chiederci: "che cosa può fare la tecnica di noi?" (cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, ed. Feltrinelli, Milano 1999, pag. 715).

Conclusione

La vera chiarezza nella vita, il sapere la verità sulla esistenza comincia se sappiamo distinguere, differenziare il valore delle cose. Se per noi tutto, alla fine, ed il contrario di tutto ha lo stesso valore, noi saremo portati a fare le nostre scelte sulla base delle reazioni emotive o di chi ha il potere dei mass-media. E la vera differenza fra le "cose" non consiste nella differenza fra "ciò che mi piace – non mi piace" [= mi procura – non mi procura piacere], e/o nella differenza fra "ciò che mi è utile – ciò che mi è dannoso". Questa differenza la sanno cogliere anche gli animali. La vera differenza è fra "ciò che è vero - ciò che è falso", fra "ciò che vale in sé e per sé – ciò che non vale in sé e per sé". E’ questa differenza che ci fa essere veramente liberi; e questa differenza la sa scoprire solo una persona che non rinuncia ad usare la sua ragione fino in fondo. Senza censurare mai nessuna domanda. Senza pre-giudicare come devono essere le cose, imponendo noi alla realtà la nostra misura.