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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


EUTANASIA. Quando la "buona morte" non ha nulla di buono
Intervento al Convegno del SAV
Ferrara, Sala Estense
4 febbraio 2001

Esistono domande che pongono alla ragione umana solo "problemi"; esistono domande che aprono alla libertà umana le porte del "mistero". Se mi chiedo, come molti hanno fatto in questi mesi, quando esattamente è cominciato il terzo millennio, io pongo un "problema" nel senso che la risposta, qualunque essa sia, non coinvolge in radice la mia condizione umana: non costituisce alcuna provocazione alla mia libertà. Se invece mi chiedo, come stiamo facendo noi oggi, se esistono situazioni nelle quali vivere non ha più alcun senso e se in questo supposto è giusto il suicidio [assistito o non da altri], mi rendo conto che sto cercando di decifrare un mistero, quello del senso della umano soffrire, quello di sapere se ci possono essere situazioni in cui il "male" è potenza invincibile. Sto provocando la mia libertà.

La domanda sull’eutanasia appartiene alla seconda categoria di domande: ecco perché essa ci coinvolge così profondamente.

Nel breve spazio che abbiamo giustamente a disposizione dovrò limitarmi ad alcune riflessioni, essenziali anche se incomplete, tese a decifrare il mistero della morte e della sofferenza.

Premessa. In una riflessione tanto impegnativa, la chiarezza dei concetti è più che mai di rigore. Occorre distinguere accuratamente "eutanasia" e "rifiuto di accanimento terapeutico": presuppongo questa distinzione. Occorre distinguere accuratamente "eutanasia" e "morte del paziente come effetto collaterale, previsto ma non voluto, di somministrazione di analgesici": presuppongo questa distinzione. Mi limito dunque a parlare esclusivamente di eutanasia intesa nel senso preciso di "un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore" [lett. Enc. Evangelium vitae 65,1].

Nei confronti di questa condotta umana mi pongo le seguenti due domande: perché l’eutanasia è andata sempre più legittimandosi e perfino nobilitandosi nella coscienza morale degli uomini del nostro occidente e nell’ethos delle comunità civili occidentali? Che cosa pensare e fare di fronte a questa legittimazione?

1. [Legittimazione-nobilitazione dell’eutanasia]. Facendo una rapida rassegna degli argomenti portati a favore dell’eutanasia, possiamo agevolmente ridurli ad uno solo: esistono condizioni nelle quali continuare a vivere non è più un bene e quindi non ha più senso: ma nessuno può essere obbligato a vivere una vita in-sensata poiché è inumana; dunque non essendoci più il dovere di vivere, ho il diritto di morire [uccidendomi da solo o chiedendo ad altri di farlo, è secondario].

Quest’argomentazione dona molta materia di riflessione. Essa dimostra che in occidente si è demolita la verità cristiana della morte. La mia posizione cioè è la seguente (mi scuso di doverla esporre in modo troppo icastico): la legittimazione e nobilitazione dell’eutanasia è stata possibile perché è andato progressivamente de-costruendosi l’idea cristiana di morte. Questa demolizione o de-costruzione è sostanzialmente consistita nella spersonalizzazione della morte.

La radice di questa spersonalizzazione è da situarsi, mi sembra, nella progressiva negazione della dimensione storica della morte, la cui affermazione costituisce invece il punto di partenza della visione cristiana della morte. La morte è divenuta sempre più un evento naturale di fronte alla quale, come di fronte ad ogni evento naturale, o si impreca nella propria impotenza o si cerca di assoggettarla alla propria decisione libera. La negazione della dimensione storica ha comportato una "degradazione assiologica della morte". Se, infatti, la morte non ha altre cause se non in impersonali leggi biologiche, se essa non ha alcun altro significato che il disgregarsi di una realtà (quella dell’uomo) che sussiste radicandosi in un universo pre-personale; se essa, di conseguenza, non ha alcuna finalità: la morte non ha in sé e per sé nessuna connotazione etica. La morte non è un atto dell’uomo, ma è semplicemente un evento naturale. Naturalità della morte e degradazione assiologica della stessa procedono coerentemente assieme.

La legittimazione-nobilitazione dell’eutanasia nasce all’interno di questo processo. In che cosa, infatti, esse consistono essenzialmente? Nel fatto che solo la decisione di morire quando si giudica bene morire, rende umana la morte, la denaturalizza, la rende un atto dell’uomo.

Vediamo le cose più da vicino. Il cristianesimo comincia il suo discorso sulla morte, dicendo che essa è un atto dell’uomo connotato da un duplice riferimento storico: è morte "in Adamo" – è morte "in Cristo". E’ la prima affermazione cristiana sulla morte. L’attuale nobilitazione dell’eutanasia comincia il suo discorso sulla morte, dicendo che essa è un atto dell’uomo quando è liberamente scelta, sulla base di un giudizio di non-valore sulla propria permanenza nella vita. Prescindendo, per il momento, da questo giudizio che sta alla base come ho già detto della decisione eutanatica, fermiamo la nostra attenzione su questa equivalenza: la morte atto dell’uomo = morte decisa dall’uomo.

Essa esprime in primo luogo un’esperienza e un concetto di libertà secondo il quale libertà è negazione di ogni pre-supposto, è inizio assoluto e poiché, si pensa, il morire è un evento puramente naturale, non c’è che un solo modo di de-naturalizzarla, quella di attribuire all’uomo il potere di deciderne il momento opportuno: solo così anche il morire appartiene radicalmente all’uomo. E questa appartenenza significa semplicemente: io decido quando devo morire. Si vede qui la demolizione totale del concetto cristiano di morte. Secondo la dottrina cristiana ciò che dipende dalla libertà dell’uomo è la qualità etica della mia morte: il morire "in Cristo" o il morire "in Adamo". Secondo la concezione che è andata imponendosi dall’Illuminismo in poi, ciò che dipende e deve dipendere dalla libertà dell’uomo è il mero fatto del morire, dal momento che il morire non è nulla più che un mero fatto, una pura necessità o casualità.

La seconda affermazione che sigilla tutta la concezione cristiana della morte è, come abbiamo già visto, la seguente: la morte è il momento decretorio del destino eterno dell’uomo.

La legittimazione-nobilitazione dell’eutanasia è fondata, come già dissi, sull’assunto della possibilità di un permanere nell’esistenza privo completamente di senso, di una vita – come comunemente si dice – priva di qualità.

La contrarietà fra queste due visioni è ancora una volta totale, raggiungendo così il fondo della degradazione assiologica del morire umano. Vediamo perché.

L’affermazione della morte come momento decretorio del destino eterno dell’uomo designa due verità: l’essere la presente esistenza un’esistenza in via verso l’eternità; l’essere l’uomo verticalmente relazionato all’eternità, nello e mediante l’istante della libera elezione in quanto obbedienza/disobbedienza alla legge morale, legge eterna di Dio. Donde deriva che il valore ultimo dell’uomo risiede nella qualità etica della sua scelta libera, in rapporto alla legge di Dio e non nella qualità del suo permanere nel tempo. Ma, al contrario, se la morte è il mero fatto del finire del nostro esserci tout-court e quindi se la qualità della nostra esistenza dipende dalla qualità o modo con cui siamo nel tempo, è lecito ipotizzare casi nei quali la qualità della vita è così compromessa da meritare di essere semplicemente terminata. Ecco: il dire "questa vita non è più di tale qualità da meritare di essere vissuta" è la più perfetta espressione dell’anti-umanesimo contemporaneo, perché nega ciò che costituisce il "fastigio" della dignità umana: il valore morale della scelta libera. E, come sempre accade, quanto più un errore è grande, tanto più ha bisogno di mascherarsi sotto le false apparenze del vero: le false apparenze di umanesimo.

Certo. Esistono tante pene e miserie umane. Molti di noi ne hanno conosciute tante, anche in proprio, o da vicino. Si parla spesso perfino di vite sprecate. Ma in realtà quale è la vera "qualità" della vita umana? Che cosa significa una esistenza umana in quanto umana? E’ la capacità dell’uomo di diventare, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come "io", come uno che sta davanti a Dio. E questa decisione non dipende da altro che dall’io stesso. Quando si perde questa consapevolezza, la consapevolezza di se stessi posti dalle proprie elezioni davanti a Dio, l’uomo si perde nel fluire del tempo ed il criterio di valorizzazione di se stesso muta completamente: che utilità ha il mio rimanere in vita? Quale felicità posso ancora prevedere? O posso solo prevedere sofferenza? in una parola: la vita non vale davanti a Dio, ma in se stessa. Il che equivale a dire: il suo valore è un valore che può cessare, non eterno.

Le due idee che sigillano tutta la concezione cristiana della morte, la morte come atto dell’uomo – la morte come atto decretorio del destino eterno dell’uomo, sono così state corrotte completamente dalla legittimazione-nobilitazione dell’eutanasia. Esse consistono, infatti, in due momenti corrispettivi alle due affermazioni cristiane: la morte come evento puramente naturale che deve essere personalizzato attribuendo all’uomo il potere di deciderne il momento, la morte come momento finale di un’esistenza esaustivamente temporale del cui valore giudica l’uomo in rapporto al futuro previsto.

2. [Che cosa pensare – che cosa fare]. La vicenda dell’eutanasia dimostra inequivocabilmente che la misura del valore della vita presente dipende dall’affermazione/negazione del destino eterno di ogni persona umana. In ultima analisi: dall’essere l’uomo un "io" chiamato a pronunciarsi davanti a Dio. Kierkegaard aveva acutamente osservato che la coscienza della propria grandezza dipende dal "davanti a chi/che cosa" l’affermo. E’ davanti a Dio che l’uomo è chiamato a prendere posizione. Di qui deriva che la costruzione di una "cultura della vita" trova la sua fondazione ultima nell’aiutare ogni uomo a prendere coscienza di questa sua vocazione: "ci ha rigenerato per una speranza eterna" [1Pt 1,4]. E’ in sostanza il compito essenziale della Chiesa: annunciare il Vangelo della vita eterna (cfr. 1Gv 1,1-4: "La vita si è fatta visibile … e vi annunciamo la vita eterna"). Ed è la questione centrale sull’uomo: se esso è cittadino del tempo o è cittadino dell’eterno dato in ostaggio al tempo.

Il secondo compito legato strettamente al primo è di far maturare un forte senso critico [cfr. Rom 12,1-4] nei confronti di una cultura dellamorte e della negazione della libertà. Si connette a questo l’impegno educativo delle giovani generazioni per farle uscire da quel "deserto di senso" nel quale attribuire un valore eterno alla vita di ciascuno diventa impensabile: che valore avrebbe infatti una vita umana che comincia per caso, non ha nessuna meta finale ed è il frutto di casuali coincidenze? Fin che è piacevole o fin che ha una prudente previsione di un futuro temporale migliore, è vivibile; altrimenti non ha più alcun valore.

Ma venendo al problema specifico nostro, non si deve ami dimenticare che la vera soluzione al problema dell’eutanasia è un altro. "La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. E’ richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno". [Lett. Enc. Evangelium vitae 67,1]. E’ questa una prospettiva che deve ispirare ogni politica sanitaria.

Conclusione

Penso che il futuro della nostra democrazia dipenda da una questione sola ormai: nella nostra convivenza tutto è negoziabile e quindi sottoponibile al computo di maggioranza/minoranza oppure esiste "qualcosa" sul quale non è pensabile la contrattazione? Cioè: il vero sull’uomo e il bene dell’uomo è deciso dalla convenzione-contrattazione sociale?

Scrive Agostino: "quidquid … vis potes fugere, homo, praeter conscientiam tuam [o uomo, puoi fuggire lontano da tutto ciò che vuoi, ma non dalla tua coscienza]" (En. in ps 30, II d.1.8; NBA ). Il Vangelo ha in ogni uomo come alleato la coscienza morale di questi.