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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


INCONTRO VOCAZIONALE GIOVANI
Seminario, 8 aprile 2008


1 "Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro". Che cosa sia il cristianesimo, è detto narrando questo avvenimento: Gesù in persona si accosta all’uomo per camminare con lui. Quando, infatti, "giunse la pienezza dei tempi, Dio inviò il suo Figlio nato da donna" (Gal. 4,4). L’accostamento, la vicinanza è accaduta originariamente nell’Incarnazione, cioè nel momento in cui il Verbo che era presso il Padre divenne partecipe della nostra stessa natura umana, per cominciare ad essere anche presso l’uomo. Accostamento, vicinanza che entra dentro alle pieghe della vita: può "camminare con loro". "Camminava con loro": ha vissuto con noi la nostra stessa vicenda umana, fino alla morte che ne era il definitivo sigillo.

Ma a quali uomini concretamente Gesù in persona si accosta per camminare con essi? Pascal scrive che gli uomini si possono dividere in tre classi: uomini che cercano e trovano, uomini che cercano e non trovano, uomini che né cercano né trovano. I primi sono ragionevoli e felici, i secondi sono ragionevoli ed infelici, i terzi non sono né ragionevoli né felici. A quale di queste tre categorie appartengono i due discepoli di Emmaus, ai quali Gesù in persona si accostò e coi quali si mise a camminare?

Il testo evangelico ci dà la risposta. Esso attribuisce ad uno di essi un "volto triste". Non solo; ma essi affermano che la speranza si è estinta nei loro cuori: "noi speravamo". La tristezza – dice colla sua solita profonda semplicità San Tommaso – è l’attesa di un bene assente. La speranza è la tensione verso un bene futuro ritenuto raggiungibile. E’ scomparsa la speranza; è rimasta la tristezza: uomini che hanno cercato e non hanno trovato.

Ecco chi è l’uomo a cui Gesù in persona si accosta, col quale Egli cammina: un uomo triste, senza speranza. Anche per voi, cari giovani, l’insidia forse più grave alla vostra voglia di vivere, è di perdere la speranza. Oppure di "accorciare" la sua misura.

Ci si accontenta di navigare a vista, di ridursi dentro la misura del provvisorio; di negare alla propria libertà l’audacia di fare scelte definitive. La debolezza del pensare genera sempre una debolezza nella libertà. Ho parlato di "accorciare la speranza". Ascoltando il discorso dei due discepoli, sembra di risentire l’unica saggezza che il pagano aveva alla fine trovato: "spem longam reseces".

Ma che cosa ha spento la speranza nel cuore dei due discepoli di Emmaus? Il fatto che un "profeta potente in opere e parole, davanti a Dio e a tutto il popolo" sia stato ucciso. Cioè: la vera, unica ed incontrovertibile obiezione alla speranza è la morte del giusto. E siamo credo al "nodo centrale" della pagina evangelica: ciò che fa di questa pagina uno dei vertici di tutta la Rivelazione.

Essi dicono: "noi speravamo che fosse lui a liberare Israele". "Liberare Israele": dire il contenuto della speranza con queste parole aveva un significato preciso. Era ridonare ad Israele quella pienezza di vita vissuta sulla terra data da Dio ad Abramo, perché vivesse in essa nella piena libertà del servizio divino. In fondo, i profeti avevano nutrito questa speranza, non un’altra. E quindi il tema della giustizia era "centrale" nella loro predicazione: la giustizia verso Dio e dell’uomo verso ogni uomo. O in un qualche modo il Regno di Dio e la sua giustizia doveva già cominciare ora ed in questo mondo, o esso era mera utopia. Ma se proprio il "profeta giusto" era ucciso? Ecco l’immane tristezza che era nel cuore dei due discepoli.

Dunque, è a questo uomo che Gesù in persona oggi si accosta per camminare con lui. E che cosa fa Egli con questo uomo? Con questo uomo che non lo riconosce e non lo può riconoscere perché rassegnato ad un destino di tristezza, fa due cose.

La prima: "spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a Lui". Egli cioè inizia col fare luce, col fare chiarezza: col donare la Verità: " per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla Verità" (Gv. 18, 37) .

Ma di quale "verità" si tratta? Notiamo due particolari del testo evangelico. E’ una verità che ci viene dalla spiegazione delle Scritture, cioè dono di una Rivelazione; è una Verità che consiste nella manifestazione di un disegno divino: "non bisognava che...". E’ la scoperta di un significato insito dentro alla vicenda umana, inscrittovi dal Padre. Ed il significato consiste nella morte e risurrezione di Cristo. Cioè: nella morte e Risurrezione di Cristo è accaduto "qualcosa", un avvenimento che è avvenuto dentro a questo mondo e che nello stesso tempo ha scardinato le strutture di questo mondo, perché da esso è stato scacciato il peccato ed il suo principe.

La seconda: "prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro". Celebra la Santa Eucaristia. Il cuore durante l’insegnamento ardeva: la Rivelazione è sommamente corrispondente ai desideri veri del cuore; è sommamente ragionevole. Il bene atteso, ma fino ad allora assente, comincia a farsi presente e quindi la tristezza comincia a cambiarsi in gioia. Ma gli occhi si aprono solo dentro alla celebrazione dell’Eucaristia. Perché? Perché solo nell’Eucaristia tu incontri la persona di Cristo e non solo il suo insegnamento. E’ Lui stesso che ti incontra. La celebrazione liturgica trascende anche la S. Scrittura, perché essa ti conduce all’Origine.

E riuscirono a fare ritorno a Gerusalemme: e di lì parte la missione cristiana.

2. Cari giovani, Gesù questa sera vi ha chiamato a questo momento di preghiera, di riflessione, di amicizia.

Ma per farvi una domanda: "hai mai pensato seriamente di essere il segno vivente di Gesù che si accosta e cammina con gli uomini oggi?".

Il "segno vivente" è il sacerdote; è la vergine che ama Cristo con cuore indiviso, e diventa madre di ogni uomo che soffre.

Gesù ha bisogno di uomini e donne che gli diano anche oggi la possibilità di "accostarsi all’uomo e camminare con lui".