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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Pontificia Università Lateranense

Istituto Giovanni Paolo II

Carlo Caffarra

ETICA GENERALE DELLA SESSUALITÀ

Edizioni Ares, Milano 1992

 

 

Parte seconda

I GRANDI TEMI DI UN’ETICA DELLA SESSUALITÀ

I presupposti esposti nella prima parte sono da tenere continuamente presenti. Essi sono i punti cardinali entro i quali la nostra riflessione deve orientarsi.

Ora, sulla base e alla luce di essi, possiamo affrontare i grandi temi di un’etica della sessualità. Essi sono i seguenti.

È necessario, in primo luogo, conoscere la bontà intelligibile della sessualità umana: il suo valore intimo (cap. primo). In un secondo momento si dovrà studiare la risposta della libertà umana a questo bene intelligibile: la risposta affermativa-adeguata (cap. secondo); la risposta negativa-inadeguata (cap. terzo).

Nella e per la risposta che la libertà dona alla bontà intelligibile della sessualità umana, la persona umana è istruita dalla legge morale. E pertanto l’ultimo momento della nostra riflessione deve essere dedicato alla legge della sessualità (cap. quarto).

 

Capitolo primo

LA BONTÀ DELLA SESSUALITÀ UMANA

Possiamo partire, nella nostra ricerca della bontà intelligibile della sessualità umana, dalla constatazione del più semplice dei fatti osservabili da chiunque. La sessualità umana costituisce una distinzione all’interno della stessa specie umana: l’uomo è maschio o femmina. E anche già a questo livello di immediatezza nell’osservazione. sembra che si possa affermare trattarsi di una distinzione che precede ogni altra possibile classificazione delle persone. L’uomo, prima di essere italiano o francese o..., prima di essere avvocato o medico o... (e le classificazioni potrebbero continuare ancora più a lungo), è maschio o femmina.

Sempre a questo livello, l’osservazione descrive (e può descrivere) solo un dato biologico, anche se essa diviene sempre più penetrante, fino a scendere nei più intimi recessi della materia vivente (del corpo umano).

La tesi dell’unità sostanziale della persona umana ci impone, tuttavia, il dovere intellettuale di procedere oltre questo livello di osservazione e di affermare che la sessualità umana non "nonostante sia un dato biologico", ma proprio perché è tale, è una dimensione essenziale, costitutiva della persona umana. Poiché la persona umana è una persona-corpo e il corpo umano è un corpo-persona, la persona umana è una persona sessuata. O, il che è lo stesso, la facoltà sessuale è una facoltà della persona, è radicata nella persona.

Quest’affermazione dell’appartenenza essenziale della sessualità alla persona, corollario della tesi dell’unità sostanziale di questa, è un fecondo principio euristico nel nostro cammino teso a scoprire la bontà intelligibile della sessualità umana medesima. Detto principio euristico, che guiderà tutta la ricerca di questo capitolo, può essere enunciato in questi termini: la bontà intelligibile della sessualità umana è la stessa che la bontà intelligibile connessa trascendentalmente all’essere personale come tale.

Tuttavia, esso deve essere completato da una riflessione che procede non dalla considerazione della sessualità alla considerazione della persona, ma, viceversa, dalla persona alla sessualità. Il primo tipo di considerazione, infatti, vede la sessualità nell’essere della persona: si tratta di una considerazione statica. La seconda, quella che va dalla persona alla sessualità, vuole considerare la sessualità stessa in quanto facoltà o principio operativo mediante cui la persona agisce.

È proprio della creatura una certa distinzione reale al suo interno: quella fra soggetto e facoltà. La persona umana è un soggetto sussistente in una natura spirituale-corporale. Dalla sua costituzione ontologica derivano alcuni dinamismi o principi operativi o facoltà d’azione, quali, per esempio, l’intelletto, la volontà, l’udito e così via. Esercitando, dinamizzando queste facoltà, mediante esse, il soggetto compie determinati atti (di intelligenza, di volontà, di ascolto e così via) nei quali raggiunge la sua perfezione.

Da questa semplice osservazione possiamo concludere che i principi operativi costituiscono una perfezione per il soggetto, in quanto mediante essi egli è in grado di compiere determinati atti, ai quali precisamente le facoltà sono orientate. Donde deriva che la via per scoprire quale è la natura di una facoltà, è la considerazione del suo atto. Ma un atto, ogni atto, a sua volta è specificato dal suo oggetto proprio: l’udito è un atto specificamente diverso dal vedere perché il suono non è il colore. Pertanto, se si conosce una facoltà mediante la conoscenza del suo atto, se si conosce l’atto mediante la conoscenza del suo oggetto, la conoscenza di una facoltà deve prendere avvio dalla considerazione dell’oggetto o — il che è lo stesso — dalla considerazione di quel fine, cioè di quel bene, al quale essa è orientata. Dunque, può essere enunciato un secondo principio euristico per la nostra ricerca: la bontà intelligibile della sessualità umana è quella che le viene dal suo fine.

Fra questi due principi euristici si dà una reciprocità inscindibile. Il fine (a cui è orientata la facoltà) costituisce la bontà intelligibile della facoltà; la facoltà inerisce al soggetto personale, il quale viene da essa (facoltà) perfezionato: abbiamo percorso il movimento dall’atto alla persona. D’altra parte, è il soggetto personale che agisce attraverso le sue facoltà, ed è questa derivazione della facoltà dal soggetto, che rende la facoltà della stessa natura del soggetto e, quindi, partecipe del suo valore o bontà: abbiamo percorso il movimento dalla persona all’atto.

Il primo movimento è nell’ordine della conoscenza: conosciamo il fine (della facoltà) od oggetto, quindi la facoltà, quindi il soggetto.

Il secondo movimento esprime l’ordine dell’essere: il primo è il soggetto.

In conclusione: per conoscere la bontà intelligibile della sessualità umana, dobbiamo prima conoscere la bontà intelligibile presente nel suo oggetto (§1); dalla conoscenza della bontà intelligibile dell’atto passare poi alla bontà intelligibile della facoltà o dinamismo operativo (§2); e, infine, da questa alla particolare bontà intelligibile presente nella persona umana, in quanto persona sessuata (§3). Questi tre momenti ci sembrano i momenti necessari e sufficienti per capire la bontà intelligibile della sessualità umana.

1. L’oggetto — ciò a cui la facoltà sessuale è orientata — della facoltà sessuale è la procreazione. Più precisamente: è la posizione delle condizioni necessarie e sufficienti perché entri nell’essere una nuova persona umana.

La Sacra Scrittura (Gn 1, 28) collega immediatamente la diversificazione sessuale da una parte all’atto creativo di Dio, e dall’altra alla procreazione. Si deve, tuttavia, notare subito che la procreazione è connessa con l’atto divino della benedizione.

Il concetto di "benedizione" — in quanto connota un atto di Dio — è molto usato nei libri vetero-testamentari. Esso serve per indicare una libera. autonoma decisione divina che si propone di donare all’uomo, appunto "benedetto", qualcosa di reale (benessere, protezione dai nemici...). Il concetto si inserisce nella profonda esperienza o presa di coscienza di Israele, che Dio è l’unica fonte di tutto il bene esistente. Il passo sopra citato insegna che alla diversificazione sessuale è connessa una particolare benedizione divina: la fecondità. Cioè: il dimorfismo sessuale. opera di Dio, è "benedetto" da Dio, in quanto è reso fecondo, capace di "moltiplicare e far crescere" la comunità umana.

Si ha qui, se così possiamo dire, un esempio chiaro di come si svolge la riflessione biblica. L’autore sacro vede nella fertilità un bene: Dio è la fonte di ogni bene e ogni bene presente nelle creature è il frutto della sua benedizione.

Anche l’esperienza umana, intesa nel suo significato più largo, percepisce (e ha sempre percepito) che l’oggetto, ciò a cui la facoltà sessuale è originariamente orientata, è la procreazione.

Qual è la bontà intelligibile di questo oggetto? Non è difficile rispondere a questa domanda. Che nell’universo dell’essere si pongano le condizioni perché vi entri un nuovo soggetto personale, è un atto intimamente, intrinsecamente buono, perché semplicemente l’essere personale è un bene. Anzi: non è possibile pensare un bene più grande. La bontà, infatti, o il valore connesso all’essere personale si impone in sé e per sé: la persona è ciò che di più perfetto esista nell’universo dell’essere. Non è possibile essere più che persone.

Tuttavia, questa bontà, dovuta alla procreazione, non esaurisce tutta la bontà propria dell’oggetto della sessualità umana. Una riflessione umana più attenta, che riceve una straordinaria illuminazione dalla dottrina della fede, mostra un’altra dimensione di questa bontà.

(A) La riflessione razionale. La nostra esperienza quotidiana ci rivela che esiste una profonda attrazione dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. E sulla natura di essa che ora dobbiamo riflettere.

Qualcuno potrebbe pensare (e c’è stato chi l’ha pensato) che la ragion d’essere di questa attrazione è meramente funzionale: essa è in funzione della bontà della procreazione e, pertanto, ad essa riconducibile. Tuttavia, esistono almeno due fatti che contraddicono questa interpretazione.

Il primo. Mentre nel regno animale questa attrazione è presente solo quando essi sono fertili, fra le persone umane essa non è così strettamente condizionata dalla capacità procreativa.

Il secondo e più importante. L’attrazione, di cui stiamo parlando, nasce da un’esperienza assai misteriosa. È l’esperienza di una solitudine che spinge la persona a uscire da sé per incontrare l’altra; è il desiderio di essere con l’altro. È la consapevolezza vissuta di un bisogno, di una deficienza, di una povertà nel proprio essere. E la percezione che questo bisogno può essere soddisfatto, questa deficienza può essere superata e questa povertà può trovare soccorso nell’incontro con la persona umana dell’altro sesso. Poiché questa attrazione ha la sua origine in una condizione permanente dell’essere umano, essa non è in funzione della procreazione e da questa condizionata.

Queste due semplici constatazioni ci invitano a una riflessione più accurata per cogliere questa dimensione della bontà intelligibile inerente all’oggetto, al fine della sessualità umana.

In primo luogo, è necessario vedere quale è l’origine, cioè in che cosa consiste quella "condizione permanente dell’essere umano", di cui ho appena parlato.

Essa consiste in una correlazione fra i due modi di essere persona umana (maschio-femmina): una reciproca ordinazione dell’uno all’altra. Questa correlazione, questa reciproca ordinazione è radicata in una connaturalità che rende l’uomo e la donna l’uno proporzionato all’altra, orientandoli internamente verso l’unità. L’origine, dunque, di questa reciproca attrazione è questa connaturalità: questa unità di correlazione o proporzione. L’oggetto della sessualità, ciò a cui essa tende, è la realizzazione, la messa in atto di questa unità.

Ma in che cosa consiste precisamente la bontà inerente a questa realizzazione? Nella sua capacità unitiva: nel suo creare unità.

A questo punto si impone un’ulteriore precisazione, di decisiva importanza nella prospettiva etica. Stiamo parlando di "attrazione", di "ordinazione/orientamento": parole tutte che connotano un movimento, cioè la dimensione appetitiva della persona umana. Ora, l’antropologia filosofica dimostra l’esistenza di due facoltà appetitive nell’uomo, essenzialmente (e non solo di grado) diverse: una facoltà appetitiva psichica e una facoltà appetitiva spirituale. La diversità essenziale consiste in questo. La facoltà appetitiva psichica si muove verso un bene in quanto è bene per me, per te: la facoltà appetitiva spirituale, in quanto è bene in sé e per sé.

Ritornando ora al nostro tema, vediamo che quando si parla del bene dell’unità, presente nell’oggetto della sessualità, possiamo intendere il termine "bene" in due significati essenzialmente diversi. O l’unità è cercata, è desiderata, in quanto essa (unità) è per me un bene o l’unità è cercata, è desiderata, in quanto essa (unità) è un bene in sé e per sé. In realtà, la prima unità si distrugge nel momento in cui si raggiunge: si riduce infatti una persona a cosa di cui si usa. Solo la seconda unità è veramente unità di due persone.

La bontà quindi inerente all’oggetto della sessualità consiste nell’unità o comunione fra due persone.

(B) La Rivelazione ci illumina con uno splendore che consente di vedere molto più profondamente questa seconda dimensione della bontà intelligibile della sessualità umana.

Se il primo capitolo della Genesi ci rivela la prima dimensione di essa (bontà), il secondo ce ne rivela soprattutto la seconda. E i temi essenziali di questa rivelazione mi sembrano i seguenti.

"Non è bene che l’uomo sia solo". Si stabilisce, in primo luogo, una connessione fra essere e bene. La condizione di solitudine, in cui versa l’uomo, fa sì che il suo essere sia deficiente, incompleto. Nello stesso tempo, ci viene rivelato che l’uomo raggiunge la pienezza del suo essere superandola, uscendo dalla sua solitudine.

Il superamento, l’esodo, della e dalla solitudine è tentato in un rapporto di dominio sulla realtà infraumana in un rapporto con gli animali. È un superamento che in realtà non fa uscire l’uomo dalla sua solitudine: solo nell’incontro con un’altra persona, l’uomo può raggiungere la pienezza del suo essere.

Ed è precisamente in questo contesto che viene collocata la creazione della donna, come "aiuto a lui simile". Si sottolinea, in questo modo, l’identità perfetta nella dignità dei due: ora, e solo ora, l’uomo riconosce nell’altra sé stesso ("questa volta sì che è carne..."). Ed è in questa dialettica, se così posso dire, fra "altro" e "sé stesso" che si crea quella unità di due. la quale fa uscire l’uomo dalla solitudine e che costituisce la persona nella pienezza del suo essere. Questa unità è la bontà intelligibile dell’oggetto della sessualità umana. Vediamo, ora, di specificarne meglio i contenuti.

Notiamo, in primo luogo, che la donna — in quanto tale — è creata da Dio in vista, in ordine a essere donata all’uomo. E l’uomo ancora, quando è solo, non è in una buona condizione: esso è interamente, pienamente creato, cioè portato alla perfezione del suo essere personale, quando accoglie il dono della donna ed è donato alla donna.

Questa intenzione creativa di Dio, essendo realizzata in un soggetto personale, raggiunge e deve raggiungere la coscienza di esso (soggetto personale): l’uomo diviene perfetto nel momento in cui prende coscienza del dono della donna, che gli è stato fatto, e accoglie questo dono. La donna diviene perfetta nel momento in cui prende coscienza di essere accettata come dono e accoglie il dono dell’uomo, che le è stato fatto. E la radice di questa reciproca accoglienza è la libera risposta o il libero consenso al dono che ciascuno fa di sé all’altro.

Qual è il luogo in cui l’uomo e la donna prendono coscienza dell’intenzione o progetto creativo di Dio? Dove apprendono il loro essere dono (fatto) dell’uno all’altra? Nella loro sessualità, rispettivamente nella propria mascolinità/femminilità. Essi scoprono nella possibilità del loro divenire "due in una sola carne", al contempo, sia una potenzialità inscritta nella loro mascolinità/femminilità sia una vocazione a divenire "una sola carne".

Rimandando la riflessione sul significato e sul contenuto della potenzialità scoperta al paragrafo seguente, dobbiamo ora approfondire brevemente significato e contenuto di "vocazione". L’uomo e la donna sono orientati all’atto della congiunzione sessuale in quanto atto che costituisce una comunione personale: essi vedono nell’atto della congiunzione sessuale una bontà specifica, cioè il suo essere al contempo espressione e costituente della comunione personale. Essa è espressa-costituita dal dono del corpo in quanto dono della persona.

Quali sono gli elementi essenziali di questo dono? Esso consiste in una reciproca accettazione dell’altro. Si tratta, cioè, di accogliersi reciprocamente, proprio perché in questa mutua relazione l’uomo e la donna diventano dono l’uno per l’altra, mediante tutta la verità e l’evidenza del loro proprio corpo, nella sua mascolinità e femminilità.

L’auto-possesso e l’auto-dominio rendono possibile all’uomo e alla donna di fare di sé dono all’altro: non si può donare se non ciò che si possiede. Nel "contenuto" di questo dono entra anche il corpo. Non in qualsiasi modo. Nel senso che solo in esso e mediante esso, la persona esprime e realizza il dono di sé stessa. Linguaggio della persona, il corpo è il linguaggio del dono.

Possiamo concludere questo primo paragrafo del presente capitolo. Siamo partiti dalla considerazione dell’oggetto della facoltà sessuale, di ciò a cui la facoltà sessuale è orientata: fine e oggetto sono in questo contesto sinonimi. Ci siamo chiesti se nell’oggetto-fine della facoltà sessuale sia presente una particolare bontà intelligibile. Questa bontà ci si è svelata bi-dimensionale: una dimensione procreativa e una dimensione unitiva. L’unità sostanziale della persona umana impedisce di pensare la dimensione procreativa come la dimensione "naturale" e la dimensione unitiva come la dimensione "personale". La reale dualità si compone nell’unità sostanziale e integrale della persona.

2. Ora dobbiamo passare dall’oggetto alla facoltà, al fine di scoprire l’intima natura di essa.

La prima riflessione è la più semplice. La facoltà sessuale è facoltà (periodicamente) procreativa. Una consistente Tradizione ecclesiale esprime l’intima natura della facoltà sessuale parlando di facoltà di cooperare all’amore creativo di Dio. È compito della riflessione teologica e filosofica rigorizzare questo concetto. In senso stretto, non è metafisicamente possibile nessuna partecipazione di una creatura all’azione creativa di Dio, sia nel senso che la creatura riceva da Dio questo potere sia nel senso che la creatura cooperi all’atto creativo al modo con cui una causa strumentale partecipa all’attività della causa principale. La prima possibilità è da escludere, in quanto la sua affermazione è metafisicamente assurda ed è contro la fede. Infatti, come vedremo, la potenza creativa è una potenza infinita e nessuna creatura può essere infinitamente potente. La seconda possibilità è stata affermata da qualche teologo cattolico. Essa, tuttavia, a una riflessione più attenta si mostra infondata.

Il termine dell’atto creativo è lo stesso atto di essere: non è, cioè, una qualche "forma" o "perfezione" indotta o prodotta-causata in una realtà già esistente. È semplicemente la produzione dell’essere di ciò che è. Ora esiste una distanza infinita fra il non-essere (ancora) e l’essere e, pertanto, solo una potenza infinita può colmare questa distanza: far essere ciò che non è. Infatti, deve esserci una proporzione fra la potenza che agisce e la distanza fra ciò che è fatto da ciò da cui proviene: quanto più un ambiente è freddo e tanto più, se si vuole scaldarlo, la sorgente di calore deve essere intensa. È questa la ragione fondamentale per cui il potere creativo appartiene esclusivamente a Dio: la distanza infinita fra non-essere ed essere.

In che senso, allora, la facoltà sessuale umana, in quanto facoltà procreativa, può essere definita "partecipazione" o "cooperazione" al potere creativo di Dio? Per rispondere correttamente, è necessario premettere che lo spirito umano — secondo la fede cattolica — è creato immediatamente da Dio. D’altra parte, sappiamo che la natura specifica dello spirito umano, in quanto umano, è quella di essere creato per essere unito sostanzialmente a un corpo. Nello stesso momento in cui è creato, informa un corpo. Esso non pre-esiste al corpo che informa. L’atto creativo che ha come termine uno spirito puro (l’angelo), non presuppone nessuna materia, né come presupposto da cui viene prodotto lo spirito né come presupposto in cui lo spirito è. L’atto creativo che ha come termine uno spirito umano, non presuppone nessuna materia da cui viene prodotto: l’atto creativo non presuppone nulla; né lo spirito può provenire dalla materia. Esso (atto creativo) presuppone un corpo in cui lo spirito viene creato.

A questo punto, abbiamo tutti gli elementi per rispondere alla domanda sopra posta. Nella generazione di ogni persona umana si ha l’atto della congiunzione sessuale dei genitori, che pone le condizioni per la formazione del corpo umano e si ha l’atto creativo di Dio che produce e infonde lo spirito. Ciò che "producono" i genitori è un corpo che può essere animato da uno spirito, da questo spirito individuale; ciò che è creato da Dio è lo spirito che anima, forma questo corpo generato dall’atto sessuale fertile.

Da ciò derivano alcune conseguenze. assai importanti. La prima è che i genitori sono veramente padre e madre di questa persona umana (non di questo corpo). Infatti è a causa dei suoi genitori che questo individuo riceve la specifica natura umana e l’atto creativo di Dio è il naturale completamento del loro atto generativo. La seconda conseguenza è che la persona, benché generata da due creature, in quanto tale deve il suo essere esclusivamente all’atto creativo di Dio. La persona infatti deve il suo essere persona allo spirito. E così, ogni uomo appartiene a Dio ed esclusivamente a Dio; deve rispondere di sé solo a Dio. Nessuna persona è padrona di un’altra persona; ogni persona è responsabile davanti a Dio. Può appartenere a un’altra solo mediante il libero dono di sé.

Concludendo, possiamo dire che è vera l’affermazione secondo la quale la facoltà sessuale umana è "cooperazione" all’atto creativo di Dio. Nel senso che essa pone la condizione necessaria e sufficiente stabilita per libera disposizione divina, perché Dio crei lo spirito umano e così una nuova persona entri nell’esistenza.

La seconda riflessione deve cogliere l’intima natura della facoltà sessuale in quanto orientata all’atto che esprime e costituisce la comunione delle persone.

È necessario, a tale scopo, capire chiaramente che solo lo spirito è capace di comunicazione: è la verità centrale di questa riflessione.

Ogni vivente può sostenersi e mantenersi nell’esistenza solo attraverso una completa "comunicazione" con l’esterno: le piante hanno bisogno di certi minerali che esse prendono, per mezzo delle radici, dal terreno in cui sono impiantate. Tuttavia, come è noto, questo complesso processo di assimilazione tende alla completa trasformazione di ciò che è assunto nell’organismo vivente. Il metabolismo fa sì che il cibo diventi il mio corpo.

Nell’attività dello spirito avviene un fatto mirabile: se io conosco un triangolo... non divento un triangolo né il triangolo diventa me stesso. È l’attività intenzionale. Essa fa sì che l’altro sia presente nello spirito come altro, senza perdere la sua alterità: il suo essere presente non distrugge la sua alterità e la sua alterità non impedisce la sua presenza (nello spirito). Tralasciando per il momento la spiegazione di questo fatto, cerchiamo di descriverlo il più completamente possibile.

L’attività intenzionale dello spirito è una sorta di "circolo" misterioso e mirabile: mediante l’attività intenzionale intellettiva, l’altro si fa presente nel mio spirito (l’altro viene attratto in me) e la bontà di ciò che è conosciuto-reso presente attrae me verso il suo possesso reale (io mi muovo verso l’altro) e così il "circolo intenzionale" si chiude.

Dobbiamo fermare la nostra attenzione sul secondo movimento intenzionale, quello volitivo.

Esso, in quanto movimento spirituale, tende verso l’altro in quanto altro: sta in questo la sua natura specifica che lo distingue da qualsiasi altro movimento umano. Lo chiamiamo "volontà" o "movimento (adpetitus) razionale".

Il secondo nome è importante perché esso esplicita il fatto che la volontà è radicata nella ragione: trae da essa la sua origine e il suo, potremmo dire, sostentamento o nutrimento.

In che senso e in che modo? È un dato elementare della nostra esperienza quotidiana che ogni nostro "movimento" verso la realtà presuppone sempre un atto di conoscenza. Due sono le facoltà conoscitive nell’uomo: la sensibilità e la ragione. La diversità essenziale fra la conoscenza sensibile e la conoscenza razionale consiste nel fatto che la prima ha come suo oggetto invalicabile il particolare, mentre la seconda l’universale. L’occhio vede sempre ed esclusivamente questo o quell’uomo: la ragione sa chi è l’uomo come tale.

In questa diversità essenziale si radica la diversità essenziale dei due modi con cui la persona umana si muove verso la realtà conosciuta: senza conoscenza, infatti, non è possibile alcun movimento. Questa diversità può essere facilmente vista, se facciamo un po’ di attenzione alla nostra quotidiana esperienza.

Quando noi desideriamo e/o vogliamo e/o amiamo e/o odiamo qualcuno o qualcosa, nel nostro desiderio... possiamo scoprire due dimensioni: ciò che desideriamo (vogliamo...) e la ragione per cui desideriamo (vogliamo...). Ed è ancora la nostra quotidiana esperienza che ci mostra che le ragioni per cui desideriamo (vogliamo...) sono riconducibili a tre: in ragione della sua utilità, in ragione della sua piacevolezza, in ragione della sua bontà intrinseca.

L’impossibilità della conoscenza sensibile di elevarsi alla considerazione dell’universale fa sì che essa generi un movimento della persona verso ciò che è desiderato non in ragione di un valore (di utilità o di piacevolezza o di bontà) riconosciuto in esso presente, ma semplicemente in ragione del fatto che esso è desiderabile per me. La capacità della conoscenza razionale di elevarsi all’universale genera un movimento della persona verso ciò che è generato non semplicemente per ragione del fatto che esso è utile e/o piacevole per me, ma per il fatto che esso è bene in sé e per sé: che esso merita di essere voluto in ragione del suo essere stesso.

Se abbiamo percepito la distinzione essenziale (non solo di grado) fra movimento sensibile e volontà, vediamo che alcune conseguenze si impongono dal punto di vista teoretico.

La prima. L’atto della conoscenza razionale non è solo prerequisito all’atto della volontà (nihil volitum quin praecognitum), ma è il terreno, per così dire, nel quale la volontà ha bisogno continuamente di radicarsi: l’atto della volontà nasce continuamente dentro l’atto razionale.

La seconda. Movimento sensibile e movimento spirituale (o volontà) non sono solo specificamente distinti, ma anche qualitativamente diversi. Il movimento sensibile non è, e non può essere, libero: il movimento spirituale può essere libero. Infatti, il movimento sensibile è un movimento semplicemente mosso dall’oggetto percepito, mentre il movimento spirituale è un movimento che si muove verso l’oggetto: nel primo la persona è passiva, nel secondo è attiva. Il volere non accade solo nell’uomo: è dall’uomo. È il suo atto più proprio. Inoltre. il movimento sensibile è sempre "interessato": è ciò che è utile per me; il movimento spirituale è "disinteressato": esso può essere motivato dal bene che in sé e per sé possiede l’oggetto voluto.

Se si è capita la natura propria della volontà e sono state comprese le sue qualità, non è difficile vedere che solo mediante la volontà la persona umana può tendere verso l’altra persona come altra: cioè in ragione del suo valore proprio, non del valore che ha per me. Ora, solo se tendiamo verso l’altra persona in questo modo, stabiliamo in realtà un rapporto con l’altro. Infatti, volendolo in quanto mi è utile e/o mi è piacevole in realtà non esco da me stesso.

In conclusione, ora sappiamo che e perché solo lo spirito è capace di comunicazione in un senso interamente vero.

A questo punto della nostra riflessione sembrerebbe allora doversi anche concludere che la dimensione psico-fisica dell’uomo non entra nella costituzione del vincolo comunionale interpersonale.

La tesi dell’unità sostanziale della persona e la verità di fede della redenzione del corpo escludono questa ulteriore conclusione e questa esclusione ci fa precisamente capire, finalmente, l’intima natura della facoltà sessuale, in quanto orientata all’atto che esprime e costituisce il vincolo comunionale interpersonale.

Essa consiste nella capacità di tradurre il movimento spirituale della persona verso l’altra come altra, nel linguaggio visibile. E poiché nella socialità umana il corpo svolge una mediazione necessaria, la facoltà sessuale umana è uno dei linguaggi fondamentali, non sono enunciativo ma anche performativo, della comunione interpersonale.

Certamente unità sostanziale non significa, anzi esclude, "confusione delle nature" proprie del corpo, della psyche e dello spirito. Questo significa che nel rapporto interpersonale fra persone umane esiste anche una dimensione di "passività", cioè di passione. Questa dimensione attende dal suo intimo di essere integrata nella dimensione superiore. Ma su questo problema etico centrale rifletteremo nei due capitoli seguenti.

3. Ora, dopo la riflessione sull’oggetto/fine dell’atto e sulla facoltà, possiamo tentare di avere una certa conoscenza della persona umana sotto il profilo della sua sessualità.

La legittimità di questo tentativo è fondata dal fatto che se da una parte la persona umana in quanto è spirito non è né maschio né femmina, dall’altra, poiché lo spirito in quanto umano è orientato a informare un corpo, si può presumere che la femminilità/mascolinità caratterizzi la persona come tale.

Più precisamente. È obiettiva una considerazione della persona umana, prima che considerarne la sua determinazione sessuale, ma è incompleta. È necessario completarla con una considerazione della medesima come sessualmente determinata.

Non mi propongo di determinare il contenuto della femminilità/mascolinità. Si tratta di determinazione più radicale: di raggiungere una qualche conoscenza della persona umana in quanto sessualmente determinata.

In primo luogo, il cammino percorso finora ci conduce alla conclusione che la umana è costituita capace di cooperare all’atto creativo di Dio. Si scopre una dimensione della somiglianza-immagine della creatura umana a Dio: la dimensione procreativa. O, il che equivale, della partecipazione della creatura umana all’Essere divino, considerato nella sua gratuita generosità creativa. È il significato profondo della "benedizione divina" impartita all’uomo e alla donna.

Già prima ho richiamato l’attenzione sul fatto che una consistente corrente della Tradizione della Chiesa ha collocato la somiglianza (naturale) dell’uomo a Dio esclusivamente nella sua soggettività spirituale, in quanto sorgente dell’attività intellettiva e volitiva. È possibile, forse, arricchire questo dato della Tradizione, integrandovi la nostra prospettiva.

La partecipazione all’attività creativa di Dio, in quanto inerisce a un soggetto personale (l’uomo), è una partecipazione specificamente diversa dalla partecipazione propria di qualsiasi altra creatura non spirituale. San Tommaso parla di una partecipazione "formale" e non solo "materiale": una partecipazione, cioè, consapevole perché e in quanto intelligente e libera. L’uomo, in quanto maschio/femmina, è un soggetto che intelligentemente e liberamente coopera all’atto creativo di Dio. La rilevanza etica di questa tesi antropologica sarà studiata nel capitolo seguente.

Questa tesi antropologica riceve nuovo splendore dalla fede. Infatti, il Concilio Vaticano Il parla non solo di una cooperazione con Dio creatore, ma anche "del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia" (GS 50, 1). L’idea è espressa anche nella Liturgia del matrimonio ed era già insegnata chiaramente da san Tommaso in questo modo: "proles prout est bonum sacramenti, addit supra prolem prout est bonum intentum a natura. Natura enim intendit prolem prout in ipsa salvatur bonum speciei; sed in prole secundum quod est bonum sacramenti matrimonii, ultra hoc intelligitur ut proles suscepta ulterius ordinetur in Deum" "Considerata come bene del sacramento, la prole è superiore al bene inteso dalla natura. Poiché la natura ha di mira la prole per la conservazione della specie: invece quale bene del sacramento del matrimonio la prole oltre a questo viene ordinata a Dio" (Suppl., q. 49, a. 5, ad 1).

La procreazione, nella luce della fede, è connessa con l’educazione in Cristo, nella Chiesa. L’uomo e la donna credenti partecipano all’atto creativo di Dio, atto che è intenzionato al nostro essere in Cristo.

In secondo luogo, il cammino percorso finora ci conduce alla conclusione che la persona umana è un soggetto che è sé stesso nel dono di sé stesso all’altro: alla conclusione che l’auto-donazione è l’intima verità della soggettività umana.

L’affermazione deve essere pensata in maniera concettualmente assai precisa.

Già più di una volta, nelle pagine precedenti, abbiamo notato come la caratteristica fondamentale dello spirito sia la sua capacità di una comunicazione con l’altro in quanto altro. Il suo essere in sé e per sé (la sua "sussistenza") non solo non impedisce di essere intenzionato all’altro, ma lo costituisce tale (cioè verso l’altro). E reciprocamente il suo essere intenzionato all’altro si radica nella sua sussistenza. Alla libertà della persona, in quanto soggetto spirituale, è affidata la soluzione di questa tensione bipolare fra l’"essere in sé e per sé" e l’"essere con l’altro e per l’altro".

Nel momento in cui ciascuno di noi scopre in sé stesso il suo essere-persona, vede il suo essere "qualcuno" e non "qualcosa", scopre eo ipso la preziosità propria di questo modo di essere: l’essere, appunto, persona. Non si può vedere sé stesso come persona e non vedere che essere "qualcuno" è infinitamente più che essere "qualcosa". Se uno non ha visto questo "infinitamente più che", non ha semplicemente visto il suo essere persona. La percezione della verità del suo essere-persona è necessariamente, trascendentalmente connessa con la percezione della bontà propria del suo essere persona.

Questa bontà suscita nella persona l’esperienza di una singolare necessità: singolare perché non è riconducibile né alla necessità logica (che regola il funzionamento della ragione) né alla necessità fisica (che regola l’agire della natura infraumana). E la necessità di dare una risposta adeguata a quella bontà: una risposta, cioè, che sia a misura di quella bontà. La verità costringe a rispondere: a rispondere, appunto, nella verità. È l’obbligo morale, che altro non è se non la forza che la verità esercita nei confronti della libertà. È lo splendore della verità nella volontà libera.

Qual è la risposta adeguata della mia libertà al mio essere-persona? È solo la risposta che afferma la persona in sé stessa e per sé stessa e che nega che la persona sia usata o utilizzata per altro. Più chiaramente e più semplicemente: che vuole il bene della persona perché è il bene della persona (bene-volenza) e agisce di conseguenza (bene-ficenza).

La nostra esperienza quotidiana ci mette continuamente in contatto con altre persone e, dunque, ci costringe a risolvere il problema del come essere-con-altre-persone.

Se io ho visto la verità del mio essere-persona e con essa (verità) la bontà o preziosità propria del mio essere persona, nel momento in cui vedo nell’altro una persona, vedo che ad esso è dovuta la stessa risposta che è dovuta al mio essere-persona (" ... e il prossimo tuo come te stesso"). Se non vedo questa identità, ma penso che l’altro possa essere trattato, anche solo in via eccezionale, non come persona ma usato come qualcosa, semplicemente non ho ancora visto l’essere-persona come tale: dunque anche e in primo luogo il mio essere-persona. Nel momento e quando tratto l’altro come "qualcosa" e non come "qualcuno", non deturpo in primo luogo la sua persona ma deturpo la bellezza ontologica del mio io. Non mi realizzo come persona se non nella bene-volenza/bene-ficenza dell’altro. In una parola: nell’atto di amore. Non esiste un essere inter-personale degno delle persone che lo com-pongono se non è realizzato dall’atto dell’amore bene-volente/bene-facente.

A qualcuno potrebbe sembrare che questa riflessione non sia pertinente al tema che abbiamo affrontato in questo capitolo: è un’impressione errata. Adamo scopre il suo essere chiamato al dono non quando entra in comunicazione con l’animale (con "qualcosa"). Egli scopre la sua vocazione al dono di sé mediante la donna: ella è il medium quo intelligibile della presa di coscienza, da parte di Adamo, della sua identità di persona. Nella femminilità umana, egli vede la verità di sé stesso: essa è la via che lo conduce alla scoperta di sé stesso. La persona in quanto sessualmente determinata è scoperta come soggetto che trova nell’amore di bene-volenza la sua unica realizzazione perfetta come persona.

Riprenderemo questo punto nell’ultima parte, quando parleremo della coniugalità e della verginità. Concludiamo ora il presente capitolo.

Il suo obiettivo era di scoprire la bontà propria della sessualità. Abbiamo compiuto questa scoperta in tre momenti: l’atto, la facoltà, la persona.

L’atto (della congiunzione sessuale) deve la sua bontà e al fatto che pone le condizioni per la venuta all’essere di una nuova persona umana e al fatto che esso pone in essere una comunicazione interpersonale fra le persone. La bontà dell’atto ci introduce nella intelligenza della preziosità propria della facoltà che compie questo atto: facoltà di cooperare con l’amore creatore e redentivo di Dio e di istituire una comunione interpersonale. L’intelligenza della preziosità propria della facoltà ci introduce in una comprensione più profonda dell’identità della persona umana: immagine e somiglianza di Dio e soggetto che può realizzarsi solo nel dono di sé stesso.

 

Sussidi per la riflessione personale

La riflessione del capitolo non verte sulla sessualità umana in genere, ma sulla bontà della sessualità umana. E dunque anche le indicazioni bibliografiche sono, esclusivamente, in questa direzione.

Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò..., cit., pp. 31-108: è una profonda catechesi sulla verità originaria della sessualità umana.

K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, Torino 19803, pp. 51-85: R. Buttiglione, L’uomo e la famiglia, Dino, Roma 1991, pp. 97-119; A. Scola, Identidad y Diferencia, Encuentro, Madrid 1989; J. Pieper, Sull’amore, Morcelliana, Brescia 1974.

 

 

Capitolo secondo

ETICA DELLA SESSUALITÀ UMANA (I)

In questo capitolo, e in quello seguente, entriamo ormai esplicitamente nella riflessione etica. Sono, però, necessarie alcune premesse generali, al fine di formulare, con il massimo di precisione possibile, il problema che cercheremo di risolvere in questi due capitoli.

La prima. La moralità è una proprietà che inerisce all’atto della volontà libera: solo questo atto può essere qualificato moralmente buono/cattivo. Ogni altra attività umana è così qualificabile solo se e tanto-quanto è volontaria. Il problema fondamentale, dunque, di un’etica della sessualità è quello di sapere quale atto di volontà, che ha per oggetto il bene intelligibile della sessualità umana scoperto ed esaminato nel capitolo precedente, è buono e quale è cattivo. Nel presente capitolo studieremo l’atto (della volontà) moralmente buono. Nel capitolo seguente studieremo l’atto (della volontà) moralmente cattivo.

La seconda. A qualcuno potrebbe sembrare inutile scrivere un intero capitolo sull’atto moralmente buono. Potrebbe, infatti, pensare che, una volta compreso quale sia il bene intelligibile della sessualità umana, si possa semplicemente concludere che, volendo questo bene, la volontà sia senz’altro buona. In realtà, le cose sono più complesse. Infatti, proprio perché si tratta di un bene intelligibile, esso deve essere voluto intelligentemente (razionalmente) e non comunque. Qualora così non fosse, in realtà non quel bene è voluto, ma qualcosa d’altro. Ora, il compito del presente capitolo è precisamente di determinare quando quel bene (intelligibile) è voluto (intelligentemente-razionalmente). E, pertanto, questa sarà la prima domanda a cui cercherò di rispondere (§1).

La terza. Come si è visto nel capitolo precedente, l’atto sessuale esige la dinamizzazione della facoltà sessuale. L’atto, cioè, è il frutto della simultanea operazione della facoltà sessuale e della facoltà volitiva. La problematica, quindi, di questo capitolo (e, per contrarium, di quello successivo) si amplia notevolmente. Infatti, la facoltà sessuale deve essere disponibile a recepire la messa in atto, che proviene dalla volontà che vuole (razionalmente) quel bene intelligibile presente nell’atto sessuale. La seconda domanda a cui cercherò di rispondere riguarda la natura di questa "disponibilità" (§2).

La quarta e ultima premessa. La volontà stessa deve essere disposta, orientata verso quel bene intelligibile. E poiché nulla è più intimo alla persona della volontà stessa e mai la persona entra in causa come quando vuole liberamente, la domanda etica deve raggiungere anche questa ultima profondità della persona. È necessario chiedersi come la persona si disponga, si orienti verso quel bene intelligibile. sia resa capace di rispondere in misura adeguata a quel bene (§3).

1. (L’atto sessuale moralmente buono). Prima di addentrarci in questo primo momento della riflessione, è utile una breve osservazione preliminare, che prende il suo avvio da una constatazione molto semplice.

C’è una grande e suggestiva esperienza che noi viviamo quotidianamente: la nostra ragione mostra non qualche bene intelligibile, ma una pluralità, un universo di beni intelligibili, davanti ai quali la nostra volontà è posta. Tuttavia, per la nostra limitatezza creaturale, non possiamo volere ogni bene intelligibile possibile. Ma precisamente in questo punto si annida la possibilità di un grave errore, l’errore di confondere questa attitudine ("non posso volere ogni bene possibile") con l’attitudine di contrarietà anche nei confronti di un solo bene impossibile.

Un esempio aiuterà a fare chiarezza su questo punto assai importante. Chi sceglie il bene intelligibile della verginità cristiana non può scegliere il bene intelligibile del matrimonio. Tuttavia, esiste una differenza essenziale fra una scelta verginale/non-coniugale e una scelta verginale/anti-coniugale; fra una scelta coniugale/non-verginale e una scelta coniugale/anti-verginale. Ogni scelta verginale deve essere aperta, in questo senso, alla scelta coniugale (anche se la esclude per sempre); ogni scelta coniugale deve essere aperta, in questo senso, alla scelta verginale (anche se la esclude per sempre). E la ragione è semplice: non-volere un bene non è per sé un male. È semplicemente un segno della nostra limitazione creaturale. Al contrario, opporsi positivamente a un bene è sempre un male.

Come si è visto nel capitolo precedente, la bontà intelligibile dell’atto sessuale umano si mostra in due dimensioni: quella procreativa e quella unitiva. Da ciò che abbiamo detto ora, risulta che nessuna delle due deve essere esclusa dalla persona. È meglio, tuttavia, procedere prima in modo analitico e poi affrontare il tema di questa non esclusività.

(A) Richiamiamo, per cominciare, quale è il concetto rigoroso di dimensione procreativa. Essa, semplicemente, connota il fatto che l’atto sessuale pone le condizioni del concepimento di una nuova persona umana.

Quando questa posizione può essere voluta razionalmente? Quando, cioè, la volontà vuole la bontà intelligibile presente in essa?

Poiché è nel concepimento di una persona umana che si pongono le condizioni, è moralmente necessario che l’atto avvenga in un contesto nel quale si possa prudentemente prevedere che il possibile concepito sarà rispettato nella sua dignità di persona, cioè nei suoi diritti fondamentali. La prima condizione perché la previsione sia prudente è che l’uomo e la donna siano uniti in un matrimonio legittimo: solo questa comunità stabile assicura che la nuova persona entra nell’esistenza in una condizione nella quale le può essere assicurata quella cura di cui ha bisogno, sia in senso fisico sia in senso spirituale.

Ma questa condizione è necessaria, ma non sufficiente. La nuova (possibile) persona umana, infatti, ha il diritto a un’educazione che la possa portare a quella sufficiente pienezza di umanità che le consente di essere-agire come persona. Che cosa questo comporti è da determinarsi normalmente nelle varie situazioni.

Queste condizioni riguardano il (possibile) concepito. Tuttavia, poiché ovviamente in questo evento sono coinvolti profondamente anche i due genitori, consegue che anche la loro condizione fisica, psichica e spirituale deve entrare nel giudizio prudenziale di cui stiamo parlando.

Ogni persona che nasce, entra in una comunità umana più ampia che quella della sua famiglia. Questa comunità, sia quella civile sia quella ecclesiale, riceverà benefici dalla sua presenza poiché ciascuno è chiamato a cooperare al bene comune della società in cui vive. Questo bene deve essere tenuto presente nel giudizio prudenziale dei due sposi.

L’etica cattolica e la dottrina del Magistero hanno sintetizzato tutto quanto detto finora con un’espressione divenuta ormai tecnica: procreazione responsabile. Essa, allora, si può definire nei termini seguenti: la procreazione responsabile è l’atto della volontà con cui due sposi decidono di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana, in un contesto nel quale prudentemente si presume che la persona del (possibile) concepito sarà rispettata nei suoi diritti fondamentali.

Da questo concetto derivano alcuni corollari.

Il primo: procreazione responsabile non è un concetto negativo, ma positivo. Esso definisce dal punto di vista etico come deve muoversi la volontà umana verso questa bontà presente nell’atto sessuale. Solo di conseguenza esso dice come non deve muoversi: quando cioè non procreare.

Il secondo: la volontà di un bene non ha bisogno di nessuna giustificazione estrinseca al fatto puro e semplice che è un bene ciò che è voluto. È necessario giustificare il contrario: non volere un bene. Si devono avere ragioni per non procreare, non per procreare. Gli sposi devono ritenere di essere chiamati a procreare, fino a quando non è dimostrato il contrario.

(B) L’altra dimensione con cui si presenta la bontà intelligibile presente nell’atto sessuale è quella unitiva. Essa connota il fatto che l’atto sessuale esprime-realizza la comunione interpersonale. Quando questo bene intelligibile è voluto?

Poiché si tratta di un dono fra le persone che si esprime attraverso l’unificazione dei corpi, esso esige definitività ed esclusività, come vedremo parlando del matrimonio. Esso, cioè, non ammette limiti di tempo nel legame da cui quel dono nasce e può accadere solo e sempre fra le stesse due persone. In una parola: esige che i due siano uniti da un vincolo coniugale monogarnico e indissolubile.

Le circostanze concrete in cui questo dono può essere veramente tale non possono che essere lasciate al giudizio prudenziale dei due sposi. È impossibile scendere a una casistica precisa.

(C) Poiché se è lecito non volere un bene, non è mai lecito rifiutare positivamente il consenso della volontà ad esso, ne deriva che ogni atto sessuale deve essere l’esecuzione, l’espressione di una volontà che vuole sempre sia il bene della procreazione sia il bene della comunione interpersonale, bene presente nell’atto sessuale. Che cosa significa tutto ciò?

La realizzazione perfetta della bontà intelligibile presente nell’atto sessuale si ha quando i due sposi diventano (eticamente parlando) "due in una sola carne", ponendo al contempo le condizioni per il concepimento di una nuova persona umana. Quando il loro atto sessuale esprime un atto di volontà responsabilmente procreativo e unitivo.

Tuttavia, non sono da escludere situazioni nelle quali non si devono (eticamente parlando) porre le condizioni per un possibile concepimento di una nuova persona umana: la loro decisione deve essere non-procreativa. In questa situazione, qualora vogliano avere rapporti coniugali, l’unica via eticamente percorribile è quella di astenersi dai rapporti durante il periodo fertile e avere rapporti solo nei periodi infertili. Rimando al capitolo seguente la ragione ultima di questa affermazione.

Ancora, non sono da escludere situazioni nelle quali un nuovo concepimento può essere voluto responsabilmente, tuttavia l’atto sessuale non rispetterebbe la dimensione unitiva che gli è intrinseca. È il caso, per esempio, di una coppia nella quale uno dei due sposi, per ragioni giuste, non è disponibile ad avere un rapporto coniugale. In questa situazione, l’unica via eticamente percorribile è l’astinenza dal rapporto sessuale, perdurando questa situazione.

Infine, la quarta ipotesi possibile è quella dell’esistenza di una situazione nella quale non si deve voler procreare, né è possibile rispettare la dimensione unitiva dell’atto sessuale. Anche in questa situazione, l’unica via eticamente percorribile è l’astinenza dal rapporto sessuale.

Possiamo ora comprendere il significato positivo dell’affermazione secondo la quale la dimensione procreativa e la dimensione unitiva, presenti nell’atto sessuale, sono inscindibili.

Si tratta di un’inscindibilità in senso etico, non fisico: di diritto e non di fatto. Essa cioè non è che la conseguenza particolare di una verità etica universale: la volontà, scegliendo di compiere un atto, deve volere la bontà presente in esso. Ma la bontà presente nell’atto sessuale è costituita e dalla sua procreatività e dalla sua unitività. (Rimandiamo al capitolo seguente il significato negativo di questo concetto).

2. (La virtù della castità). La volontà si muove verso il bene intelligibile dell’atto sessuale mediante la messa in esecuzione della facoltà sessuale. Donde consegue che essa (facoltà) deve essere disposta a eseguire il movimento della volontà, a lasciarsi informare da esso, a integrarsi in esso. L’integrazione della facoltà sessuale nella volontà, e quindi nella persona, è la virtù morale della castità: la persona si orienta verso la bontà intelligibile della sessualità divenendo casta.

Prima di passare alla riflessione sulla virtù della castità, credo che sia utile richiamare alcune verità fondamentali riguardanti la virtù morale in genere, più precisamente le virtù morali che ordinano i nostri movimenti psichici, prescindendo dalla virtù morale (la giustizia) che ordina la nostra facoltà appetitiva spirituale (la volontà).

La prima verità che giova richiamare è che la virtù morale orienta, intenziona le nostre facoltà psichiche (adpetitus sensibilis) verso il bene loro proprio (bonum sensibile) in quanto e perché esso deve essere integrato nel bene proprio della persona come tale (bonum intelligibile). (Non si deve dimenticare a questo punto tutta la nostra riflessione sull’integrazione della persona).

Le nostre facoltà psico-fisiche tendono per natura al bene loro proprio, al bene che è presente dentro i confini della loro intenzionalità. A questo livello, siamo ancora fuori dal territorio dell’etica: questa tendenza, dal punto di vista etico, non è ancora qualificabile né come buona né come cattiva. Analogamente a quanto accade nella facoltà spirituale della volontà. Anche essa tende naturalmente al suo bene proprio che è sia il bene come tale (bonum in communi) sia il bene intelligibile: a questo livello essa (la volontà) non è eticamente né buona né cattiva.

Perché le nostre facoltà psichiche siano orientate non solo al bene loro proprio in quanto tale (orientamento che è in esse congenito), ma siano orientate al bene loro proprio in quanto deve essere integrato nel bene intelligibile, hanno bisogno di essere perfezionate e come essere introdotte in un universo che le supera: l’universo dei beni intelligibili. Hanno bisogno di essere integrate nel movimento della volontà verso il bene intelligibile, dal momento che le facoltà psichiche sono interiormente e permanentemente orientate, intenzionate verso il loro bene, ma che è bene integrante (parte integrante del) il bene della persona come tale.

Questa permanente intenzione (questo essere intenzionato) è ciò che chiamiamo virtù morale.

La seconda verità che giova richiamare è ancora più importante di quella precedente. La realizzazione del bene umano nella sua integralità non può non essere sempre connessa con le molteplici circostanze storiche: essa non può essere predeterminata e prestabilita una volta per sempre. Possiamo solo prestabilire una volta per sempre, in via negativa, se un atto è o non è intrinsecamente orientato contro il bene della persona (atti intrinsecamente illeciti). Ma non si realizza il bene non facendo il male, ma semplicemente facendo il bene.

Data la molteplicità innumerevole di situazioni in cui l’uomo può venirsi a trovare, nel suo cammino verso il bene, l’uomo deve non solo essere orientato, intenzionato ad esso, ma deve essere in grado di compiere quelle scelte che realmente, effettivamente lo conducono al bene. La scelta è un atto specificamente della nostra volontà. Tuttavia, ancora una volta, la messa in atto della scelta esige spesso anche la dinamizzazione delle facoltà psico-fisiche. Esse, dunque, devono essere interiormente disposte a essere informate dalla scelta della volontà.

La scelta implica sempre un giudizio ("questa scelta mi conduce, in questa situazione, al bene") che è sempre il frutto di una deliberazione più o meno lunga, più o meno complessa, fatta sulla base di un confronto fra più possibili scelte. Ora, il giudizio non è un atto della volontà, ma della ragione. La ragione è abilitata in maniera efficace a formulare giudizi veri di elezione dalla virtù della prudenza. Questa virtù, pertanto, è quella disposizione permanente o capacità abituale della nostra ragione a indicare quale scelta, in una determinata situazione, conduce la persona umana al suo bene: quale scelta è cioè veramente buona, in quanto è in verità via verso il bene della persona.

La volontà, in quanto facoltà appetitiva spirituale, è naturalmente orientata a fare proprio il giudizio prudente della ragione e, pertanto, se non è "disturbata" da una forza estrinseca, essa farà la scelta conforme a quel giudizio. Questo "disturbo" può provenire dalle facoltà psichiche che non siano orientate, intenzionate stabilmente verso il bene intelligibile, con la conseguenza che la volontà anziché integrare il loro movimento, si lascia integrare (sottomettere) da esse. Il bene sensibile esercita così un’attrazione più forte che il bene intelligibile. La virtù morale, quindi, non solo intenziona al bene della persona, ma anche consente alla volontà una scelta buona, nel senso che essa orienta, intenziona le facoltà psico-fisiche verso ciò che conduce al bene della persona, ciò che è oggetto della scelta. Questo orientamento o inclinazione, conseguente e conforme al giudizio prudenziale, costituisce l’atto elettivo della virtù.

Tenendo conto di queste due premesse generali sulle virtù morali, si può ora iniziare la nostra riflessione sulla virtù della castità.

Nel capitolo precedente abbiamo visto quale è precisamente la bontà intelligibile dell’atto sessuale. In questo capitolo, nel paragrafo precedente a questo, abbiamo visto quale è l’atto della volontà intrinsecamente buono, cioè orientato realmente verso quel bene intelligibile.

Ma il compimento dell’atto sessuale non è esclusivamente un atto di volontà: esso coinvolge anche le facoltà psico-fisiche della persona. Non esiste solo un bene intelligibile, ma anche un bene di altro ordine nella sessualità umana. un bene che, per brevità, chiamerò d’ora in poi bene sensibile. È assai importante definire rigorosamente questo concetto.

Possiamo partire dalla constatazione di un fatto molto semplice e noto: l’istintiva attrazione dell’uomo verso la donna e viceversa. Si noti subito il carattere "istintuale" di questa attrazione. Esso non ha in sé e per sé nessuna connotazione etica negativa: è la semplice constatazione di un fatto. L’istintualità non significa solo né principalmente che si tratta di un movimento non imperato dalla volontà, precedente ad essa. Essa significa che il movimento accade nell’àmbito dello psichismo umano: è una re-azione di fronte a un "oggetto". È una re-azione che consiste nel reciproco tendere di entrambi, dell’uomo e della donna, all’avvicinamento, all’unione dei corpi, a causa di ciò che in questo avvicinamento, in quest’unione si intra-vede: l’appagamento di un desiderio di completezza reciproca. La tendenza trova la sua radice nella reciproca attrattiva, di cui si è appena parlato, che estende il suo dominio nella sfera emotiva della persona e coinvolge anche la sua corporeità (mascolinità/femminilità). Essa trova il suo fine e la sua fine nella congiunzione sessuale in quanto atto che l’appaga: nella congiunzione sessuale in quanto unificazione nella corporeità, che genera un senso di piacere, dovuto a un desiderio soddisfatto.

Sia considerato nella sua radice sia conseguentemente considerato nel suo fine, questo movimento non è da persona a persona, ma da una mascolinità a una femminilità e viceversa. La persona può essere vista solo mediante un atto intellettivo e voluta solo mediante un atto di volontà: i movimenti psichici non possono attingerla. Ciò che essi attingono è la sessualità in quanto tale, non la sessualità in quanto dimensione o linguaggio della persona. Per brevità, d’ora in poi chiamiamo questa dimensione della sessualità umana (quella psico-fisica), in sé stessa considerata e per sé stessa, la dimensione erotica.

Una volta compresa la natura dell’eros, si sarebbe tentati di andare oltre una qualificazione etica neutrale (né buono né cattivo in sé e per sé), qualificandolo negativamente, già solamente considerato in sé e per sé.

La Tradizione etica della Chiesa, pur avendo avuto qualche incertezza al riguardo, ha rifiutato e rifiuta un tale giudizio negativo. E la ragione è semplice e profonda: l’eros è ciò che consente la realizzazione della bontà intelligibile della sessualità. È la via attraverso la quale la volontà umana può orientarsi verso quella bontà. Ma questa stessa riflessione ci dice anche che nell’eros è presente una bontà meramente sensibile: non è in sé e per sé portatore di una bontà intelligibile. Esso, cioè, è eticamente neutro: né estraneo né contrario al bene intelligibile e all’atto della volontà che vuole questo bene. L’eros diventa suscettibile di una qualificazione etica solo quando si incontra con la volontà.

Questo incontro può consistere nell’integrazione dell’eros nel movimento della volontà verso il bene intelligibile o, al contrario, nell’integrazione — che ha carattere di schiavitù — della volontà nell’eros. Il primo tipo di integrazione è costituito precisamente dalla virtù della castità.

In quanto virtù morale, alla castità vanno attribuite quelle due proprietà di ogni virtù morale, di cui si è parlato all’inizio di questo paragrafo. Essa, pertanto, è la virtù che intenziona, ordina l’eros umano verso la bontà intelligibile della sessualità umana: lo rende partecipe dell’ethos della sessualità umana (prima proprietà). Inoltre, e soprattutto, la virtù della castità inclina l’eros verso quella scelta che realizza in ogni circostanza il bene intelligibile della sessualità umana. Che cosa significa tutto questo? O in che cosa precisamente consiste questa integrazione dell’eros nell’ethos della sessualità?

L’unità sostanziale della persona umana pone d’interno dell’eros umano l’esigenza di essere informato, ispirato e governato dal movimento della volontà verso la bontà intelligibile della sessualità umana. Questa informazione, ispirazione e regolazione, non solo non è contro l’eros umano, ma ne è condizione perché esso possa realizzarsi in forma perfetta. La castità, che rende l’eros capace di essere così ispirato e governato (dalla volontà), è esigenza intrinseca all’eros stesso. Per quale ragione?

La bontà intelligibile della sessualità umana consiste, come già si è visto, nel suo essere cooperazione con l’amore creativo di Dio e inscindibilmente nel suo essere linguaggio della persona come tale, chiamata alla comunione interpersonale nel dono di sé. Quando la volontà vuole una sessualità che sia meno che questo, essa la degrada e in essa degrada la persona, ne deturpa l’intima bellezza. D’altra parte, la volontà non può esercitare la sessualità se non mediante l’eros; eros che per sé e in sé è incapace di elevarsi al grado, all’universo del bene intelligibile. È necessario perciò riscoprire continuamente in tutto ciò che è "erotico" il significato personale del corpo e l’autentica dignità del dono. È necessario che la pura percezione del bene intelligibile della sessualità e il suo amore diventino la forma costitutiva dell’eros e che l’eros si lasci penetrare da questa pura percezione e amore. In questo incontro fra l’eros e l’ethos nel cuore umano consiste la virtù della castità, il cui frutto è l’atto sessuale intrinsecamente buono. Quell’atto di cui si è parlato nel primo paragrafo di questo capitolo.

Vista l’intima struttura della virtù della castità, possiamo chiederci quali siano le condizioni fondamentali perché essa possa nascere, svilupparsi e radicarsi stabilmente nell’eros umano. Quali siano, cioè, quelle attitudini che concorrono al suo sorgere e conservarsi.

Esse sembrano essere principalmente due: il pudore e la purezza dello sguardo interiore.

Il pudore consiste essenzialmente in un’attitudine di difesa del proprio corpo in quanto espressione della persona. Attitudine, dunque, che nasce dal timore che la persona, precisamente attraverso e nella espressione corporea, sia offesa nella sua dignità. È per questo che il pudore tende istintivamente alla riservatezza.

Riflettendo attentamente su questa attitudine, possiamo scoprirne il valore etico. Essa, da una parte, condiziona la virtù della castità: l’uomo privo di pudore non può essere casto. Ma, dall’altra, esso non raggiunge la dignità della virtù vera e propria: la persona che sia solo pudica non può vivere secondo il bene intelligibile proprio della sessualità.

Il pudore, in primo luogo, non è una virtù. Esso, infatti, muove la persona alla difesa dal pericolo che la persona possa essere deturpata nella e a causa della sua sessualità. Ora, la virtù morale non esiste per difendersi da un pericolo (da un male), ma per realizzare il bene (intelligibile della sessualità umana), nella pienezza dell’essere personale.

Il pudore, tuttavia, condiziona la virtù della castità, nel senso che in esso la persona è messa in allarme perché l’eros non diventi una forza autonoma e, quindi, distruttiva della persona umana.

La seconda attitudine spirituale che condiziona il sorgere e il conservarsi della virtù della castità è la purezza dello sguardo interiore.

In questo contesto, il termine purezza ha un significato molto specifico. Come è noto a tutti, la conoscenza umana è sempre conoscenza dell’intelligibile nel sensibile: essa è precisamente questa capacità di intravedere, dentro a ciò che i sensi sentono, "qualcosa" che sta oltre l’esperienza sensibile. È in questo contesto che possiamo comprendere in che cosa consiste la purezza dello sguardo interiore.

Se la percezione del mondo, nel suo aspetto esteriore, è un fatto diretto e quasi spontaneo, la visione dell’intelligibile comporta una fatica. Come ha spiegato molto bene Platone. in pagine giustamente famose, la prima navigazione, quella che avviene semplicemente sotto la spinta del vento, non costa fatica ai naviganti. La seconda, quella che esige lo sforzo dei remi, è faticosa. L’uomo deve lasciare le immagini sensibili, svegliarsi dalla ipnosi del sensibile, per vedere nelle cose, soprattutto nelle persone, la loro realtà intelligibile: deve, appunto, tenere puro il suo sguardo interiore.

Quest’attitudine è particolarmente necessaria per la castità. L’eros, infatti, viene informato dalla volontà che ama il bene intelligibile della persona umana e, reciprocamente, l’amore del bene intelligibile si esprime attraverso il linguaggio erotico. Perché questo incontro accada nel cuore dell’uomo, è necessario, prima di tutto, che l’intelletto sappia vedere nitidamente questa bontà intelligibile. Più concretamente: intra-veda nel corpo la persona. E solo così, i movimenti erotici hanno una sorta di "arresto" che consente alla volontà di integrarli nel suo proprio movimento. Come infatti già annotava san Tommaso, "questo lo può sperimentare ciascuno in sé stesso: applicando, infatti, delle considerazioni universali, possiamo smorzare o accendere l’ira, il timore o altri simili movimenti" (I, q. 81, a. 3). Per esempio: se uno di noi è preso da un subitaneo movimento o sentimento di timore, possiamo cercare di frenarlo, pensando che non è ragionevole avere paura per cose di poco conto, che "a ogni giorno basta il suo affanno", che... non bisogna fasciare la testa prima di romperla. Il pudore opera questo arresto; pertanto, senza pudore non esiste la virtù della castità.

Vista la natura della castità, le sue condizioni fondamentali, non sarà inutile fare qualche riflessione su un’altra attitudine spirituale che è certamente connessa con la castità, l’accompagna necessariamente, ma non entra nella sua costituzione. Si tratta della continenza.

Come già il termine stesso dice, si tratta di un’attitudine di dominio dei propri movimenti, che si esprime però in un "contenimento" dei medesimi. Concretamente, nel non esercitare la propria facoltà sessuale. Essa accompagna necessariamente la castità. Infatti, come abbiamo visto nel primo paragrafo di questo capitolo, ci sono situazioni nelle quali l’amore del bene intelligibile della sessualità umana esige pienamente e semplicemente una più o meno lunga astinenza da ogni attività sessuale. In queste situazioni, non astenersi comporta un atto che è contro la virtù della castità. Tuttavia, l’astinenza non è un atto di castità. O meglio: l’atto del contenersi non attinge la perfezione propria dell’atto casto. E ciò per due ragioni connesse fra loro. La continenza è un’esigenza che significa una non perfetta integrazione dei movimenti psico-fisici della sessualità nei movimenti spirituali. È precisamente la deficienza dell’integrazione che spiega un movimento contro i movimenti psico-fisici e l’esigenza di dominarli: dominio in cui consiste la continenza. La bontà intelligibile della sessualità è stata pienamente realizzata nella persona in cui vige una perfetta integrazione, cioè nella persona casta.

E c’è una seconda e più profonda ragione. Nella persona continente, la bontà intelligibile della sessualità umana è stata realizzata solo nella volontà; nella persona casta, quella bontà è stata impressa in tutta la persona.

Non si deve, tuttavia, dimenticare che la continenza è una necessaria alleata della castità. Per le ragioni che vedremo subito nel paragrafo seguente. E su questo rapporto dovremo riflettere lungamente quando parleremo della verginità consacrata, nella quale la continenza deve essere perfetta e perpetua.

3. (La virtù della carità e il dono dello Spirito). Dalla riflessione, appena conclusa, sulla virtù della castità, deriva che la realizzazione della bontà intelligibile della sessualità umana dipende, originariamente, dall’attitudine della volontà.

Con la riflessione sulla volontà, entriamo nel "cuore" stesso della persona: nulla è più intimo, più interno alla persona che la volontà in quanto facoltà degli atti liberi. L’atto libero è l’atto della persona in senso eminente: ogni altro atto è della persona tanto-quanto è imperato dalla volontà libera. Mediante l’atto libero la persona genera sé stessa: diviene padre-madre di sé stessa. Siamo, dunque, arrivati a quel "fondo" della persona di cui parla la Tradizione mistica della Chiesa.

In quanto facoltà spirituale, la volontà si radica nell’intelletto e sgorga dall’essenza stessa dello spirito mediante l’intelletto. Ne viene che essa (la volontà) è naturalmente portata ad amare il bene intelligibile, integrando in questo amore i movimenti infraspirituali verso i beni sensibili. Tuttavia, la nostra quotidiana esperienza smentisce clamorosamente questa condizione della volontà. La smentita è duplice. Una prima, più superficiale, è descritta da Ovidio in un famoso passo: "vedo il bene e lo approvo e faccio il male". La volontà, cioè, sceglie consapevolmente e liberamente di non fare il bene e di fare il male. Ma vi è una smentita ancora più profonda e drammatica. Questa contraddizione, di cui parla il poeta, non avviene solo nell’àmbito delle nostre scelte. Essa si radica in una profonda fatica che la volontà "sente" nel suo movimento verso il bene, prima ancora che nelle scelte particolari; in una sorta di "costrizione" che le impedisce di camminare speditamente verso il bene. È come quando la nostra facoltà locomotiva è parzialmente paralizzata: camminiamo a fatica, con sforzo, nel pericolo di cadere sempre. La volontà è come ferita: ha perduto la sua originaria intenzionalità verso il bene. La Tradizione cristiana parla, con un termine assai suggestivo, di vulnus malitiae. La bontà della volontà consiste nel suo essere orientata, intenzionata verso il bene (intelligibile) (così come la bontà dell’intelletto consiste nel suo essere orientato, intenzionato verso il vero, così come per l’occhio verso la luce e il colore). Questa bontà (della volontà) è stata "ferita", nel senso che quell’orientamento è stato attenuato: la volontà si è come incurvata su sé stessa.

La conseguenza di questa condizione è una profonda disintegrazione nella persona: il movimento sessuale psico-fisico prevale sul movimento della volontà, in quanto questa si lascia dominare, permette di essere assoggettata. Nel capitolo seguente studieremo più a lungo questo fatto.

Il bene intelligibile della sessualità diventa possibile solo se la volontà è guarita. In che cosa consiste questa guarigione? Come la volontà umana riacquista la sua originaria capacità di volere il bene intelligibile della sessualità umana?

Per rispondere a questa difficile domanda, possiamo partire da un testo di san Tommaso, che descrive nella sua semplicità un fatto spirituale molto profondo: "id quod apprehenditur sub ratione boni et convenientis, movet voluntatem per modum obiecti. Quod autem aliquid videatur bonum et conveniens, ex duobus contingit: scilicet ex conditione eius quod proponitur, et eius cui proponitur. Conveniens enim secundum relationem dicitur: unde ex utroque extremorum dependet" "Quanto viene appreso sotto la ragione di cosa buona e conveniente muove la volontà come suo oggetto. Ora, codesta bontà e convenienza può dipendere da due cose: dalla disposizione dell’oggetto, e da quella del soggetto cui viene presentato. Infatti il temine coriveniente sta a indicare una relazione: cosicché dipende dai due termini correlativi" (1-11, q. 9, a. 2).

Per comprendere profondamente il testo tomista, dobbiamo fare uno sforzo di ritorno in noi stessi e prendere esplicitamente coscienza di che cosa accade in noi nel "momento" che sta fra l’intelligenza di un bene operabile e la scelta di operare quel bene: dopo l’atto intellettivo (che mostra il bene), prima della scelta del bene. Si ha una specie di inclinazione verso quel bene che precede (e non è ancora) la scelta: l’inclinazione non è altro che l’eco che risuona nella volontà della voce dell’intelletto. Cioè: in quanto facoltà spirituale, la volontà si radica nell’intelletto e ne è come il naturale prolungamento.

Tuttavia, acutamente il Dottore angelico non parla solo di "bontà", ma anche di "convenienza". E, infatti, la nostra esperienza interiore ci testimonia quotidianamente la nostra indifferenza anche completa di fronte a molti beni. Perché dalla nostra volontà emani quell’inclinazione di cui parlavo, è necessario che fra la nostra volontà — più profondamente e più concretamente: la nostra persona — e il bene conosciuto ci sia "una corrispondenza di amorosi sensi", una reciprocità, una proporzionalità. Non è facile concettualizzare questo evento spirituale. Probabilmente possiamo farlo attraverso il concetto di "somiglianza per connaturalità". Due simili per natura si uniscono naturalmente. Possono, tuttavia, esistere due tipi di somiglianza fra A e B. A e B sono simili in quanto posseggono la stessa natura e/o la stessa perfezione, oppure, A e B sono simili in quanto A è in potenza a essere come B: l’atto infatti è, in qualche modo, nella potenza. E anche in questo secondo tipo di somiglianza A tende per connaturalità verso B.

Limitiamo la nostra riflessione al secondo tipo di somiglianza, poiché esso raffigura il rapporto fra volontà e bene intelligibile. La volontà ha bisogno di essere connaturalizzata al bene, di essere proporzionata e coadattata ad esso. A quale bene? Al bene intelligibile della sessualità umana. Poiché esso consiste, in ultima analisi, nella comunione interpersonale e nel dono della vita, questa connaturalizzazione, proporzionalità, co-adattazione consiste nella virtù della carità. Cerchiamo di analizzare questo punto.

La connaturalizzazione deve consistere in una virtù. Non si tratta, infatti, di atti episodici, ma di una disposizione permanente, di una trasformazione stabile che può rendere possibile — e solo essa lo può — l’atto episodico, nelle circostanze in cui deve compiersi.

Deve consistere nella virtù della carità. Nulla infatti è più originario nei movimenti della volontà, nulla viene prima, dell’amore. E, inoltre, il bene intelligibile della sessualità, in quanto bene operabile, consiste in un’adeguata risposta al bene della persona, in una risposta misurata sul valore della persona. E solo l’amore assicura questa adeguazione, questa giusta misura, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Solo dunque quando la volontà è governata dalla carità, essa è inclinata stabilmente verso il bene intelligibile della sessualità umana e può scegliere di compiere questo bene.

Possiamo ora riconsiderare brevemente il cammino fatto, servendoci di un esempio. Perché l’atto di comporre una sinfonia sia, nel suo genere, perfetto, abbia cioè come effetto un capolavoro artistico, sono necessarie due cose nel compositore. In primo luogo, egli deve conoscere perfettamente, deve saper usare perfettamente il linguaggio musicale: essere capace di esprimersi musicalmente. In secondo luogo, deve vivere una profonda esperienza artistica: deve accadere qualcosa di molto profondo nel suo spirito. Dunque: atto (= composizione); capacità espressiva: ispirazione artistica.

Analogamente accade nell’esercizio della sessualità umana. L’atto è il risultato della capacità espressiva (facoltà sessuale); espressiva dell’autodonazione della persona. La capacità espressiva è costituita nella sua perfezione dalla virtù della castità. La persona è resa capace di volere il bene intelligibile della sessualità dalla virtù della carità. La persona esprime sé stessa nel e attraverso l’esercizio casto della sua facoltà sessuale. Si dà dunque questa omologia:

Atto compositivo ç è Atto sessuale casto

Capacità musicale ç è Virtù della castità

Ispirazione artistica ç è Carità

Prima di continuare la nostra riflessione, è utile prendere brevemente in considerazione alcune conseguenze che derivano da quanto si è detto.

La prima. La castità è al servizio della carità e non viceversa. Si ama non per essere casti, ma si è casti perché si ama. La virtù della carità estende il suo dominio anche sulla dimensione psico-fisica della sessualità umana; penetra con il suo dinamismo proprio anche in essa. Questa penetrazione, questa estensione è costituita dalla virtù della castità. La castità è il sigillo e l’impronta che la carità imprime nella sessualità umana.

La seconda conseguenza è strettamente connessa con la prima. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che si attribuisce una funzione semplicemente determinante alla carità, all’interno dell’esercizio della sessualità umana. In realtà, questa funzione non è limitata a questo àmbito dell’agire umano, quello della sessualità. Essa è esercitata in ogni àmbito. L’orientamento impresso dalla carità alla volontà è la radice, infatti, di ogni scelta di ogni bene umano intelligibile operabile; è il seno dal quale ogni scelta è generata.

La terza e ultima conseguenza è strettamente connessa con la seconda. La infusione della carità nella volontà è il primo effetto della presenza dello Spirito Santo nella soggettività spirituale dell’uomo. È questa inabitazione l’evento decisivo per l’agire umano, il quale pertanto viene a configurarsi come frutto di questa presenza: frutto dello Spirito. Egli reintegra pienamente il corpo nella persona, redimendolo dalla sua corruttibilità. La redenzione del corpo è esplicitamente connessa nel Nuovo Testamento alla presenza in noi dello Spirito Santo. La sua glorificazione è dovuta allo Spirito. E, come vedremo, questo evento salvifico, questa redenzione della sessualità umana può assumere due forme fondamentali, la forma coniugale e la forma verginale.

Quest’ultima riflessione ci conduce all’ultimo momento della nostra riflessione etica sulla sessualità umana.

Il bene intelligibile della sessualità umana deve essere voluto in circostanze spesso molto diverse fra loro. Inoltre, permane sempre nel giustificato una sorgente. una "fonte" di movimenti contrari alla castità all’interno della sua sessualità, e di movimenti contrari alla carità nella sua volontà. La nostra persona, dunque, ha bisogno di una conduzione, di una guida che la spinga verso quel bene. Una guida che preceda la sua decisione e la renda possibile.

Riprendiamo il famoso esempio platonico della navigazione. Certamente, la navigazione non può essere lasciata in balia dei venti: essi la conducono ovunque, col rischio del naufragio (= attrazione del bene sensibile; carenza della volizione del bene intelligibile). È necessario che si navighi con la spinta dei remi, tenendo in mano saldamente il timone (= virtù della castità; volizione del bene intelligibile sanata ed elevata dalla virtù della carità). Tuttavia non è ancora sufficiente: è sempre possibile che la stanchezza faccia rinunciare alla "seconda navigazione". È necessario che lo stesso Amore di Dio prenda in mano la rotta.

La guida che vince la nostra imperfezione è lo stesso Spirito Santo: egli deve divenire sempre più colui che agisce nell’uomo. Alla sua mozione l’uomo è reso disponibile dai suoi doni. Quale dono rende disponibile l’uomo alla mozione dello Spirito, che spinge l’uomo medesimo a volere il bene intelligibile della sessualità umana?

La nostra esperienza quotidiana ci mostra che quando la volontà si sottomette al bene sensibile della sessualità, si oscura al massimo la nostra capacità percettiva e volitiva del bene intelligibile. Il disordine nella volizione di un bene intelligibile (per esempio, un atto di ingiustizia), pur essendo moralmente assai più grave che un atto contro la virtù della castità, non conduce lo spirito a una forma di schiavitù così umiliante. In altre parole: è la persona nella sua intima dignità di persona, nello splendore intelligibile del suo essere persona, che è deturpata. Un peccato contro la castità è più umiliante che un peccato contro la giustizia, poiché nel peccato contro la castità ciò che è ontologicamente superiore viene assoggettato a ciò che è ontologicamente inferiore. Il risultato è una forma di ebetudine spirituale, di debolezza percettiva della mente.

L’uomo ha bisogno di vedere immediatamente la bellezza dell’ordine ontologico e assiologico, presente nell’universo intelligibile: quell’ordine che ha la sua causa ultima nella Sapienza divina che è il Verbo incarnato. Questa "facoltà visiva" è la sapienza. Lo Spirito, elevando l’intelletto alla Sapienza, lo abilita a ricevere una luce, piena di amore, che spinge la persona a vedere e a gustare il bene intelligibile (della sessualità umana). Nel dono della Sapienza si compie perfettamente la redenzione della sessualità umana.

Concludendo, possiamo sinteticamente descrivere l’evento della redenzione della sessualità umana. Lo Spirito Santo abita nel "cuore" della persona e la dispone permanentemente a ricevere la sua luce e la sua mozione (dono della Sapienza): luce nella quale la persona intuisce la preziosità, la bellezza unica dell’essere-persona e mozione che la spinge al dono. In questo modo la sua volontà è orientata al bene intelligibile della sessualità (virtù della carità). Essa ispira e governa la dimensione erotica della sessualità, che si integra così nella persona (virtù della castità). E la persona realizza la sua castità nella santità.

 

Sussidi per la riflessione personale

1. Per l’approfondimento di tutto il tema svolto nel capitolo sono da leggere le seguenti pagine di san Tommaso: II-II, qq. 141-146 e 151-152; Giovanni Paolo II, Uomo e donna..., cit., pp. 190-234.

2. K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., pp. 103-151 ; J. Pieper, Sulla temperanza, Morcelliana, Brescia 1962; C. Caffarra, La sexualitad humana, Encuentro, Madrid 1987, pp. 29-69.

 

 

Capitolo terzo

ETICA DELLA SESSUALITÀ UMANA (II)

La nostra ragione, conoscendo il bene intelligibile della sessualità umana, conosce per legge di contrarietà il male. Il secondo momento di una riflessione etica sulla sessualità umana deve, dunque, proporsi di determinare in che cosa consista la malizia nell’atto sessuale (§1), quando la facoltà sessuale è stabilmente orientata verso questa malizia (§2), quale disordine si è insediato nella persona, la cui facoltà sessuale è orientata al male e fruttifica in atti contro la castità (§3).

1. Poiché la bontà intelligibile dell’atto sessuale si presenta sotto due dimensioni, quella procreativa e quella unitiva, ogni atto sessuale anti-procreativo e/o anti-unitivo è intrinsecamente illecito. Dividiamo, dunque, la nostra riflessione in due tempi, rispettivamente riflettendo sull’essenza dell’anti-procreatività (1.1) e dell’anti-unità (1.2).

1.1. La determinazione del concetto di anti-procreatività non è facile, per la problematica assai vasta e complessa sorta in questi anni al riguardo. Cercherò di arrivare a questa rigorosa determinazione, attraverso tre successivi passi.

A) Il primo consiste nella distinzione essenziale fra volontà non-procreativa e volontà anti-procreativa. La prima connota una volizione che non è positivamente contro la procreazione; la seconda, una volizione positivamente contraria alla procreazione. Un esempio può aiutarci a cogliere la distinzione essenziale fra le due volizioni.

Un padre di famiglia deve spesso fare i conti con il suo tempo: una parte di esso deve darlo all’esercizio della sua professione, una parte al dialogo con i propri figli. Non si tratta di dover scegliere fra un bene e un male: in ambedue le scelte possibili è presente un bene (intelligibile) operabile. Eppure, ci sono tempi per il lavoro e non per il dialogo con i figli e tempi per il dialogo con i figli e non per il lavoro. La prima scelta non implica un rifiuto del dialogo con i figli: il padre non va a lavorare perché giudica che sia male rimanere a casa a dialogare con i figli, ma semplicemente perché il bene del dialogo non deve essere compiuto — deve essere omesso — in questo momento in cui si deve andare a lavorare. Questa persona non giudica che sia male il dialogo nel tempo del lavoro e/o che sia male il lavoro nel tempo del dialogo: sono ambedue beni che devono essere compiuti nel momento opportuno. Si può anche dire: nel momento in cui opera uno dei due beni, la persona rimane spiritualmente aperta all’altro, nel senso che né la sua ragione lo giudica un male né la sua volontà lo esclude come tale.

Questo esempio ci aiuta a comprendere una dimensione essenziale della vita morale. I due atti sono espressione della stessa virtù della pietà (dei genitori verso i figli). Poiché il bene non è mai contrario al bene (come già Aristotele aveva dimostrato: Predic. II, 13b, 36), nessuno atto di virtù è contrario a un altro atto della stessa (o di un’altra) virtù. E, quindi, non è mai lecito escludere l’uno a favore dell’altro. Infatti, ogni atto di virtù deve essere compiuto nel dovuto modo (o circostanze): se non è compiuto nel modo dovuto, non è più un atto di virtù, ma ha solo l’apparenza di essere tale. In realtà è un atto vizioso. E, pertanto, dare al lavoro un tempo tale che non consenta più di avere un dialogo con i figli, sia pure avendo l’intenzione di assicurare benessere ai figli, non è più un atto di virtù, ma è un atto contro la virtù della pietà (dei genitori verso i figli).

Si può ora cogliere più facilmente la distinzione fra volontà non-procreativa e volontà anti-procreativa. La possibilità, inscritta nell’atto sessuale fertile, di porre le condizioni per il concepimento di una nuova persona umana, è un bene (intelligibile) operabile: giudicarlo un male è un errore ed escluderlo con la volontà è un male. Tuttavia, come è già stato detto, questo bene deve essere compiuto nei dovuti modi (circostanze): come ogni bene, del resto. La virtù della castità orienta precisamente la volontà a compiere bene quel bene. Qualora non esistano le circostanze dovute, quel bene non deve essere compiuto, quindi non deve essere voluto: e questa è la volontà non-procreativa. Ma esso (bene) non deve essere voluto non perché sia diventato male: porre le condizioni del concepimento di una persona non è mai un male. Esso è un bene in sé e per sé. Nei confronti di esso non c’è nessuna opposizione: c’è solo la "sospensione" di una decisione, fino a quando perdurano quelle condizioni. Si ha, cioè, la volontà di non-procreare, ma non la volontà di escludere positivamente, di rifiutare la procreazione. C’è una differenza essenziale fra la volontà che non vuole ciò che giudica bene perché non esistono le circostanze per realizzarlo e la volontà che non vuole ciò che giudica male: nel primo caso essa rimane aperta al bene, anche se non lo compie; nel secondo essa deve rimanere completamente chiusa al male.

B) Il secondo passo consiste nella distinzione fra la volontà di un fine (voluntas intendens) e la volontà di ciò che conduce a un fine (voluntas eligens).

Nel primo caso, la volontà si orienta verso un bene come termine (almeno relativamente) ultimo del suo movimento; nel secondo caso, la volontà si orienta a un bene solo in quanto esso mi conduce a un altro. Ora, sia la volontà non-procreativa sia la volontà anti-procreativa può essere volontà di un fine (voluntas intendens) o volontà di ciò che conduce a un fine (voluntas eligens). Cioè: la volontà che esclude positivamente la procreazione (volontà anti-procreativa), per esempio, può volere questa esclusione, in quanto e perché si giudica che, attraverso essa, si possa raggiungere lo scopo di salvaguardare l’unità coniugale. L’unità coniugale è il bene voluto come fine (voluntas intendens); l’esclusione della procreazione è il bene (ritenuto tale) voluto come via per raggiungere quel fine (voluntas eligens).

All’interno di questa distinzione si pone un importante e difficile problema etico: la bontà/malizia dell’atto volontario di scelta dipende esclusivamente dalla bontà/malizia dell’atto volontario con cui intendiamo un fine?

La Tradizione e il Magistero della Chiesa hanno risposto negativamente a questa domanda, affermando che esistono atti intrinsecamente buoni/cattivi. Il significato preciso di quest’affermazione tradizionale e magisteriale è il seguente. Esistono atti della volontà che semplicemente in ragione del loro oggetto, cioè di ciò che è voluto, sono moralmente buoni/cattivi. Che essi, pertanto, siano voluti con volontà di scelta (voluntas eligens) o con volontà di fine (voluntas intendens), non ha rilevanza sulla loro bontà/malizia intrinseca. Tuttavia, si deve notare una differenza essenziale fra l’atto volontario buono in ragione del suo oggetto e l’atto volontario cattivo in ragione del suo oggetto. Il bene deve essere voluto bene: l’atto deve essere buono non solo perché è buono ciò che è voluto, ma perché è voluto nel modo (circostanze) dovuto e, se si tratta di un atto di scelta, deve essere buono il fine a cui quella scelta è indirizzata. Ma perché l’atto sia cattivo, è sufficiente che sia moralmente cattivo ciò che è voluto. Perché un’opera d’arte sia bella, lo deve essere da ogni punto di vista; perché sia brutta, è sufficiente che anche un solo particolare sia brutto. Come si è già visto: non è sufficiente per agire bene che sia buono ciò che si opera (bonum ex integra causa), mentre per agire male è sufficiente che sia male ciò che si opera (malum ex quocumque defectu).

C) Il terzo passo consiste nel distinguere, nella condotta umana, l’attività interiore (actus interior) dall’attività esteriore (actus exterior).

Questa distinzione non è difficile da cogliere: essa si basa su un’esperienza che viviamo continuamente. Ogni condotta umana implica sempre un atto di volontà, ma spesso essa non si riduce all’atto di volontà né si esaurisce in esso. La guida di un’auto implica un atto di volontà, ma esige anche l’esercizio di molte altre facoltà umane; la comprensione di un teorema di matematica implica un atto di volontà, ma essa è formalmente un atto di intelligenza.

Nella scienza morale, il termine "atto interno" connota esclusivamente l’atto di volontà (intendens o eligens); il termine "atto esterno" connota ogni altro atto che sia compiuto da altre facoltà. Esterno, dunque, non significa osservabile con i sensi: per l’etica anche un atto di intelletto è un atto esterno (alla volontà, cioè).

Tuttavia — lo si deve notare molto attentamente — dal punto di vista etico non si tratta di una distinzione adeguata, ma inadeguata. Cioè: l’etica considera l’atto interno semplicemente tale, ma non considera l’atto esterno semplicemente tale, ma sempre anche in quanto è imperato dalla volontà.

Questa distinzione (inadeguata) è di particolare importanza nell’àmbito della condotta sessuale. Essa, infatti, molto spesso non si esaurisce in un atto di volontà, ma è costituita da un atto di volontà che mette in azione i dinamismi sessuali psicofisici.

È assai importante quindi capire che rapporto esiste fra l’atto esteriore e l’atto interiore, ma non difficile, se facciamo un po’ di attenzione a noi stessi.

Quando la volontà inclina sé stessa a volere il compimento di un atto che altre facoltà possono compiere e, quindi, a ordinare alle altre facoltà di effettuarlo? Quando la ragione intra-vede nel possibile atto (esterno) una bontà (intelligibile): la volontà, infatti, si inclina solo a ciò che la ragione le presenta come bene. E, pertanto, la volontà vuole (che le altre facoltà compiano) l’atto esterno in ragione della bontà presente in esso, conosciuta attraverso il giudizio della ragione; la volontà è buona/cattiva in ragione del bene voluto in questo atto esterno o del rifiuto del medesimo bene.

Siamo ora in grado di definire rigorosamente il concetto di atto anti-procreativo.

La posizione delle condizioni del concepimento di una nuova persona umana costituisce la bontà intelligibile di un atto sessuale fertile. Attraverso la ragione, la persona umana conosce sia la possibilità di compiere un atto sessuale fertile sia questa bontà presente in esso: attraverso questa conoscenza, questo bene può diventare "oggetto" di un atto di volontà (= può essere voluto), diventa cioè un bene operabile.

La volontà può assumere tre atteggiamenti. Può inclinare sé stessa verso questo bene in tre modi fondamentali: operare questo bene (= compiere un atto sessuale fertile); astenersi dall’operare questo bene (= scelta/intenzione non-procreativa); compiere un atto sessuale fertile, ma distruggendo in esso — con un positivo e deliberato intervento — la sua capacità di porre le condizioni di un possibile concepimento (= scelta o intenzione anti-procreativa).

Analizziamo attentamente questa terza possibilità. Essa è costituita in realtà da una duplice decisione volontaria, la libera decisione di compiere un atto sessuale e la libera decisione di distruggere la fertilità ad esso inerente. È importante notare subito che questi due atti di volontà sono formalmente, essenzialmente distinti, poiché lo sono in ragione del loro "oggetto" (= di ciò che è voluto). La prima decisione ha per oggetto l’atto della congiunzione sessuale. Ma la volontà vuole tutto ciò che vuole, perché e in quanto la ragione intra-vede una bontà intelligibile operabile. Dunque, la volontà vuole porre un atto sessuale in quanto esso è un bene per la persona. La seconda decisione ha per oggetto l’atto di distruggere la fertilità presente nell’atto sessuale. Ma la volontà rifiuta (in termini tecnici: odia) tutto ciò che rifiuta, perché e in quanto la ragione intra-vede una malizia intelligibile da evitare (malum est vitandum). Dunque, la volontà vuole porre un atto distruttivo della fertilità in quanto essa è un male per la persona.

E ora riflettiamo attentamente su questa seconda decisione. Questa condotta umana è costituita da tre atti. 1) Un atto della ragione: porre le condizioni del concepimento di una persona umana è un male; 2) un atto della volontà: (poiché la persona è già decisa a compiere un atto sessuale) voglio distruggere questa possibilità: 3) un atto esterno: metto in atto un procedimento contra-cettivo.

Tre dunque sono gli elementi che costituiscono l’atto (meglio: la condotta) anti-procreativo. Il momento centrale, la sua "forma", è però costituito dal secondo momento, l’atto (interno) della volontà. È a causa dell’oggetto di questo atto, di ciò che è voluto, che questa condotta è moralmente viziata. L’essere di una persona è sempre un bene e, quindi, porre le condizioni perché una persona sia è sempre un bene. Non abbiamo mai il diritto di dire di fronte a una persona: "è male che tu ci sia".

Analizziamo ora brevemente il primo atto della condotta contraccettiva: quello della ragione. In esso non consiste formalmente la malizia della contraccezione, poiché un atto della ragione in sé e per sé non è né buono né cattivo, ma solamente è vero o falso. In che cosa consiste l’errore, inerente a questo giudizio della ragione? Nell’avere attribuito un carattere di malizia all’essere personale, che, al contrario, possiede in sé e per sé una sua bontà intrinseca.

Quest’errore può essere causato da una confusione interiore assai profonda. Può, infatti, accadere che si giunga a questo giudizio, considerando le circostanze in cui la nuova persona umana verrebbe all’esistenza e/o in cui si trovano i due possibili genitori: circostanze che obiettivamente — facciamo solo questa ipotesi — devono indurre a pensare in quel modo. Ora, le circostanze non possono mai trasformare in male ciò che è bene, ma possono giustificare che il bene operabile non sia compiuto. Le circostanze sono rilevanti solo nel giudicare se il bene deve essere compiuto o non deve essere compiuto, ma non nel giudicare se un possibile oggetto della volontà è in sé buono. Esse entrano in gioco nel momento esecutivo, non nel momento giudicativo. Infatti, ogni atto esecutivo è storicamente circostanziato, ma non ogni atto giudicativo è storicamente circostanziato. E, quindi, delle due l’una, se si giudica che sia male il venire all’esistenza da parte di una nuova persona umana: o perché il concepimento è un evento eticamente neutrale (actus indifferens) in sé considerato (ratione obiecti) e quindi solo le circostanze lo qualificano eticamente o perché è un evento eticamente buono in sé considerato (ratione obiecti), ma che le circostanze possono trasformare in un evento eticamente cattivo. Ma ambedue questi giudizi sono falsi, per le ragioni appena dette.

In questo contesto. comprendiamo bene la differenza etica essenziale fra volontà non-procreativa e volontà anti-procreativa, precisamente nella luce del loro differente oggetto formale (= ciò a cui la volontà inclina sé stessa = il bene conosciuto dalla ragione). Quando la ragione giudica che il bene insito in un atto fertile non deve essere compiuto, la volontà semplicemente si astiene dal compiere quell’atto: è una volontà non-procreativa che è coerente con il giudizio positivo sul bene della fertilità. Quando la ragione giudica che il bene insito nell’atto fertile ha cessato di esistere come tale (come bene) a causa delle circostanze, la volontà non ha più ragione di astenersi dal compiere quell’atto (poiché in quanto sessuale è buono), dal momento che si sente giustificata dal giudizio della ragione a muoversi contro la fertilità: è una volontà anti-procreativa, contra-cettiva, coerente con il giudizio negativo sul male della fertilità.

Procediamo nella nostra analisi, pur restando sempre nella considerazione dell’atto della ragione. Si potrebbe dire: poiché la persona decide in conformità al giudizio della sua ragione, essa non compie un atto moralmente cattivo. Questo punto, assai importante in etica, va rigorosamente chiarito.

Esistono giudizi razionali falsi e giudizi razionali veri. La verità/falsità del giudizio razionale non dipende dal grado di certezza con cui la ragione assente: possiamo essere assolutamente certi nell’affermare un errore; possiamo essere profondamente dubbiosi nell’affermare una verità. In una parola: la verità del giudizio non dipende affatto dalla coscienza che abbiamo di ciò che mediante il giudizio affermiamo o neghiamo, poiché l’essere non è costituito dalla coscienza dell’essere. Da questa fondamentale verità metafisica deriva che la persona vuole il male ogni volta che la volontà è conforme a un giudizio che giudica come bene ciò che è male, anche se la persona è convinta della verità del suo giudizio. In una parola: chi obbedisce a una ragione che erra (giudicando bene ciò che è male), compie sempre il male: la volontà contraccettiva è sempre ingiusta.

Altro problema è di sapere se questo atto di volontà è imputabile come colpa alla persona che vuole. La risposta dipende dal grado con cui l’errore in cui è caduta la ragione è imputabile alla persona che erra. Se la ragione cade in errore o perché intenzionalmente non vuole sapere, al fine di non legare la propria libertà; o perché l’errore è conseguenza di una negligenza nel ricercare la verità etica che si ha il dovere di sapere; o perché è conseguenza di un orgoglio che impedisce di ascoltare chi può insegnare il vero: la volontà che segue questa ragione non solo compie il male, ma ne è anche responsabile e imputabile. Se, al contrario, la ragione cade in errore per nessuna delle tre ragioni suddette, la volontà che segue questa ragione compie solo il male, ma non ne è responsabile e imputabile: è scusata.

Analizziamo, infine, il terzo atto che costituisce la condotta anti-procreativa: la procedura esterna messa in atto per distruggere la fertilità. Sono i metodi contraccettivi o anti-procreativi. Essi sono l’onanismo, i metodi di barriera, i metodi chimici, la sterilizzazione. Quest’ultimo metodo ha una particolare gravità nei confronti degli altri metodi: esso, infatti, distrugge in modo permanente la possibilità di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana.

Dalla definizione di condotta anti-procreativa e dall’analisi dei tre elementi costitutivi derivano alcuni corollari, che possono risultare utili per una maggiore chiarezza concettuale.

Il primo. Non esiste nessuna somiglianza oggettiva fra la condotta anti-procreativa e la condotta terapeutica, anche se i due comportamenti possono essere identici. Per capire questo importante corollario, si devono spiegare, prima, alcuni termini attraverso i quali esso è stato espresso.

La distinzione fra "condotta" e "comportamento" è una distinzione fondamentale in etica. Il fatto che del denaro sia trasferito dalle mie mani nelle mani di un altro può essere un atto di elemosina, un atto di giustizia (pagare un debito), un atto di ingiustizia (pago perché vada a uccidere), un atto di lussuria (è un rapporto con una prostituta): lo stesso fatto può essere tanti atti essenzialmente diversi. Se considero il puro e semplice fatto del passaggio del denaro da una mano all’altra, descrivo un "comportamento": questa considerazione non ha nessun interesse per l’etica. Se considero questo comportamento in quanto è un atto di elemosina o..., allora sto considerando una "condotta" umana. L’etica si interessa solo di condotta umana, non di comportamenti.

Ciò che trasforma, per così dire, un comportamento in condotta umana è che esso (comportamento) diviene "oggetto" di un atto libero di volontà. Ma, come ho già detto tante volte, un comportamento può divenire "oggetto" di un atto libero di volontà, solo se e solo quando la ragione intra-vede in esso una bontà intelligibile: la volontà, infatti, può inclinare sé stessa solo verso il bene (vero o apparente). Dunque, non un comportamento come tale è ciò che la volontà vuole (sia realizzato), ma quel bene (intelligibile) che la ragione intra-vede in esso: questo bene è l’oggetto della volontà (= ciò che è voluto). Ed è in ragione dell’oggetto della volontà che due comportamenti del tutto identici possono essere essenzialmente — cioè oggettivamente — condotte diverse. Lo stesso comportamento può essere un atto di elemosina, cioè di carità, o un atto di giustizia: può assumere formalità, nature specificatamente diverse.

Ora possiamo capire il primo corollario: il procedimento chirurgico della sterilizzazione è perfettamente identico, dal punto di vista comportamentale, sia che si tratti di un intervento teso a salvare la vita di una donna sia che si tratti di un intervento teso a impedire la procreazione. Ma questa considerazione non ha nessun interesse per l’etica.

Se, invece, considero il procedimento chirurgico come condotta umana, fra i due esiste una differenza essenziale, perché è una differenza oggettiva (in ragione dell’oggetto, di ciò che è voluto). Infatti, nel primo caso la ragione intra-vede nell’atto umano di sterilizzare una bontà intelligibile. Essa consiste nel fatto che si impedisce a una funzione naturale, biologica, di danneggiare la persona. Ora, impedire questo male è un bene. Nel secondo caso, la ragione intra-vede nell’atto umano di porre le condizioni di un concepimento un male. Poiché questo deriva dalla fertilità della facoltà sessuale, si giudica bene la sua distruzione. Ciò che è voluto (= l’oggetto dell’atto della volontà) è la distruzione della fertilità in quanto facoltà che può porre le condizioni, attraverso un atto libero, di un nuovo concepimento. Ma, precisamente, distruggere la fertilità è sempre un male.

Si noti accuratamente. La diversità delle due condotte umane non è a causa del fine che si propone la volontà (voluntas intendens): ciò che la volontà può proporsi come fine può essere eticamente un bene, anche nel secondo caso. Si tratta di una diversità oggettiva, cioè in ragione semplicemente di ciò su cui si porta la volontà, sia esso considerato come fine (voluntas intendens), sia esso considerato come via per raggiungere un fine, eventualmente buono (voluntas eligens).

Il secondo corollario è molto legato al primo. È un errore pensare che la condotta anti-procreativa non sia sempre illecita, sulla base del fatto che esistono interventi chirurgici, certamente leciti, che sono sterilizzazioni. Giungendo, magari, così alla conclusione che è il fine che ci si propone a giustificare o non una sterilizzazione. La confusione presente in un simile modo di ragionare è enorme.

Quando l’etica pronuncia un giudizio di illiceità oggettiva sulla sterilizzazione, non denota un comportamento umano: il soggetto della proposizione etica non è mai, perché non può esserlo, un comportamento. Esso è sempre ed esclusivamente una condotta umana. E la condotta umana è definita in base all’oggetto della volontà della persona che agisce. La qualificazione etica è il giudizio che la ragione dà sull’oggetto e non su altro.

Dunque, quando si afferma che la sterilizzazione è sempre illecita, il soggetto della proposizione (sterilizzazione) non connota un comportamento, ma una condotta umana definita in base all’oggetto inteso e/o scelto dalla volontà (= bontà intelligibile conosciuta attraverso la ragione). La sterilizzazione è una condotta umana anti-procreativa.

Il terzo e ultimo corollario è più sottile. Può esistere una volontà anti-procreativa senza che essa venga eseguita da nessun atto esterno.

Si tenga presente la distinzione fra atto interno e atto esterno. Essendo una distinzione inadeguata, può esistere un atto interno senza nessun atto esterno, ma non viceversa. Può, quindi, esserci un atto interno di volontà anti-procreativo senza nessun atto esterno anti-procreativo. Concretamente: astinenza dai rapporti sessuali nel periodo fertile a causa di una decisione anti-procreativa. Mentre ogni atto esterno anti-procreativo implica sempre un atto interno di volontà anti-procreativo. In altre parole: la qualificazione etica dell’astinenza dipende esclusivamente dalla qualificazione etica dell’atto interno della volontà. L’atto di astenersi può essere buono o cattivo; l’atto di contra-cepire è sempre cattivo.

1.2. La determinazione del concetto anti-unitività è ora più semplice. L’atto è anti-unitivo quando ciò che la volontà (che lo pone) vuole, non è il dono della persona alla persona. È necessario, quindi, che richiamiamo sinteticamente gli elementi costitutivi della donazione interpersonale.

Essa è totale: dal dono niente è escluso. Essa è definitiva: non ammette limiti di tempo. In un essere storico come l’uomo, infatti, la dimensione temporale è essenziale. Limitare nel tempo la propria donazione equivale a escludere la totalità. Essa è esclusivamente fra due. Infatti, non stiamo parlando di una qualsiasi donazione inter-personale, ma di quella che si esprime nel linguaggio della congiunzione sessuale, di quella che si dice nel e attraverso il corpo. Ora, il corpo, per sua natura stessa, è individuante.

Dunque, l’atto è anti-unitivo quando non è volontà di totalità, e/o di definitività, e/o di esclusività.

Quali sono o possono essere le condotte esecutive (actus exterior) di questa volontà anti-unitiva? Le principali sono le seguenti.

La fornicazione, cioè l’unità sessuale di due persone che non sono definitivamente l’una dell’altra, sia essa incontro occasionale siano esse legate da una certa stabilità (ovviamente, in questo secondo caso, la fornicazione è meno grave).

L’adulterio, che è tradimento e rottura di un’alleanza che si è promessa definitiva e costituita legittimamente come tale.

La contraccezione è pure atto anti-unitivo. Come già abbiamo visto, essa consiste nella distruzione della fertilità inerente all’atto sessuale. La fertilità è una dimensione della persona. È la persona, e non semplicemente il suo corpo, a essere fertile. L’atto della unità sessuale esprime una totalità nel dono. Nello stesso momento in cui si dice totalità, si esclude positivamente qualcosa dal dono di sé all’altro. La contraccezione, quindi, non è solo anti-procreativa, ma è anche essenzialmente anti-unitiva.

Possiamo così avere una comprensione più precisa dell’inscindibilità fra le due dimensioni della bontà intelligibile presente nell’atto sessuale. Essa connota l’esigenza di carattere etico in forza della quale la persona non può mai inclinare la sua volontà in senso anti-procreativo in senso anti-unitivo, poiché la volontà anti-procreativa è sempre anti-unitiva e la volontà anti-unitiva può essere (quando cioè l’atto è fertile) anti-procreativa. In questo senso, le due dimensioni sono legate fra loro in una correlazione eticamente inscindibile.

La masturbazione è pure un esercizio della sessualità anti-unitivo, distogliendo, anche simbolicamente, l’orientamento intrinseco della sessualità all’incontro con l’altro, in un solipsismo egoistico. Queste sono le principali condotte sessuali anti-unitive.

2. (Il vizio della lussuria). L’atto sessuale intrinsecamente illecito può essere un atto occasionale, ma può diventare anche l’espressione di un disordine morale più profondo: espressione di una facoltà sessuale disintegrata dalla persona e moralmente viziata. È necessario ora riflettere su questo più profondo disordine etico, sul vizio della intemperanza sessuale.

In che cosa consiste propriamente questo vizio? In un orientamento permanente della facoltà sessuale verso il bene sensibile presente nell’atto sessuale, tralasciando il bene intelligibile.

Quale sia il bene intelligibile dell’atto sessuale, lo si è già visto varie volte: la sua dimensione procreativa e unitiva. In quanto è un bene umano, esso non è solo intelligibile, ma è anche sensibile: per la stessa ragione — cioè perché bene umano — la dimensione intelligibile della bontà della sessualità integra la dimensione sensibile: la dimensione etica integra la dimensione erotica. E in questa integrazione, costituita dalla castità, consiste il bene umano integro della sessualità.

L’intemperanza sessuale consiste precisamente nella disintegrazione di questa unità fra l’ethos e l’eros, orientando stabilmente l’esercizio della sessualità in senso o prevalentemente o esclusivamente erotico.

Come è possibile questa disintegrazione? Essa si accompagna, come effetto e causa nel medesimo tempo, ad alcune attitudini spirituali. In primo luogo, si ha una sorta di indebolimento, sempre più grave, della facoltà visiva dell’intelletto (i grandi maestri dell’etica cristiana parlano di una caecitas mentis) in forza del quale la persona non riesce più a vedere la bontà intelligibile dell’atto sessuale. L’universo intelligibile le resta come precluso: la sua luce è troppo intensa per il suo occhio malato: non la può sopportare. Se si pensa che tutta l’economia salvifica cristiana è un’economia delle realtà invisibili offerte all’uomo attraverso e nelle realtà visibili, è facile vedere come l’intemperanza sessuale abbia effetti devastanti su tutta la vita cristiana. La cecità progressiva che colpisce l’occhio interiore dell’intelletto determina l’incapacità di ragionare rettamente sul come realizzare il bene intelligibile della sessualità umana: si diventa vittima della precipitazione spirituale. Come già si è visto, è la contemplazione del bene intelligibile che determina come una sorta di "arresto" spirituale nella persona quanto ai suoi moti psico-fisici della sessualità: arresto che consente alla ragione di riflettere, con la calma dovuta, sul da farsi. La persona, al contrario, precipita, in senso letterale, dentro all’eros, al perseguimento del bene sensibile, senza confrontarlo con le esigenze dell’ethos, con le esigenze del perseguimento del bene intelligibile.

Cecità e precipitazione rendono la persona sempre meno libera, sempre più sottomessa alle emozioni. Viene sempre più indebolito il centro che crea l’integrazione, l’io nella sua capacità di auto-dominio. Si comprende, ora, facilmente come le condotte sessuali illecite, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, siano il frutto della intemperanza sessuale.

3. (L’egoismo sessuale). L’intemperanza sessuale può giungere fino all’intimo della persona, alla sua soggettività libera, in un reciproco influsso negativo tra facoltà sessuale intemperante e soggettività della persona.

L’incapacità di vedere il bene intelligibile della sessualità e di corrispondervi in misura adeguata, è il segno della incapacità della persona di vedere nell’altro la persona e di assumere nei suoi confronti un’attitudine adeguata al suo valore proprio.

Si ha una riduzione intenzionale della persona dell’altro, in tutti e due i livelli dell’intenzionalità umana, quello intellettivo e quello volitivo. Intellettivo: la persona, propria e dell’altro, non è più intra-vista nella e attraverso la sessualità. L’intimo significato della sessualità umana, quello di dire la persona, non è più percepito. Si vede la persona come un oggetto: è stata reificata. Volitivo: si ha un’attitudine di "uso" e di "consumo" nei confronti della persona-cosa. Reificata non può che essere goduta attraverso il suo uso. L’impudicizia è il segno più evidente di questo crollo intenzionale: si deve fare mostra di sé, poiché semplicemente non si ha più coscienza di un "sé".

Che cosa è accaduto nelle profondità spirituali di questa persona? La persona si è curvata su sé stessa, ponendo — con atto di libertà — il suo bene non nel dono di sé stessa, ma nell’affermazione di sé stessa: si è resa incapace di amare. Ha rinunciato alla libertà di amare, per divenire schiava di sé stessa.

 

Sussidi per la riflessione personale

1. La letteratura sul concetto etico di contraccezione è ormai pressoché sterminata. Ci limitiamo a indicare alcuni testi che sembrano utili per l’approfondimento della riflessione etica esposta nel capitolo al riguardo.

La discussione fra volontà anti-procreativa e non-procreativa è stata scoperta e può essere approfondita dalla lettura di san Bernardo, Apologia ad Guillelmum Abbatem, in "Opere di san Bernardo", I, Trattati, Scriptorium Claravallense, Milano 1984, pp. 158-176.

G. Grisez-J. Boyle-J. Finnis-W. May, "Ogni atto coniugale deve essere aperto a una nuova vita": verso una comprensione più precisa, in "Anthropotes" 1 (1988), pp. 73-122.

2. Per un approfondimento sul tema dell’intemperanza sessuale, si leggano le pagine di san Tommaso, II-II, qq. 153, 154 e 156.

 

 

Capitolo quarto

LA LEGGE DELLA SESSUALITÀ UMANA

Il presente capitolo ci introduce in una tematica nuova della nostra riflessione etica sulla sessualità umana. La prima domanda che ci siamo posti era la seguente: quale è la bontà intelligibile della sessualità umana? A questa domanda abbiamo cercato di rispondere nel primo capitolo. Poi ci siamo chiesti: poiché questa bontà intelligibile è una bontà operabile dall’uomo, quando l’uomo realizza questo bene? Abbiamo risposto nel capitolo secondo. E poi ci siamo chiesti: quando l’uomo non realizza questo bene? Abbiamo risposto nel capitolo terzo.

Dunque, in questi tre capitoli siamo rimasti per così dire all’interno dell’uomo, nel senso che abbiamo considerato la sessualità come bene umano, come bene umano operabile; nel senso che abbiamo considerato mediante quali atti l’uomo realizza questo bene e mediante quali atti l’uomo non realizza questo bene.

Abbiamo anche dovuto considerare come i suoi dinamismi operativi sono orientati a compiere o a non compiere gli atti che realizzano il bene umano dalla sessualità (= virtù della castità e dono della sapienza/vizio dell’intemperanza sessuale). E, alla fine, abbiamo tentato una comprensione del soggetto, che mediante i suoi dinamismi, ai quali ineriscono le virtù o i vizi, compie l’atto.

Tuttavia, l’uomo è mosso a realizzare il bene umano e così a raggiungere la sua beatitudine non solo da sé stesso, ma dalla Provvidenza di Dio che governa in un modo del tutto speciale la creatura umana. E Dio muove l’uomo in due modi: istruendolo con la sua legge e aiutandolo con la sua grazia. Ci resta, dunque, da riflettere su questi due atti fondamentali della Provvidenza divina. Della legge parleremo in questo capitolo; della grazia nei due seguenti.

1. Come dice un testo liturgico (Dom. II di Avv. - Coll.), l’istruzione della Sapienza celeste ci fa essere consorti di Dio. La legge morale è dunque, nella sua essenza, l’istruzione della Sapienza celeste che guida l’uomo verso il bene, cioè verso la comunione con il Signore. Le forme di questa divina istruzione sono molteplici e tutte dovranno essere ora attentamente considerate, anche se in maniera sintetica. E non in generale, ma in quanto istruzione che guida l’uomo a compiere il bene (operabile) della sua sessualità. Dobbiamo limitare la nostra considerazione alla legge divina che regola l’esercizio della sessualità.

La prima, originaria forma dell’istruzione divina avviene attraverso il retto uso della propria ragione. La luce creata della nostra intelligenza è, infatti, la prima partecipazione, quella originaria. alla Luce increata della divina Sapienza e, così, la prima e originaria legge della sessualità è quella scoperta mediante il retto uso della ragione. Nella Tradizione e nel Magistero della Chiesa, questa forma di istruzione dell’uomo da parte della divina Sapienza è chiamata "legge naturale".

Cerchiamo prima di capirne l’intima natura in genere, e poi si potrà vedere quale è la legge naturale della sessualità umana.

Esiste una differenza essenziale fra la ragione umana e la divina Sapienza: questa è Sapienza creatrice, quella è ragione che scopre semplicemente l’ordine della divina Sapienza. È vero che nell’àmbito del fare, anche la ragione umana è creativa (in un senso analogo); ma l’àmbito dell’etica non è il fare, ma l’agire.

Che cosa significa questa differenza essenziale fra Sapienza creatrice e sapienza umana? Significa che, mentre la divina Sapienza è la causa dell’essere di tutto ciò che è, la ragione umana conosce semplicemente l’essere di tutto ciò che è. E da ciò deriva che, come insegna con profonda semplicità san Tommaso, "sicut scibilia naturalia sunt priora quam scientia nostra, et mensura eius, ita scientia Dei est prior quam res naturales, et mensura ipsarum. Sicut aliqua domus est media inter scientiam artificis qui eam fecit, et scientiam illius qui eius cognitionem ex ipsa iam facta capit" "Come gli oggetti conoscibili esistenti in natura sono anteriori alla nostra scienza e ne sono la misura, così la scienza di Dio antecede le cose naturali e ne è la misura. Come una casa è intermedia tra la scienza dell’artefice che l’ha costruita, e la scienza di chi ne prende cognizione costruita che sia" (I, q. 14, a. 8, ad III).

Entrando ora direttamente nel nostro tema, da questa differenza essenziale deriva che la nostra ragione deve scoprire il progetto della divina Sapienza sulla sessualità umana nella sessualità umana stessa, non altrove. Come per scoprire il progetto di una casa, devo vedere la casa. A questo punto, tuttavia, è necessaria una precisazione concettuale di decisiva importanza teoretica. Che cosa in realtà vuole sapere la ragione umana di cui stiamo parlando? Di quale uso della ragione stiamo parlando?

La ragione umana vuole sapere quale è la via che la Sapienza celeste traccia per la volontà libera dell’uomo, in ordine al compimento del bene operabile della sessualità umana: la persona vuole essere istruita dalla Sapienza celeste sul bene operabile della sessualità umana. Non vuole sapere, per esempio, quali sono le interazioni neurologiche che presiedono all’impulso sessuale. Ora, la grande tradizione filosofica occidentale, sulla base della nostra quotidiana esperienza, ha distinto due usi della ragione: un uso teoretico e un uso pratico. Con il primo, la persona vuole conoscere la verità semplicemente per conoscere; con il secondo vuole conoscere la verità sul bene operabile dalla volontà. Dunque. l’uomo viene istruito dalla Sapienza celeste sulla via da percorrere per giungere alla beatitudine (al consorzio con essa), quando egli usa praticamente la sua ragione o, se piace di più, mette in opera la sua ragione pratica.

Esiste una via chiara e semplice per la ragione alla ricerca del bene operabile: le inclinazioni della sessualità. Il bene, infatti. è ciò che è desiderato: è ciò verso cui ogni essere è inclinato o si inclina. Ma, ancora una volta, è necessaria una precisazione.

Non si tratta di inclinazioni qualsiasi: si tratta di inclinazioni umane. Si tratta, cioè, della persona umana in quanto soggetto sessualmente inclinato verso un bene, un bene che non può essere che umano. Ora il bene umano in genere. e in specie quello della sessualità, è il bene della persona umana, soggetto spirituale che sussiste unito sostanzialmente a un corpo, soggetto spirituale-corporale, persona corporale. Quando, allora, la ragione intende scoprire il bene umano operabile della sessualità e si rivolge alle inclinazioni sessuali (e non può non farlo), queste non sono considerate solo ed esclusivamente come inclinazioni psico-fisiche, ma anche come inclinazioni essenzialmente spirituali. Non perché le prime non siano umane, ma perché non sono tutto l’umano e lo sono in quanto informate dall’inclinazione spirituale. Tutto questo può essere detto più tecnicamente e più brevemente: l’inclinazione sessuale umana è la fonte di conoscenza, per la ragione pratica dell’uomo, del bene (operabile) intelligibile della sessualità umana. Conoscendo il bene, la ragione conosce la via per compierlo: conosce la legge divina della sessualità.

Prima di procedere oltre dobbiamo fare un’osservazione, che è un corollario di tutto ciò che abbiamo detto finora. L’istruzione della divina Sapienza giunge all’uomo solo attraverso il giudizio della ragione, non attraverso altro: non attraverso l’inclinazione psicofisica sessuale sentita psicologicamente o sensibilmente. In altri termini: la legge naturale è opera della ragione e solo della ragione pratica dell’uomo. Non nel senso che sia la ragione a costituirla: essa è costituita dalla Sapienza creatrice di Dio. Ma nel senso che la legge naturale consiste formalmente in un giudizio, il quale è appunto un atto della ragione. Il giudizio della ragione è il mezzo attraverso cui (principium quo) conosco il bene operabile e non ciò che (principium quod) costituisce il bene stesso. Il bene è determinato solo dalla Sapienza divina.

Vorrei fermarmi un momento a riflettere poiché qui si annida una delle principali sorgenti di soggettivismo e relativismo etico. Non bisogna identificare il "riconoscersi obbligato" con "obbligare sé stesso": tale identificazione confonde l’obbligazione con la consapevolezza della stessa. È falso che conoscendomi io obbligato, obblighi con ciò stesso me stesso. E la nostra esperienza interiore ce lo mostra chiaramente: nello stesso momento in cui la ragione pratica mi intima l’obbligazione, ho la consapevolezza che un "diverso da me" mi obbliga.

Questa confusione nasce da uno dei fondamentali pregiudizi dogmatici dell’empirismo, che cioè nulla può essere in un soggetto che non appartenga all’essenza del soggetto.

Nel capitolo primo e nel primo paragrafo del capitolo secondo e terzo di questa seconda parte si è precisamente cercato di scoprire la legge naturale della sessualità umana. Ne abbiamo individuato i due precetti fondamentali positivi: ogni atto sessuale deve essere aperto alla procreazione; ogni atto sessuale deve essere unitivo. E i due precetti fondamentali negativi: ogni atto anti-procreativo (o c contraccettivo) è intrinsecamente illecito, ogni atto anti-unitivo è intrinsecamente illecito. La stessa ragione deduce da questi due precetti fondamentali l’individuazione degli atti esterni nei quali l’atto interiore prende corpo, giungendo così alla descrizione precisa della condotta sessuale moralmente buona o moralmente cattiva.

2. Dalla riflessione precedente risulta come l’uso retto della ragione pratica sia profondamente radicato nelle inclinazioni umane, e, dunque, anche condizionato da esse: "qualis uniusquisque est talis finis videtur ei", aveva già osservato Aristotele. E Pascal scrisse che quando un uomo non vive come pensa, finisce per pensare come vive. Abbiamo già visto come nella nostra persona si sia insediata una legge, la legge della concupiscenza, che contrasta con la legge della nostra ragione e impedisce alla Sapienza celeste di istruirci attraverso essa. La Provvidenza divina, nel suo amore misericordioso verso l’uomo, è venuta in suo aiuto, manifestando la sua volontà attraverso una positiva Rivelazione: esiste così non solo una legge divina naturale, ma anche una legge divina positiva.

Esiste anche una seconda ragione. Le scelte della volontà accadono sempre in un contesto storico molto circostanziato e spesso in profonda mutazione. Di qui deriva spesso nell’uomo una drammatica incertezza il cui effetto, sotto gli occhi di tutti, è amaramente descritto da Pascal in questi termini: giustizia al di qua dei Pirenei è ingiustizia al di là. Era, dunque, sommamente conveniente che la Provvidenza divina non abbandonasse l’uomo alla sua incertezza, ma gli indicasse quali scelte sono giuste e quali sono ingiuste.

Ma esiste una terza ragione, che è la più importante di tutte. L’uomo è stato creato in Cristo. La creazione cioè è in vista del dono della filiazione divina, della partecipazione in Cristo, mediante lo Spirito, alla stessa vita divina, nella beatitudine eterna della comunione trinitaria. È questa una predestinazione che supera, eccede la naturale capacità umana di orientarsi al suo fine ultimo. Era dunque necessario che la Sapienza divina lo istruisse, donandogli una legge che lo dirigesse verso il suo fine soprannaturale.

La legge divina positiva dirige l’uomo alla partecipazione della divina filiazione nel Verbo incarnato, integrando in sé stessa anche quella legge divina naturale di cui ho parlato. Questa, infatti, orienta l’uomo alla pienezza del suo essere umano; non esiste, però, una pienezza umana, la possibilità di essere uomo, se non in Cristo.

Esiste, dunque, una legge divina positiva che istruisce l’uomo circa l’esercizio della sua sessualità.

Quali sono i precetti di questa legge? Poiché, come si è appena detto, la legge divina positiva è data per orientare l’uomo a essere e vivere in Cristo, la sua Rivelazione è Cristo stesso: la sua parola e la sua vita. Tuttavia, la Provvidenza di Dio ha condotto l’uomo gradualmente alla Rivelazione piena, istruendolo prima in molti modi e varie volte attraverso i suoi profeti. La legge divina positiva è stata, pertanto, rivelata in due momenti o tempi: ci fu una Rivelazione imperfetta, nella quale anche la legge divina venne imperfettamente rivelata; ci fu una Rivelazione divina perfetta, nella quale la legge divina venne perfettamente rivelata. Non si tratta di due leggi divine se non nel senso che ciò che era imperfetto venne portato alla perfezione.

2.1. I precetti della legge divina positiva, rivelati sotto la vecchia Alleanza, riguardanti l’esercizio della sessualità, sono enunciati nelle Dieci parole o Decalogo (Es 20, 2-17; Dt 5, 6-21). È la proibizione dell’adulterio: è il sesto comandamento, che attrae anche il nono. Sono cioè proibiti, nel sesto, i rapporti sessuali tra un uomo e una donna sposata a un altro. È colpa grave (Gn 12, 17; 20, 30), anzi è un’offesa fatta a Dio stesso (39, 9). In questo contesto, viene anche enunciato il nono comandamento, il quale proibisce anche la sorgente dell’atto adulterino, il desiderio di una donna sposata.

La legge divina antica condannava anche la prostituzione (Lv 19-29; Dt 23, 17-18) e la violazione di una vergine (Es 22, 15-16; Dt 22, 28-29).

2.2. La legge divina nuova porta a "compimento" questi precetti e li porta alla loro perfetta attuazione, secondo il disegno divino. Per comprendere questo compimento occorre inserire il precetto particolare riguardante la sessualità enunciato nel discorso del monte (Mt 5, 27), in tutto il suo contesto (17-48).

Gesù proclama di essere venuto a confermare la Legge divina antica in tutto il suo rigore letterale. Un rigore spinto fino al punto che, fino alla fine del mondo, della Legge santa del Signore non cadrà a vuoto neppure la più piccola lettera dell’alfabeto in cui essa è stata consegnata nello scritto, lo iota, e neppure il più piccolo segno di interpunzione, una "virgola". Fino alla fine del mondo, Dio continuerà ad attuare tutto il suo progetto, senza lasciare cadere nulla. Quello che Gesù dice di sé, vale anche per il suo discepolo. Se egli annullerà anche il minimo precetto della Legge e insegnerà ad altri a fare altrettanto, nel Regno di Dio sarà "minimo", insignificante nella sua nullità. Solo questa fedeltà rende perfetti, cioè compiuti nel proprio essere, in possesso della pienezza del proprio essere, analogamente a come compiuto nel suo divino Essere è Dio stesso (5, 48).

Ma come avviene, come si realizza questa perfezione nell’obbedienza alla Legge divina? Qual è la vera obbedienza alla Legge divina? Essa è costituita sinteticamente da tre attitudini interiori: continuità-rottura-superamento. La Legge divina della vecchia Alleanza resta nella sua integrità e deve essere accolta integralmente, senza fare nessuno sconto: l’uomo deve lasciarsi istruire da essa, in una docilità completa (continuità). Essa, tuttavia, non è tutta la Rivelazione del santo disegno di Dio; è un momento, una fase di essa, orientata verso il suo compimento: non bisogna fermarsi in essa e ad essa nella direzione della propria vita (rottura). Come? Vivendola in un altro modo da come è stata vissuta finora, anche dai più perfetti osservanti, gli scribi e i farisei fedeli (superamento). E Gesù, la pienezza della Rivelazione, insegnerà precisamente questo modo nuovo: egli dona la Legge divina nuova che continua-rompe-supera la Legge divina antica.

La conseguenza in chi si lascia istruire dalla Legge nuova è grandiosa. La giustizia del nuovo discepolo deve superare quella pur grande dei più fedeli discepoli della Legge antica. Questa giustizia, dunque, non è rifiutata: è giudicata insufficiente; deve essere superata nella tensione verso l’infinita santità di Dio, di cui la Legge nuova esprime compiutamente le esigenze (ancora: continuità-rottura-superamento).

In questo contesto deve essere collocato il precetto della Legge divina nuova dato all’uomo per istruirlo sull’esercizio della sua sessualità: "Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico...".

La Legge divina antica, dunque, proibisce l’adulterio: questa proibizione deve essere mantenuta integralmente (continuità). Come? Quando veramente l’uomo accoglie questo santo precetto, senza lasciarne cadere neppure uno iota o una virgola? Non quando si astiene dall’avere rapporti sessuali con la sposa di un altro (rottura), semplicemente. La giustizia dell’esercizio della propria sessualità deve essere più perfetta. Essa deve pervadere anche lo sguardo del cuore, la fonte stessa da cui sgorgano pensieri, desideri, sguardi sessuali. Esiste, cioè, non solo l’adulterio della carne, ma anche l’adulterio del cuore: la Legge di Dio riguarda finalmente questo (superamento).

Possiamo cercare di capire questo santo precetto della Legge divina nuova. Quando l’uomo guarda con desiderio una donna, egli la guarda in ordine a possederla come oggetto di cui fare uso: ha già compiuto quella riduzione intenzionale della donna da persona a cosa. Esattamente quello che avviene nell’adulterio della carne. E così l’uomo ha già commesso adulterio.

Ritroviamo molti temi sui quali abbiamo già lungamente riflettuto nei capitoli precedenti. È la concupiscenza insediatasi nel cuore dell’uomo peccatore che la Legge divina ha condannato: sia quella antica sia quella nuova. La Legge nuova ha finalmente svelato pienamente l’intenzione ultima che l’istruzione divina si proponeva. È l’amore di sé che si è impossessato del cuore umano che deturpa l’intima bellezza e bontà del rapporto sessuale, trasformandolo da comunione interpersonale nel dono reciproco (secondo l’originario progetto della Sapienza celeste: legge divina naturale-originale) a rapporto di dominio-uso da parte dell’altro. È l’impurità che si è radicata nei movimenti sessuali umani, dal cuore fino alla carne, che ha violato la santità del rapporto sessuale.

La conseguenza, allora, non poteva essere diversa: ristabilire l’originaria santità del rapporto coniugale. Il Signore esclude per sempre ogni forma di divorzio (5, 31): questo è niente altro che adulterio, sia per la ripudiata che si risposasse sia per chi sposasse una ripudiata (5, 32).

Lo sforzo richiesto è immane. Ma esso è richiesto a una persona, il cui cuore è già stato giustificato dal dono dello Spirito. La grazia della nuova Alleanza precede la legge della nuova Alleanza, come vedremo nei due capitoli seguenti. Anzi fra le due, grazia e legge, c’è un legame così stretto che la Legge della nuova Alleanza è la stessa grazia dello Spirito Santo e la grazia dello Spirito Santo è la forza che istruisce e orienta interiormente l’uomo, facendo penetrare nel suo cuore il precetto della Legge nuova.

3. La Legge divina naturale e positiva non è sufficiente a orientare l’uomo nell’esercizio della sua sessualità. È necessaria anche una legge umana.

Questa necessità si dimostra da vari punti di vista. In primo luogo, l’esercizio della sessualità umana ha anche una notevole rilevanza sociale: non è un fatto meramente privato. E pertanto rientra nella competenza della legittima autorità umana ordinare in qualche modo l’esercizio della sessualità, così che esso concorra al bene comune della società o, quanto meno, non ne costituisca un pericolo. In secondo luogo, non ogni persona umana è indotta all’esercizio retto della propria sessualità se la si lascia esclusivamente al giudizio della sua ragione, con il rischio che le persone innocenti e più deboli siano violate nella loro dignità. È dunque necessario che siano allontanate dal male e orientate al bene dalle leggi umane anche penali. In questo modo, da una parte si difendono gli innocenti e, dall’altra, è possibile che queste persone siano educate a un esercizio retto della loro sessualità in forza di una convinzione interiore, indotta progressivamente da una condotta all’inizio sopportata solo per paura della pena.

Queste ragioni mostrano anche i confini o limiti entro i quali la legge umana deve rimanere: essa deve imporre solo quei comportamenti che sono assolutamente necessari per il bene comune e punire quei comportamenti contrari che sono gravemente lesivi degli innocenti, specialmente i più deboli. Nulla di meno, ma neppure nulla di più. E queste stesse ragioni mostrano anche quale è il fondamento ultimo di questo dovere grave di chi esercita la pubblica autorità: sono quei beni intelligibili fondamentali, che sono propri della sessualità umana, realizzando i quali le persone umane non solo raggiungono la propria perfezione personale, ma danno anche origine a un sociale veramente umano. Come già annotava Aristotele, "l’uomo, quando è perfettamente virtuoso, è il migliore di tutti gli animali; ma, quando si separa dalla giustizia e dalla legge, è il peggiore di tutti" (I Pol., c. 2; 1253 a, 31-33), poiché, come commenta san Tommaso, "l’uomo possiede l’arma della ragione per soddisfare le sue passioni perverse, arma che gli altri animali non hanno" (I-II, q. 95, a. 1).

Non è possibile, ovviamente, vedere quali leggi le legittime autorità hanno promulgato. È più importante riflettere su quali sono quei valori che le leggi civili devono comunque tutelare.

Poiché solo il matrimonio assicura un esercizio della sessualità umana semplicemente umano, un esercizio cioè che ne realizza la bontà essenziale, è grave dovere della legge civile difenderlo e promuoverlo contro ogni tentativo di oscurarne l’intima bontà e dignità. Ciò deve essere fatto, almeno, difendendone l’indissolubilità e rifiutando ogni forma di equiparazione delle "libere convivenze" al matrimonio legittimo.

Poiché il bene essenziale della sessualità consiste nella sua finalizzazione alla procreazione e nella sua capacità unitiva, la legge civile deve opporsi a ogni tentativo di promuovere pubblicamente la separazione della sessualità dalla procreazione, mediante la contraccezione. Permettere questa nobilitazione pubblica equivale alla tolleranza di un costume sociale di progressiva deresponsabilizzazione della persona nei confronti della propria sessualità.

E la legge civile deve anche difendere i più deboli dal rischio della violenza sessuale, che è la più totale distruzione del suo significato unitivo. Benché si possano avere serie, obiettive ragioni in contrario, a me sembra che la legge civile debba, anche, per la stessa ragione proibire la prostituzione.

La legislazione umana, tuttavia, è sempre destinata a fallire, se non assicura previamente una condizione indispensabile: la creazione di un ambiente sociale nel quale il valore della castità sia rispettato. Concretamente, ciò significa una legislazione che non consenta la pornografia, in ogni sua forma, soprattutto a difesa delle persone più giovani: che essa possa essere persino sussidiata dal denaro pubblico è una delle più gravi ingiustizie commesse contro i più deboli. Concretamente, ciò significa ancora che il valore del "comune senso del pudore", riconosciuto in ogni ordinamento civile degno di questo nome, non deve essere interpretato in un modo così elastico da non significare praticamente nulla. Concretamente, ciò significa infine che se la legittima autorità decidesse di assumersi un certo compito educativo, nell’àmbito della sessualità (= educazione sessuale nelle scuole), lo deve fare nel rispetto del diritto originario dei genitori.

Concludiamo. La divina Sapienza istruisce direttamente l’uomo nell’esercizio della sessualità mediante la legge naturale e la legge positiva che ci è stata rivelata in due momenti distinti. Poiché la stessa legge naturale richiede che esista anche una legge umana che regoli l’esercizio della sessualità, alle due leggi precedenti si aggiunge precisamente anche una legge umana.

 

Sussidi per la riflessione personale

1. Sulla legge divina naturale devono studiarsi le pagine classiche di san Tommaso, I-II, q. 91, a. 2 e la q. 94.

2. Per la tematica generale del capitolo si veda Giovanni Paolo II, Uomo e donna ..., cit., pp. 148-207.

3. Per la tematica etico-politica, si può vedere V. Riches, Sex and Social Engineering, Family and Youth Concern, 1982.