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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La famiglia, primo luogo di solidarietà e di accoglienza alla vita
Roma, 1990


Due sembrano essere i modi per costruire un sociale umano: cercare un più o meno ampio spazio di convergenza fra interessi opposti oppure creare una comunione interpersonale.

La mia riflessione vorrebbe mostrarvi che il primo luogo è costituzionalmente, strutturalmente così fragile da essere sempre in pericolo di corrompersi in un più o meno ampio spazio di divergenza, se esso non si radica ultimamente nel secondo. E vorrebbe mostrarvi che il luogo in cui questa radicazione può e deve avvenire è il matrimonio e la famiglia.

Nella mia esposizione, però, procederò in senso inverso, partendo da questo secondo punto, arrivando poi al primo. Il corso della mia riflessione dimostrerà, spero, l’utilità didattica di questo procedimento.

 

1. Prima societas in coniugio. La sorgente della socialità umana

 

La tesi sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione può essere enunciata molto semplicemente in questi termini: la comunione coniugale, in quanto comunione interpersonale interiormente orientata al dono della vita, è l’archetipo di ogni sociale umano. Ciò che affermiamo è l’esemplarità della società coniugale-familiare per ogni espressione di socialità umana.

Vorrei iniziare molto semplicemente, richiamando la vostra attenzione su alcune esperienze molto comuni. L’attitudine di una ditta che produce prodotti per neonati è profondamente diversa dall’attitudine della donna che ha generato un bambino. Il responsabile della ditta pensa (e dice): “come è utile per noi che nascano i bambini!”; la madre pensa (e dice): “come è bello che tu sei nato, che tu ci sei!” Si faccia molta attenzione. È la stessa persona, la stessa realtà, che è “oggetto” o il termine dei due atteggiamenti. Che cosa, allora, li rende così profondamente diversi? ciò che è visto, percepito. Nel primo caso: è un possibile utente del proprio prodotto; nel secondo caso: è semplicemente una persona e niente altro che una persona. Per cui, nel primo caso non è neppure necessario per il direttore della ditta conoscere il nome del bambino, e che sia l’uno o l’altro è indifferente; nel secondo caso, nessuno può sostituire, prendere il posto di quel bambino.

Vorrei attirare la vostra attenzione su questo concetto di insostituibilità, ricorrendo alla descrizione di un’altra esperienza quotidiana.

Se quando è il momento di prendere servizio in un’azienda che presta un servizio pubblico, chi è di turno non si presenta, normalmente il capo-turno pensa a sostituire l’assente. Alla donna che ha perso un bambino, non è possibile dire: “un altro lo sostituirà”. La sostituzione è possibile la dove la persona è richiesta in ragione semplicemente di una funzione da svolgere; è impossibile, là dove la persona è voluta in se stessa e per se stessa.

Da queste semplici esperienze quotidiane risulta chiaramente che possiamo guardare la realtà in due modi profondamente diversi, che possiamo avere due modi di relazionarci alla realtà. Un primo modo vede la realtà in quanto essa può servire per raggiungere uno scopo, in quanto può servire a e per qualcos’altro; un secondo modo vede la realtà in se stessa, per se stessa, non ordinandola a qualcos’altro. Chiamiamo questo secondo modo di guardare la realtà, lo sguardo etico sulla realtà. Fermiamoci un momento a considerare la natura profonda di questo sguardo.

Esso consiste, essenzialmente, nell’intravedere nella realtà una bontà, un valore, una preziosità tale da meritare di essere voluta per sé e in sé. Essa non ha bisogno, per essere valorizzata, di servire a qualcosa d’altro: essa possiede una sua bontà intrinseca, un suo valore proprio, inerenti al suo puro e semplice essere. Quando noi percepiamo una bontà di questo genere, una tale preziosità e la riconosciamo, allora noi amiamo. L’atto dell’amore è quell’atto spirituale, mediante il quale la nostra persona riconosce la realtà nella sua e per la sua intrinseca bontà, bellezza, preziosità.

Facciamo, ora, un ulteriore passo nella nostra riflessione. La nostra persona si trova immersa in un universo di enti che si presentano a noi in una grande varietà. Fermiamoci a considerare esclusivamente la persona, o il rapporto inter-personale.

La prima cosa che balza immediata agli occhi del nostro spirito è l’infinita differenza qualitativa che esiste fra “essere qualcosa” ed “essere qualcuno”, fra la persona e le cose. Come si presenta a noi una persona, noi ci sentiamo  immediatamente spiritualmente costretti a riconoscere che in essa vi è una dignità; di fronte alle cose, che in esse vi è solamente un prezzo. Cioè: la persona ha valore di fine; la cosa ha valore di mezzo. Di conseguenza, la persona può essere solo amata, la cosa può essere solo usata. Come vedete tre concetti indicano il mondo delle persone: fine-dignità-amore e tre concetti indicano il mondo delle cose: mezzo-prezzo-uso. In altre parole, ritroviamo, quando entriamo nel mondo delle persone, quel modo di guardare la realtà, che abbiamo chiamato lo sguardo etico. O, il che è lo stesso: solo l’atto di amore istituisce un rapporto interpersonale giusto, cioè adeguato alla realtà delle persone.

Ritorniamo, ora, ancora una volta, ad una esperienza quotidiana molto comune. Se voglio raggiungere una località col treno, devo acquistare prima il biglietto, e pertanto mi presento allo sportello della stazione ferroviaria. Istituisco un rapporto con una persona, solo perché questa svolge una funzione (quella di vendere i biglietti). E nessuno di noi sente di aver mancato di rispetto a quella persona.

L’esempio mi serve solo per fare una domanda. Molte sono le volte in cui la vita quotidiana mi costringe a rapportarmi in tal modo ad altre persone. La domanda: ogni rapporto interpersonale è della stessa natura del rapporto istituito allo sportello della stazione ferroviaria? Si noti bene la radicalità della domanda: ogni, della stessa natura. Se rispondo affermativamente a questa domanda, devo concludere che, nella sua intima natura, il sociale umano è la convergenza spontanea o imposta di interessi opposti; che il suo fine ultimo, la sua ragione d’essere, è l’utilità più grande possibile del numero maggiore possibile di persone. Ma non voglio prolungare ulteriormente la mia riflessione lungo questa linea.

Voglio attirare la vostra riflessione su un altro fatto. Esistono almeno due rapporti interpersonali che sono essenzialmente diversi da quello predetto: il rapporto costituito nella comunione coniugale; il rapporto costituito dal concepimento.

(A) Nel primo le due persone si incontrano in ragione della loro irrepetibile singolarità, che rende insostituibile l’uno per l’altro. E questo incontro non ha altra ragione che la percezione della unicità, preziosità singolare dell’altro.

(B) Nel secondo, quando la donna viene a sapere di aver concepito, essa esperimenta due fatti complementari: nel suo corpo esiste un’altra persona (non un’appendice del suo corpo); l’altro è totalmente dipendente nel suo essere dalla madre.

Nelle due società suddette si ha il nucleo essenziale di un sociale umano che non si struttura sul principio dell’utilità, ma sul puro principio etico, nel senso spiegato sopra. In altre parole: è dato alla persona umana di vivere l’avvenimento di un rapporto interpersonale, nel senso pieno del termine.

A questo punto, tuttavia, sono sicuro che nella vostra mente si sono presentate due forme di socialità umana, profondamente diverse fra loro. L’uomo è così condannato a questa dicotomia? Il tempo ci consente di rispondere solo in maniera sintetica.

- Che esista un rapporto interpersonale fondato sul principio di utilità è inevitabile. La legge morale impedisce che il principio di utilità prevarichi.

- La percezione del valore della persona avviene, sul piano naturale, nell’ambito delle due società predette, quella coniugale e quella familiare.

- Solo l’uomo che ha vissuto questa esperienza è in grado di costruire un sociale che non sia semplicemente fondato sull’utilità.