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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«La dignità della persona umana»
Articolo per L’Osservatore Romano
Aprile 1995


La vicenda spirituale della modernità è stata tragica: iniziatasi nel segno dell’esaltazione della dignità del singolo si è conclusa nella distruzione, forse la più grave che la storia finora ha conosciuto, del singolo stesso. Perché è accaduto tutto questo? per qualcosa di successivo ed estraneo a questa vicenda o già all’inizio furono posti i semi di questa “dissoluzione della persona”, come pensarono alcuni che quei semi videro seminare (Pascal per esempio)? Cercherò di ritornare più avanti su questa domanda. Per il momento essa ci serva solo per entrare subito nel cuore stesso del “Vangelo della Vita”. Viviamo in una situazione in cui l’uomo è giunto a una tale amara rassegnazione da non disperarsi più per la perdita di se stesso. Semplicemente pensa di poter concludere alleanza colla morte, ritenendosi degno di appartenerle (cfr. Sap. 1, 16). Che cosa fa la Chiesa? L’unica che doveva: annunciare a questo uomo il Vangelo della vita, la bella notizia che la vita dell’uomo è un bene incomparabile, che l’uomo non è degno di appartenere alla morte.

 

1. I fondamenti della dignità

La Chiesa deriva questa certezza dallo stesso atto di fede che la costituisce: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv. 3, 16). Cioè, “Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù” (Evangelium Vitae [EV] 29, 2). Un’esperienza umana e semplice potrà aiutarci a capire un poco questo mistero. La morte della persona amata è, per la persona che ama, l’evento più assurdo che possa accadere: il puro non-senso. La persona amata è incondizionatamente degna di vivere, poiché è bene, è bello che essa esista. E il bene, il bello meritano (hanno in sé l’esigenza) di essere: il metafisico dice perfino che sono trascendentalmente connessi con l’essere. Ma se tale appare la morte a chi ama, la stessa morte della stessa persona appare a chi non ama un evento naturale: logico (non assurdo) e completamente spiegabile (non pura insensatezza). Chi ha ragione? Chi dice il vero? Colui che ama (la morte di questa persona è assurda) o colui che non ama (la morte di questa persona è logica)? La divaricazione ultima fra chi crede nel Vangelo della Vita e chi accetta di allearsi colla morte consiste nel modo con cui si risponde a questa domanda. La prima risposta può esibirsi come ragionevole e vera solo a una condizione: che ogni persona umana sia amata da una potenza infinita. Infatti chi ama non può permettere che la persona amata muoia, e se potesse impedirlo, lo impedirebbe sempre. Se potesse! L’amore finito è impotente. L’Amore infinito è onnipotente. Questa è precisamente la certezza della Chiesa: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Dio ama ogni singola persona umana, “l’uomo è il termine personalissimo dell’amorosa e paterna provvidenza di Dio” (EV 61, 2) e pertanto la persona umana è incondizionatamente degna di vivere. Il paganesimo di ieri ha negato che esistesse questo Sguardo posato su ogni uomo e ha negato che la vita dell’uomo fosse difesa da una Potenza più forte della morte. Il paganesimo di oggi ha voluto “nascondersi lontano da questo sguardo” di Dio (cfr. Gen. 4, 14 ed EV 21) e ha negato che ogni persona umana sia incondizionatamente degna di vivere.

Donde la Chiesa deriva la certezza che Dio non vuole la morte, ma la vita dell’uomo? “...da mandare il suo figlio unigenito”. È stata la morte dell’Unigenito a svelare la dignità, la preziosità della vita di ogni uomo. “Il sangue di Cristo mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita” (EV 25, 3). L’autore della Lettera agli Ebrei ci introduce nel mistero di una morte che svela il valore della vita (cfr. 2, 14-17).

La morte di Cristo è un evento assolutamente unico; non si inscrive in nessuna regolarità. La sua singolarità-unicità è che fu una scelta radicalmente libera del Dio fatto uomo: nessuna necessità è rinvenibile in questa scelta se non quella dell’amore che non può lasciare nella morte la persona amata. E la persona amata era nella morte, sotto il potere della morte. Egli si fa per poco inferiore agli angeli per andare a prendere l’uomo dove esso si trovava: nel non senso della morte e riportarlo nella vita attraverso la sua risurrezione. “Proprio contemplando il Sangue prezioso di Cristo, segno della sua donazione di amore, il credente impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità di ogni uomo” (EV 25, 3 ma anche 50-51).

Ma perché tanto interesse di Dio per l’uomo? Quando cominciò questo interesse? Quando la persona umana, ogni persona umana cominciò ad essere guardata in questo modo e quindi voluta per sempre? Rivivendo in pienezza la stessa esperienza di Israele (cfr. EV 31) la Chiesa scopre che questo sguardo inizia nel momento in cui la persona stessa comincia, poiché l’atto creativo che fa essere/vivere la persona è precisamente questo sguardo/volere d’amore. Questo sguardo divino e questa volontà divina sono la stessa definizione di atto creativo. La Tradizione della Chiesa ha espresso questa verità in due formulazioni sublimi che nel contenuto coincidono; l’uomo è l’unica creatura in questo mondo visibile ad essere persona (Gregorio Nisseno-Basilio): l’uomo è l’unica creatura voluta per se stessa (Tommaso). L’Enciclica, proprio riferendosi all’atto creativo, giunge da parte sua ad una formulazione assai ardita affermando che nella vita umana “si rispecchia l’inviolabilità stessa del Creatore” (EV 53, 3). Se proviamo a chiederci “ma io quando sono stato creato, cioè guardato in questo modo per la prima volta?” la risposta è semplicemente immediata: quando sono stato concepito. La dignità del concepito, la presenza in lui dell’inviolabilità stessa del Creatore trovano in questo il loro fondamento (cfr. EV 44-45). La luce della fede aiuta anche in questo caso la ragione a essere se stessa. Fondata sull’atto creativo, l’inviolabilità e dignità della persona umana è percepibile anche da chi non crede. Basta che apra gli occhi dello spirito: come non vedere che essere qualcuno è infinitamente diverso e più che essere qualcosa ? (cfr. EV 77, 2).

 

2. La negazione della dignità

È accaduto qualcosa di unico nella vicenda della modernità e può accadere nel cuore di ciascuno di noi: sottrarsi allo sguardo creativo-redentivo del Padre. “Mi dovrò nascondere lontano da Te” (Gen. 4, 14) sono le parole di Caino ricordate dall’Enciclica (cfr. EV 21-23). “Il cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo” (21, 1). Spezzando il rapporto con Dio come ragione del proprio essere, l’uomo ha voluto fondarsi su se stesso: essere ragione lui stesso del proprio essere. Si deve notare che non stiamo parlando di quell’atto di libertà che è il peccato e che implica sempre una “aversio a Deo”. Stiamo parlando di un evento spirituale diverso e più radicale e sconvolgente: voler essere se stesso fondando se stesso su se stesso, e non più sulla Potenza che ci fonda. Nello stesso momento l’uomo si vede affidato il compito di giustificare la realtà stessa. L’inizio della vita dello spirito non è più (come dice stupendamente san Tommaso) la semplice visione dell’essere, ma una domanda: “perché esiste l’essere e non piuttosto il nulla?” Sotto questo peso l’uomo è crollato ed è giunto ormai alla rassegnata noia di un esistere che non sa più donde viene e dove va: si accontenta solo di esserci. L’Evangelium Vitae fa notare quasi ad ogni pagina che questa vicenda spirituale non poteva che generare una cultura di morte. Una cultura in cui si è giunti perfino ad “attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri” (EV 20, 4). Le coordinate essenziali di questa cultura della morte sono due forme di disperazione. Esiste una disperazione per ostinazione (Kierkegaard): non volere essere ciò che si è cioè indegni della morte. Ed esiste una disperazione per debolezza: non poter essere ciò che si è e quindi chiamare la morte una conquista di civiltà (come si è fatto per l’aborto e si sta facendo per l’eutanasia). Ormai domina questa seconda forma di disperazione e cosi c’è solo noia, da cui si cerca di evadere in ogni modo.

 

Conclusione: il bacio della misericordia.

“Non sono così grande!” sembra dire l’uomo di oggi alla Chiesa che gli annuncia il Vangelo della vita e quindi aggiunge subito: “esigi troppo da me”. L’uomo, si dice, non è assolutamente indegno della morte e quindi non si può esigere che non sia violata la vita di nessuno, in nessuna circostanza. È la disperazione per debolezza, appunto. Che cosa fa allora la Chiesa a questo uomo disperato più per debolezza che per ostinazione? Ciò che Cristo fece al grande Inquisitore, che pure rinfacciava a Cristo di nutrire troppa stima per l’uomo. Ormai non discute più: lo bacia col bacio che è la Misericordia di Dio e per questo gli annuncia il Vangelo della vita.