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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Esequie di don Gian Paolo Trevisan
Santa Maria di Galliera, 21 gennaio 2012

Testi liturgici:
1° lettura: Lam 3, 17-26 [p. 816]
2° lettura: Rom 31-35. 37-39 [p. 838]
Vangelo: Gv 6, 37-40

1. Cari fratelli e sorelle, il profeta Geremia ha dato voce a ciò che in questo momento dimora nel nostro cuore: soprattutto nel cuore del Vescovo, nel cuore dei nostri presbiteri accorsi così numerosi.

Affidiamo alla misericordia di Dio colla preghiera del cristiano suffragio don Gian Paolo, un sacerdote ancora giovane e amante del suo popolo; che è stato ricco di sapienza pastorale e di zelo pastorale. E lo facciamo pensando alla già grande fatica di assicurare a voi fedeli la presenza del sacerdote nella vostra comunità e nella vostra chiesa.

Come non dire: "sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere"? e non essere tentati di aggiungere: "è scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore"? Nel breve volgere di pochi mesi ci è stato tolto un sacerdote che era vero discepolo del Signore, sereno e mite testimone del Suo Vangelo. Di tutto questo ora "ben si ricorda l’anima mia, e si accascia dentro di me".

Ma l’apostolo Paolo nella seconda lettura ci solleva e ci consola, nella luce di una Parola che risolve alla radice l’enigma della morte, di questa morte.

"Chi ci separerà dall’amore di Cristo?", ci dice l’Apostolo. Esiste qualcosa di assolutamente incrollabile: è l’amore con cui Cristo ci ama. Esso è incondizionato. Fra i possibili oppositori – notatelo bene – a questo amore; fra le possibili cause che potrebbero separarcene, l’Apostolo mette "la morte".

Cari fratelli e sorelle, questa è una delle più grandi parole dettaci dal Signore. Chi mediante la fede e i sacramenti ha creduto e si è unito al Signore; chi è entrato nello spazio del suo amore, non ne uscirà più perché neppure la morte porrà termine a questa alleanza di Dio con l’uomo in Cristo. La vera divaricazione fra gli uomini non è fra l’essere morti o l’essere vivi. Ma la vera differenza determinante si stabilisce fra il vivere in Cristo e con Cristo o il vivere separati da Lui. L’amore di Dio in Cristo è la mano che ci è tesa perché non sprofondiamo nell’abisso della morte; è l’amore che Cristo ha per ciascuno di noi la forza che ci fa camminare continuamente sul mare della nostra precarietà. "In tutte queste cose noi siamo più che vincitori, grazie a Colui che ci ha amati". Più che vincitori della nostra desolazione; del dolore di un’assenza.

Dirò dunque col profeta: "questo intendo richiamare nel mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie, grande è la sua fedeltà".

2. Cari amici, che don Gian Paolo abbia vissuto i mesi della sua terribile malattia nella luce della Parola che il Signore ci ha detto attraverso S. Paolo, molti lo possono testimoniare ed anch’io lo posso testimoniare.

Abbiamo fatto insieme nell’agosto scorso il pellegrinaggio a Lourdes. Visibilmente provato e sofferente, non ha mai voluto mancare a nessuna celebrazione. Ma soprattutto, tutti siamo rimasti ammirati dall’impegno apostolico nelle confessioni.

La dedizione al ministero pastorale era in lui radicata e fondata in una profonda vita di orazione. Egli mi ha confidato che per tutta la vita fin da giovanissimo desiderava farsi monaco. Fu un atto di grande obbedienza al Signore e alla Chiesa, che lo spinse al sacerdozio diocesano.

Ma è stato soprattutto durante la malattia che ha testimoniato la sua vita col Signore. Ogni volta che lo visitavo, rimanevo colpito dalla sua pace interiore; ed ogni volta che chiedevo, mi rispondeva sempre che non soffriva, anche sabato sera quando lo vidi per l’ultima volta. E tutti sappiamo quanta sofferenza comporta la malattia che lo colpì.

[lettura del testamento]

Cari fedeli di S. Venanzio e di S. Vincenzo avete perso un grande parroco, ma avete guadagnato un grande intercessore presso il Signore.

Ora che don Gian Paolo vede tutto nella verità di Dio, voglia egli intercedere per voi; voglia intercedere per la nostra Chiesa, perché non sia privata dei sacerdoti.

Alla fine, "è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore".