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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Il peccato: riflessioni filosofico-teologiche
Scripta theologica, aprile 1988


«Lo sai che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che il delitto non esiste, e quindi non esiste nemmeno il peccato, ma esistono solo degli affamati?»
(F. Dostojevskij, I fratelli Karamazov, parte seconda, Libro V: Il grande Inquisitore

 

 

Può sembrare strano che si tenti anche un approccio filosofico al tema del peccato, sembrando esso di esclusiva pertinenza della riflessione teologica. Tuttavia, l’esperienza del male è un’esperienza dell’uomo come tale: un’esperienza che lo provoca ad una riflessione, in primo luogo razionale. Del resto, tutti i “pensatori essenziali” (da Platone e Heidegger) hanno affrontato questo tema con esemplare serietà speculativa.

 

1. La divisione fondamentale

 

L’esperienza che l’uomo ha del male è complessa, nel senso che i mali di cui l’uomo soffre sono molteplici. È un male una malattia, come è un male l’errore in cui l’intelligenza umana può cadere; è un male l’angoscia psicologica che pervade, in certi momenti, la nostra psiche, come è un male mentire. È possibile fare ordine concettuale in questa complessità? È il compito preliminare e primo di ogni seria riflessione razionale. Ma il problema di “mettere ordine” esige di individuare il “criterio-principio” dell’atto ordinante una disordinata complessità. Tralasciando considerazioni più generali, non necessarie al nostro assunto, questo “criterio-principio” può essere individuato nella costituzione ontologica della persona umana.

Dalla constatazione della pluralità delle attività si induce la pluralità della dimensioni costitutive della persona umana. L’uomo è corpo, è psiche, è spirito. Il male può inerire a ciascuna di queste tre dimensioni essenziali della persona. Può essere male fisico, male psichico, male spirituale: sia il corpo, sia la psiche, sia lo spirito può ammalarsi. Come è ovvio, allo studioso di etica interessa esclusivamente la terza categoria di mali. A un’analisi, tuttavia, più attenta, scopriamo che anche in questo ambito ci si incontra con una pluralità di mali, di natura ben diversa fra loro.

Una premessa, prima di tentare quest’analisi dei mali spirituali. La riflessione etica guadagna dalla riflessione metafisica una verità assai importante per tutta la nostra problematica: è la verità della convertibilità trascendentale dell’essere col bene. La prima conseguenza di questa convertibilità è che un ente capace di agire, è buono — raggiunge la pienezza del suo essere, la sua compiuta perfezione — quando mette in atto le sue facoltà operative.

Ritorniamo ora al nostro tema. I dinamismi spirituali, le facoltà operative dello spirito sono due: conoscere e volere. E, pertanto, il male spirituale può insediarsi sia nell’intelligenza sia nella volontà: sia l’una che l’altra possono “mancare” (deficere) nel loro mettersi in atto. I due mali sono specificamente diversi? Una fenomenologia dei medesimi induce a ritenere la diversità specifica. Tentiamone una descrizione comparata.

La nostra ragione raggiunge la sua pienezza quando compie l’atto del giudicare. Ora ciò che induce la ragione all’assenso proprio del giudizio è l’evidenza intrinseca del rapporto fra un soggetto e un predicato. Fino a quando questa luce — la luce dell’evidenza — non investe la ragione, essa non giudica: opina, dubita o altro ancora, che è diverso dal giudicare. Ma è pure vero che, posta di fronte all’evidenza, la ragione non è libera di assentire o non assentire. È costretta ad assentire. Il rifiuto di assentire, in questo caso, non sarebbe più un atto della ragione, così come non sarebbe un atto della ragione assentire in mancanza dell’evidenza intrinseca. E, infatti, in ambedue i casi, interviene l’altra facoltà spirituale, la volontà, a “disturbare” l’attività della ragione.

Ben diversamente vanno le cose colla facoltà volitiva. Essa è del tutto libera nella sua scelta, che è l’atto per eccellenza della volontà. Tutto questo ci porta ad una constatazione di incalcolabile portata etica. Il male della volontà è un male voluto, è un male scelto o, il che è lo stesso, l’atto con cui sceglie il male è un atto di volontà, mentre — come abbiamo visto — l’atto della ragione che assente o non assente in assenza o in presenza dell’evidenza, non è un atto della ragione: è un atto irragionevole, mentre, nell’altra facoltà spirituale, è un atto volontario libero. In questo senso si può e si deve dire che il male inerente alla volontà è un “positivo”, mentre il male inerente alla ragione è semplicemente un “negativo” (un non-atto della ragione). La cosa ha sempre costituito una specie di scandalo per la ragione speculativa, una sorta di croce gettata sulle sue spalle, dalla quale essa ha sempre cercato di sbarazzarsi (da Socrate a Hegel). Come è possibile che un male sia una grandezza positiva? Prima di rispondere a questa domanda, risposta che consiste precisamente nella scoperta della vera natura del male della volontà, è utile fermarsi ancora su questo confronto, percorrendo un’altra strada.

È utile, anche in questo caso, richiamare brevemente, a modo di premessa, la tesi metafisica classica della distinzione reale della natura dalla persona. È ovvio che si tratta di una distinzione fra un tutto (la persona) e una delle sue parti: ciò non toglie nulla alla realtà della suddetta distinzione. Anzi, il mistero dell’Incarnazione ha dato una conferma unica di questa tesi: la natura umana di Cristo è singolare e perfetta in quanto natura, ma essa non è persona, sussistendo nella divina Persona del Verbo. Da questa tesi metafisica derivano alcune conseguenze che ci saranno teoreticamente assai utili.

La prima conseguenza è che nell’uomo esiste un’attività naturale che possiamo realmente distinguere dall’attività personale. Presupponendo ora la riflessione metafisica sul costitutivo dell’essere-persona, possiamo dire che la distinzione consiste nel fatto che l’attività personale è quella causata ultimamente dalla volontà libera della persona, mentre l’attività naturale è quella causata da un principio operativo non libero. Data l’unità sostanziale dell’uomo, anche l’attività naturale può divenire personale per partecipazione, cioè in quanto è governata dalla libera volontà della persona. All’unità sostanziale corrisponde — può/deve corrispondere — il nesso operativo: l’attività naturale è personalizzata.

La seconda e, per il nostro problema, più importante conseguenza è che esiste una perfezione naturale che possiamo realmente distinguere dalla perfezione personale. Si ha la prima ogni qualvolta si perfezionano le potenze proprie della natura umana; si ha la seconda, ogniqualvolta si perfeziona la facoltà formalmente personale, il più alto dei principi operativi umani, la volontà in quanto facoltà libera. Allo stesso modo, il male può inerire all’attività naturale e all’attività personale: può esistere un male naturale e un male personale. Il male può deturpare, sfregiare la natura o la persona come tale.

Questa breve riflessione ci ha portato ad “isolare” completamente un tipo di male che è inconfondibile con qualsiasi altro male. Esso, in sintesi, si isola radicalmente da ogni altro male per le seguenti tre ragioni fondamentali: è un male che inerisce all’atto della persona come tale; è un male liberamente voluto e non subito; è un male da qualificarsi metafisicamente come azione (actio) e non come passione (passio). Poiché questo male inerisce all’attività che unicamente è moralmente qualificabile, esso deve essere chiamato male morale.

 

2. La natura del male morale

 

L’individuazione della “sede” del male morale, la libera volontà della persona, è solo una premessa, importante certo, per comprendere la natura del medesimo male.

Prima di tentare questa comprensione, è assolutamente necessario richiamare brevemente alcuni punti essenziali della metafisica della volontà creata.

In primo luogo c’è qualcosa di “naturale” (nel senso spiegato sopra) anche nella volontà (voluntas ut natura). Un minimo di attenzione a ciò che accade in noi, quando esercitiamo questa nostra facoltà spirituale, è già sufficiente a mostrarci che essa si muove naturalmente, cioè necessariamente verso il bene: meglio, verso ciò che le si mostra come bene. Nessuno di noi vuole il male semplicemente perché è male; così come nessuno di noi può ascoltare il silenzio o vedere le tenebre. Ad una più profonda attenzione, tuttavia, la “natura” della volontà (o la volontà nella sua naturalità) si mostra come ben diversa, specificamente diversa, dalla natura-necessità con cui, per esempio, sodio e cloro — poste determinate condizioni — si attraggono necessariamente a formare il cloruro di sodio. Si tratta di una natura spirituale: la volontà, anche nella sua naturalità, è una facoltà spirituale. Ora, quale è la natura dello spirito? Aristotele ha visto profondamente nel mistero dell’essere-spirito, quando scrisse che lo spirito può divenire, in un certo modo, tutto. Approfondendo questa intuizione aristotelica, si può cominciare col notare che questa possibilità non è il segno di una povertà ontologica inerente all’essere spirituale, come, al contrario, avviene per la materia che pure, in un certo senso, può divenire tutto. Essa è insita nella capacità dello spirito di porsi di fronte alla realtà in se stessa, senza cioè distruggerla mentre l’assume. La capacità essenziale dello spirito è, in questo senso, la capacità dell’oggettività. Questa capacità si realizza sia sul piano della conoscenza sia sul piano della volontà. Sul piano della conoscenza, lo spirito è capace di “adeguarsi” alla realtà, di operare quell’unità intenzionale mediante la quale la persona sa “come stanno le cose”. Sul piano della volontà — che interessa più immediatamente la nostra riflessione — la capacità oggettiva dello spirito si manifesta nella capacità di volere (stimare/valutare) le realtà per quello che sono, e non per quello che sono relativamente a se stessi. È questo un punto che merita una attenzione spirituale del tutto singolare, per capire correttamente la volontà creata nella sua naturalità (voluntas ut natura).

Le due facoltà spirituali emanano dall’essenza stessa dello spirito secondo un certo ordine. La volontà, per sua natura, emana dall’intelletto (come, per altro, la nostra esperienza quotidiana ci mostra), nel modo seguente. L’intelletto può conoscere le cose, ogni realtà, in quanto sono utili/piacevoli al soggetto conoscente; può conoscere la realtà nella sua entità, nel suo peso proprio: in se stessa e per se stessa. Ora, “le facoltà appetitive devono corrispondere (oportit esse proportionatas) alle facoltà di apprendere” (1, q. 64, a. 2). E così esiste in ciascuno di noi una naturale tendenza a volere il proprio bene in quanto è il proprio bene e una naturale tendenza a volere il bene in se stesso e per se stesso. Sono le due “affectiones” di cui parlava sant’Anselmo: l’affectio commodi e l’affectio justitiae. La natura della volontà, in quanto facoltà spirituale, consiste precisamente in questa “affezione della giustizia”. Ed in questo consiste il fatto che l’uomo è stato creato “ad immagine e somiglianza di Dio”.

Fatta questa sintetica premessa sulla natura della volontà in quanto facoltà spirituale, possiamo riprendere il nostro tentativo di definire il male morale.

Nell’ambito della naturale inclinazione della volontà verso il bene, non è ancora possibile parlare di atti moralmente buoni o cattivi, poiché — per definizione stessa — siamo ancora in un contesto in cui non si ha una libertà di scelta. Quando e come si entra nel mondo dell’etica? In che cosa — alla fine — consiste il male morale? Alla luce di ciò che ho detto finora, il male morale consiste nella decisione di deviare la volontà dalla sua naturale inclinazione al bene, nel fare un uso della volontà medesima contro la sua struttura stessa. La risposta, me ne rendo conto, non ci fa compiere molti passi in avanti. Essa, tuttavia, apre la strada per una riflessione più approfondita.

Se facciamo attenzione a ciò che accade in noi, quando compiamo il male morale, non possiamo non consentire con ciò che disse il poeta pagano: “video meliora proboque - deteriora sequor”. Avviene in noi una scissione, una disarticolazione interiore. Da una parte, l’atto ci si presenta come profondamente coerente con la verità di noi stessi, coll’intima struttura del nostro essere personale: la nostra mente, il nostro spirito vi consente (video meliora proboque). Quell’atto è il suo atto. Dall’altra, la volontà rifiuta di sottomettersi a questa verità conosciuta, insegue e vuole realizzare un se stesso che contraddice quella verità medesima. È importante notare che questa scissione e disarticolazione accade nel cuore stesso del soggetto personale: nel suo spirito e, più precisamente, nel suo attuarsi come soggetto personale. Il male morale è il male della persona come persona.

Quale è la radice ultima della possibilità, inscritta nella libertà creata, di compiere il male morale? Da ciò che ho appena detto deriva immediatamente che questa possibilità sta inscritta nel fatto che non si dà identità fra libertà e verità o — il che è lo stesso — nel fatto che la libertà creata non ha in sé la propria misura, ma è misurata da una verità che la precede ed in cui essa è radicata naturalmente.

L’esperienza etica dell’umanità ha sempre avvertito che il male morale colloca l’uomo in una relazione disordinata con Dio. La Rivelazione biblica ha portato una luce assolutamente nuova al riguardo. La nostra riflessione deve, dunque, ora collocarsi in questa luce.

Donde deriva quella verità di cui parlavo? quale è il suo fondamento? Una verità nella quale l’uomo si vede costituito; un fondamento sul quale l’uomo si vede radicato così fortemente che il contraddirli è sperimentato come auto-negazione. Quella verità è il progetto creativo di Dio sull’uomo: è l’idea divina dell’uomo. L’uomo è misurato da questo progetto creativo.

Il male morale è il rifiuto di questo progetto, è la decisione libera di costituirsi, di porsi nell’essere secondo un altro progetto. In questo sta l’essenza del male morale in quanto peccato.

Parlando della natura della volontà, ho detto che essa consiste in una inclinazione all’ordine oggettivo dell’essere, al bene in sé e per sé. Quando la persona, nell’esercizio della sua libertà, fa propria questa inclinazione, mettendola in atto, compie il bene; quando la persona, nell’esercizio della sua libertà, contraddice questa inclinazione, volendo un bene non secondo l’ordine oggettivo dell’essere, fa il male. Questo ordine è l’ordine della divina Sapienza, amato e voluto dall’Amore creativo di Dio. L’atto libero che rifiuta questo ordine implica sempre, quanto meno implicitamente, un giudizio di condanna pronunciato su esso, per sostituirvi un suo proprio ordine. Per comprendere questo, è necessario fermare la nostra attenzione al momento spirituale immediatamente precedente la scelta libera della volontà, nella quale solamente consiste formalmente il male morale. Ogniqualvolta che un’attività, per essere perfetta, deve adeguarsi ad una “regola”, essa deve compiersi, facendo attenzione alla sua regola, per conformarvisi. La composizione di una polifonia, per essere perfetta, deve attenersi a regole fondamentali di contrappunto; diversamente è una composizione sbagliata, non suscita nell’ascoltatore quella esperienza profonda che proviamo, ascoltando una polifonia dotata di una sua intrinseca bellezza. La costruzione di un’argomentazione razionale deve rispettare le regole fondamentali della logica argomentativa, diversamente la ragione cade in qualche fallacia sofistica, impedita di raggiungere la verità. Analogamente la volontà porta scritta in sé, in quanto facoltà razionale, una “regola” che la inclina ad amare ogni essere, proporzionatamente alla dignità-valore propri di ciascuno. È la partecipazione della persona umana alla Santità di Dio: alla sua Sapienza e al suo Amore. La scelta libera peccaminosa consiste precisamente nel volere un bene in contraddizione con quella “regola”: cioè con la Sapienza e l’Amore divino. E in questo sta la distanza infinita della malizia morale da qualsiasi altra malizia di carattere fisico, psichico o spirituale. Mentre, infatti, ogni altro male non sfregia la persona come tale, ma semplicemente nuoce alla perfezione di qualche sua facoltà naturale, il male morale va a sfregiare lo stesso principio personale come tale; è il male della persona e poiché nell’ordine dell’essere nessun bene è più grande del soggetto personale, nessun male può essere più male del male morale. Il “malum poenae” di cui non si può pensare uno maggiore è la privazione della visione di Dio nella creatura razionale eternamente dannata. Questo male, tuttavia, è meno male che il peccato che l’ha meritata: il male non è tanto nella pena, ma nell’esserne divenuti degni. Non solo, ma, mentre ogni altro male è sempre un male limitato, il male morale ha una certa infinità, in quanto il bene che esso distrugge — che il peccatore intende distruggere — è la stessa Sapienza ed Amore divini, mediante l’instaurazione di un nuovo ordine nell’universo dell’essere.