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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Relazione al congresso del Movimento per la Vita
«Il diritto alla vita e l’Europa»
18 dicembre 1987
(pubblicato in Studi Cattolici n. 323)

 


Parlare di aborto come sconfitta dell’Europa implica la convinzione che l’Europa (occidentale) non sia una semplice espressione geografica, ma che sia una entità culturale con una propria identità spirituale. Il mio primo compito sarà di definire questa identità. E cercherò di farlo attraverso il riferimento alle sue radici, stavo per dire al suo “codice genetico”.

 

1. L’identità spirituale dell’Europa

 

La prima radice dell’Europa venne piantata durante una notte drammatica vissuta da alcuni uomini in una prigione di Atene. Fra essi, dobbiamo appuntare tutta la nostra attenzione su uno. Il suo nome è Socrate. Di che cosa stanno discutendo? Quale decisione stanno prendendo? Socrate è stato condannato a morte ingiustamente. Il più ricco di loro, di nome Critone, ha corrotto i carcerieri: Socrate, se vuole, può fuggire. È una decisione che deve prendere, però, subito: il tempo urge drammaticamente. Egli ha mille ragioni dalla sua parte per fuggire: la sua famiglia ha ancora bisogno di lui; egli potrà continuare la sua opera educativa fra i giovani greci, preparando così una società nella quale il rischio di condannare a morte un giusto scomparirà. Critone è abile nel presentare tutte queste ragioni. Ma Socrate pone la domanda decisiva, una domanda che genera la coscienza europea, in tutta la sua suprema dignità: «È giusto?» poiché «non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere giustamente» (Critone, 48 b).

Esiste una giustizia che esige sempre di essere rispettata, per sé stessa e in sé stessa, e non solo quando da questo rispetto ci derivano degli utili. Ma Socrate non si accontenta di questo. Egli si pone anche il problema: come conoscere ciò che è giusto? È possibile conoscere ciò che è giusto oppure l’uomo deve rassegnarsi, al riguardo, all’ignoranza e limitarsi alla considerazione di ciò che è utile o dannoso, piacevole e spiacevole? Ascoltiamo la risposta di Socrate a queste supreme domande:

«Quando si tratti delle cose giuste e delle ingiuste... intorno alle quali dobbiamo ora decidere, forse dovremo dar retta all’opinione della gente, e averne timore o dovremo, invece, dar retta al parere di quell’unico, se mai ci sia, che se ne intende, del quale solo bisogna avere rispetto e ti more, più che di tutti gli altri insieme?» (Ibidem 47 d).

«E allora, o carissimo, non dobbiamo darci affatto pensiero di quello che dicono i più, ma solo di quello che dice colui che si intende delle cose giuste e di quelle ingiuste, e questi è uno solo ed è la stessa Verità» (Ibidem, 48 a).

Fermiamoci un momento a riflettere su queste solenni parole. Esiste una giustizia, più precisamente esistono atti che sempre e comunque sono ingiusti e che nessuna ragione personale, sociale o politica potrà mai rendere giusti. Esiste cioè un universo di valori, un universo intelligibile, ben più reale del mondo che ci appare attraverso i sensi.

Questi valori sono conosciuti non attraverso l’opinione dei più, non sottoponendoli a una votazione: essi sono conosciuti attraverso la ragione. E qui Socrate pone una distinzione fondamentale per tutta la cultura europea successiva: la distinzione fra opinare e sapere, fra opinione e scienza; sempre manipolabile la prima, soggetta come è ai potenti o ai nostri timori e desideri, inconfutabile la seconda, perché lega l’uomo alla Verità stessa. E la Verità non si lascia confutare.

Ma come finì la vicenda? Lo sappiamo: il giusto venne ucciso. Per cogliere la portata di questa tragedia, è necessario elevarci al di sopra delle singole persone coinvolte. Il giusto non cade vittima di un delitto bassamente spirituale, né di un tradimento interessato, ma è ucciso in forza di una solenne sentenza pubblica emanata dal potere politico legittimo. E, notate, non per un errore giudiziale, sempre possibile, in cui viene attribuito a un innocente un fatto criminoso da lui non commesso. No: è condannato il giusto in ragione della sua giustizia, perché semplicemente disse che esiste una giustizia che giudica anche le leggi civili, una giustizia che non è semplice registrazione dell’opinione dei più.

La tragedia sta, nella sua intima essenza, in questo: la migliore società del tempo non aveva potuto accettare in sé il principio puro e semplice della giustizia; la vita sociale si era rivelata incompatibile con la coscienza personale; si era spalancato l’abisso puro e semplice del male e aveva inghiottito il giusto. La morte era risultata l’unico destino possibile per la giustizia. La società non poteva essere dominata che dalla menzogna e dalla forza.

La coscienza europea si porterà dentro di sé questo problema, per sempre: è questo il destino necessario della giustizia? È impossibile costruire una società in cui domini la forza della giustizia e non la giustizia della forza?

Il più grande sforzo umano per risolvere questo problema della giustizia e non della forza, è costituito dalla cultura latina, che è la seconda matrice o radice fondamentale della coscienza europea. Essa non è solo greca, è anche latina. Qual è, infatti, la chiave di volta della latinità? È il concetto di civitas, come società in cui è la legalità a imperare. Se, per il greco, chi non è greco è un barbaro, cioè uno che non sa; per il latino, chi non è romano, è un non-civis, un peregrinus, uno cioè senza una patria, perché non radicato in un sociale veramente umano. Cicerone ha percepito l’anima della latinità, quando parlò di una legge che non è stampata in nessun codice, ma che è stampata nell’uomo come tale, in ogni uomo. E lo sforzo della cultura latina sarà sempre governato da questa tensione: far coincidere le leggi civili, cioè della civitas, con la legge universale scritta nella natura dell’uomo come tale. E la concessione della cittadinanza romana a tutti fu l’esito finale di questa tensione: «Urbem fecisti quod prius orbis fuerat», scrisse in un verso famoso Rutilio Namaziano. L’umanità nel suo insieme diviene una città unica. La tragedia di Socrate piantò, attraverso soprattutto la riflessione platonica, il primo seme del la coscienza europea: la società deve essere costruita sulla verità e non sull’opinione, sulla giustizia pura e semplice e non sulla vacuità del mero potere. L’esperienza latina scoprì il criterio per discernere democrazia, anarchia, dispotismo: il criterio di una legge umana che non intenda e voglia fondarsi sul potere di chi la emana, ma su una legge che la precede e la fonda, una legge universale e naturale. Cicerone finì come Socrate: ucciso perché ormai altro era il concetto di legge, e quindi di città e di società civile che si andava elaborando. «Quod principi placuit, legis rationem habet», si disse. La legge è un puro e semplice atto di forza del principe e il cittadino si trasforma in suddito.

Perché l’esperienza latina storicamente fallì? A questa domanda cercò di rispondere un terzo grande padre della coscienza europea, sant’Agostino, nella sua opera più famosa, il De civitate Dei. La terza radice della coscienza europea, il cristianesimo, venne così piantata. La coscienza europea è greca, è latina, è cristiana. Cogliere questo momento genetico della coscienza europea non è semplice, per l’intensità e profondità del suo apporto.

Scrive, dunque, sant’Agostino: «Qui sulla terra la giustizia consiste nel comando di Dio sull’uomo che obbedisce, dello spirito sul corpo, della ragione sui vizi, anche quelli che le resistono, sottomettendoli o contrastandoli» (XIX, 27). Si ha qui una prima e fondamentale verità cristiana: la giustizia consiste essenzialmente nell’ordine, e la pace nella tranquillità di questo ordine. E l’ordine è l’obbedienza dell’uomo alla legge di Dio, nell’armonia interiore all’uomo. Fra le due dimensioni della giustizia — quella trascendente: rapporto dell’uomo con Dio e quella immanente: l’armonia dentro la propria persona — si dà un rapporto di causa ed effetto. La sottomissione a Dio è causa dell’armonia interna; la disobbedienza a Dio rende l’uomo schiavo dei suoi vizi. Come si può osservare subito, il problema è centrato sulla persona umana nel suo rapporto con Dio: l’asse di tutta la riflessione è costituito dal momento religioso.

L’intima aporeticità della cultura greca e latina viene così risolta all’interno della decisione libera della persona umana. La legge di giustizia che il latino aveva percepito come qualcosa di i scritto nella natura della realtà, acquista un volto eminentemente personalista: è un progetto che la Sapienza creatrice di Dio ha iscritto nella persona umana; è un progetto affidato alla libertà dell’uomo. Non nel senso che di esso la libertà sia giudice, ma nel senso che la libertà si realizzi in esso. «Nei giorni della sua vanità, ciò che conta più di tutto è se egli si opponga o si sottometta alla verità e se partecipi o no della vera pietà» (XX,3). «Ciò che conta più di tutto»: la persona con la sua libertà decide di sé stessa. È la persona che è giusta a produrre una società giusta: è la persona che ama la giustizia a creare una società giusta.

Il cristianesimo ha messo nella coscienza europea la convinzione che ogni persona ha un valore incomparabile, tale da meritare un rispetto assoluto e incondizionato.

Concludendo. Alla luce delle sue tre radici ultime — la radice greca, la radice latina e la radice cristiana — possiamo tentare una descrizione complessiva della coscienza europea. Essa è costituita dalla consapevolezza della dignità in condizionata di ogni e singola persona umana (radice cristiana) che, attraverso un esercizio della sua libertà sottomesso alla verità (apporto greco-cristiano), crea una razionale organizzazione sociale (radice latina), fondata su un uni verso intelligibile di valori perenni (radice greca), che trova il suo fondamento ultimo nella stessa Sapienza divina (radice cristiana).

 

2. L’aborto e la coscienza europea

 

Affrontiamo il tema dell’aborto muovendoci nella prospettiva propria del nostro convegno: non come evento che coinvolge coscienza/libertà di singole persone, ma in quanto fatto politico. L’aborto in quanto atto permesso dallo Stato e aiutato dallo Stato.

Questo fatto costituisce l’anti-coscienza europea: ha tagliato le tre radici che la nutrivano; l’ha sradicata dal suo terreno proprio: la coscienza europea è destinata a morire!

a) Esiste una singolare analogia fra il “che cosa” è accaduto oggi e lo scontro frontale fra Socrate e i Sofisti. Mentre per Socrate esistono una verità e una giustizia, indipendenti nella loro validità dall’opinione dei più, per i Sofisti non esiste nessuna verità e nessuna giustizia che non sia costituita dall’opinione della maggioranza. Il consenso “crea” la giustizia e la verità (Sofisti); la ragione “scopre” giustizia e verità (Socrate). E così lo scopo ultimo del sofista non è quello di aiutare l’uomo a scoprire una verità/giustizia che lo trascende e lo salva, ma di ottenere comunque il consenso, prescindendo completamente dal fatto se ciò su cui ottiene il consenso sia vero o falso. È lo scontro frontale fra due culture: la cultura del vuoto parlare e la cultura della verità; la cultura del potere e la cultura della libertà interiore che assentisce alla verità scoperta.

Vediamo il conflitto che si è creato attorno all’aborto: non si ascolta la scienza che ha scoperto che fin dal concepimento si ha un individuo, e si decide che esso cominci quando si decide che cominci; ci si appella al fatto che l’opinione dei più è questa, ottenendo il consenso dei più con il potere dei grandi mezzi di comunicazione sociale. La radicazione greca è distrutta: non la verità conta, ma ciò che chi è più potente decide che sia vero.

b) In una pagina di grande intensità e pathos spirituale, Cicerone nel De Republica (V, 1) scrive: «Per le nostre colpe — e non per un qualche caso fortuito, conserviamo ancora a parole il nome di Stato, ma già da tempo l’abbiamo perso nella sostanza». La ragione di una constatazione tanto amara è indicata qualche pagina prima, ed è semplice e profonda. Ciò che fa perdere lo Stato nella sua sostanza, ciò che lo corrompe nella sua intima struttura, è la mancanza della giustizia. È questa la grande intuizione della latinità, permanentemente valida. Ciò che discrimina una società-Stato, non solo a parole ma nella sostanza, da una qualsiasi aggregazione di uomini — che può anche dirsi con le labbra Stato — non è il consenso dei membri, ma la giustizia di ciò a cui si consente. Può allora continuarsi a chiamare Stato una società che non solo rinuncia a difendere una vita innocente, ma mette a disposizione le sue strutture pubbliche per aiutare a uccidere l’innocente? L’unica ragione che si porta è che così la maggioranza ha deciso. È — precisamente — la rinuncia alla grande eredità giuridica latina.

c) È ancora più facile constatare come l’introduzione della legalizzazione dell’aborto abbia sradicato la coscienza europea dal suo terreno cristiano. Come dissi, al centro della visione cristiana sta l’affermazione del valore incondizionato della singola persona umana, e l’attribuzione di questo valore è fatta con particolare forza quando si tratta dei piccoli, dei deboli, degli indifesi («Quello che avete fatto...»). La legalizzazione dell’aborto è l’anti-cristianesimo nella sua pura essenza.

Qual è, in conseguenza, l’immagine corrotta della coscienza europea? È la negazione della dignità incondizionata di ogni e singola persona umana, che, attraverso l’esercizio di una libertà dominata dal principio dell’utile e del piacevole, crea un’organizzazione giuridico-sociale irrazionale, perché non più fondata su un universo intelligibile di valore, che trova il suo fondamento ultimo e la sua sanzione eterna in Dio, ma semplicemente sul consenso dei più.

 

3. Le ragioni di una corruzione

 

A mio giudizio è stata una profonda corruzione del concetto e dell’esperienza di libertà, la causa principale di questa caduta a picco della coscienza europea. È un punto di fondamentale importanza.

L’atto libero è il vertice della persona, poiché è in e con esso che la persona decide del suo destino eterno. Questa convinzione, questa scoperta, donata all’uomo dal cristianesimo, può essere pensata e vissuta solo se e solo quando non si stacca l’esercizio della propria libertà dalla verità: «Per questo siamo liberi, perché siamo sottomessi alla verità» (sant’Agostino). Staccata dalla verità, dalla certezza cioè che esiste una “misura”, un “criterio di giudizio” della libertà, questa diviene un mero esercizio di potere, una mera affermazione di sé stesso contro ciò che non è sé stesso.

Dal punto di vista sociale, questo porta ad affermare solo dei diritti e inserisce nel sociale la violenza come fatto strutturale e non solo congiunturale. La società diviene allora una “regolamentazione di un gioco” di libertà assoluta.

È la distruzione della dignità umana del sociale come tale (cfr Aristotele: «Questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, in quanto egli è l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto», Politica, A2, 1252 b 27-1253a 29).

 

4. Conclusione

 

Non vorrei essere equivocato: il mio non è il discorso di uno storico. Non lo sono. La cosa grave non è precisamente il fatto che la coscienza europea stia dilapidando il suo originario patrimonio culturale. La tragedia è che, in e con questa dilapidazione, la coscienza non percepisce più valori fondamentali. Che fare?

«Non lasciarsi sedurre dalla visibile signoria del male e non rinnegare per amore di esso il bene invisibile: questo è l’atto eroico della fede. In esso è tutta la forza dell’uomo. Chi non è capace di questa impresa non farà nulla e non avrà nulla da dire all’umanità. Gli uomini che si fermano al fatto vivono una vita alienata; non sono essi a creare la vita. Passano senza lasciare nulla di perennemente valido» (Evdokimov).