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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La coscienza morale e i Comandamenti come guida dell’agire umano
Ischia, 14 ottobre 1993


L’enunciazione del tema della nostra riflessione individua molto chiaramente i punti nodali. Si parla di “guida dell’agire umano”. Parlare di “guida dell’agire umano” ci porta subito a prendere consapevolezza che l’atto della persona si radica sempre in una attività dell’intelligenza e della ragione. Non solo, ma sopratutto quest’attività razionale costituisce “la guida” dell’atto della persona. Qual è il significato di questa metafora? La “guida” denota sia la direzione di un movimento sia un certo “impulso” a percorrere la direzione indicata. E in realtà, se prestiamo un poco di attenzione a ciò che accade in noi quando agiamo, vediamo che la nostra ragione funziona da guida sia perché è essa a progettare in anticipo l’atto che poi compiamo sia perché è mediante essa che l’atto, ancora in fase di progetto, esercita un influsso, un’attrazione nei confronti della nostra libertà perché realizzi quella possibile azione.

Tutta questa premessa a che cosa serve? serve a farci prendere coscienza di un fatto capitale nella nostra vicenda esistenziale: il fatto che la nostra esistenza non è solo vissuta in una spontaneità più o meno consapevole, ma è vissuta in una libertà che è consapevole realizzazione di un progetto di vita. E siamo così arrivati alla domanda centrale di questa nostra riflessione: quale progetto? La domanda non è di sapere chi elabora questo progetto: è ovvio. È la persona stessa; è ciascuno di noi. La domanda è di sapere se nell’elaborazione di questo progetto, la persona umana è guidata solo da se stessa oppure se essa ha una guida ulteriore, oltre se stessa. Fermiamoci un momento a considerare attentamente questa alternativa.

A prima vista, sembrerebbe che la seconda alternativa non possa essere sostenuta. Se, infatti, chi progetta l’esistenza della persona non è la persona stessa, come si potrebbe ancora parlare di libertà della persona? Se non è la persona stessa a “guidare” il suo agire, come è possibile parlare ancora di libertà? L’affermazione della libertà sembra, dunque, respingere l’esistenza di una qualsiasi guida che sia estrinseca, altra dalla libertà stessa. Siamo così arrivati al nodo teorico di tutta la nostra riflessione. Esso può essere ridotto a due domande essenziali.

- La prima: in che se senso è teoricamente possibile parlare di una guida dell’agire umano?

- La seconda: perché ed in che senso i comandamenti di Dio e la coscienza morale sono guida dell’agire umano?

 

1. La guida dell’agire umano

Proseguiamo la nostra riflessione sulla possibilità-impossibilità di una guida dell’agire umano che non sia affidata alla libertà stessa della persona.

In verità, anche all’interno della persona esiste qualcosa d’altro che la libertà dell’uomo e che, quanto meno, influisce a volte in misura notevole sulla progettazione della propria esistenza. Se una persona desidera diventare un campione sportivo, è necessario che abbia un ottimo sistema cardio-vascolare. Mancando di esso, egli deve cambiare progetto di vita. Per svolgere determinate professioni è necessario un equilibrio psichico notevole: in mancanza di esso, si deve abbandonare l’idea di esercitare quella professione. Corpo e psiche si presentano dunque come punti di riferimento, come guida del proprio agire. L’affermazione della libertà, come forza progettante, sembra essere, dunque, contraddetta da questo fatto.

E in realtà, due sono state le linee di pensiero antropologico nella nostra cultura contemporanea, al riguardo.

Una prima linea, affermando la libertà come piena autonomia nei confronti di qualsiasi altro dinamismo operativo, ha finito nella contrapposizione fra natura e libertà. La natura è ciò che, nell’uomo o fuori dell’uomo, costituisce la “materia” per l’agire umano e per la sua libertà. Si noti bene: in questa visione, natura significa anche corpo umano. La libertà è pura autonomia (dalla natura); essa non ha natura, poiché, per definizione stessa, essa è per se stessa, a se stessa, in se stessa guida del proprio decidere. L’uomo non sarebbe niente altro che la sua libertà.

Questa linea che, da e con Cartesio in poi, è dominante nella nostra cultura occidentale ha di fatto assunto due sviluppi. Il primo ha creduto di rinvenire nella stessa libertà una legge, un’intrinseca norma e guida dell’agire libero stesso, una razionalità. La libertà razionale e la ragione è libera (cioè autonoma): è l’etica kantiana. È l’ultimo tentativo, nella nostra cultura, di affermare l’esistenza di una legge morale come guida del nostro agire. In realtà questo edificio ha avuto breve durata. Se la libertà è legge a se stessa, è incoerente richiamarsi ad una guida che non sia costituita dalla libertà stessa. In breve: la libertà è, in linea di principio, possibilità di tutte le possibilità. E questa è l’esatta definizione della disperazione.

Una seconda linea, tuttavia, partendo dai medesimi dati di fatto, giunge a mettere radicalmente in questione l’esistenza della stessa libertà come capacità di progettare, come guida dell’agire umano. Essa, al massimo, si riduce ad essere forza di equilibrio fra forze impersonali da cui è costituito l’uomo.

(Si potrebbe aprire a questo punto una riflessione importante, ma non facile: la crisi dei presupposti della modernità e la “nascita” del post-moderno).

Dunque, a quali esiti ha portato questa riflessione? Partendo dal presupposto che a) solo la persona (la sua libertà) può essere guida del proprio agire e che b) libertà significa semplicemente autonomia, si giunge ad uno dei seguenti esiti: a) la libertà umana è l’unica, esclusiva guida dell’agire umano; b) la guida dell’agire umano si pone fuori dell’umano, in forze impersonali che possono solo essere limitatamente ordinate per il benessere della persona. In una parola, l’avventura spirituale moderna ha cercato di passare fra Scilla dell’identificazione libertà = autonomia ed è caduta nella Cariddi della negazione della libertà a causa dell’eteronomia.

Si può uscire da questo stretto, autonomia-eteronomia? Si può parlare e pensare a una guida dell’agire umano che non sia né autonoma né eteronoma, ma veramente libera? Quale via può essere indicata all’uomo di oggi per individuare questa via, una via che lo guidi alla terra di una vera libertà? Poiché, alla fine, il problema è questo.

Vorrei partire da un testo mirabile di san Tommaso e di S. Kierkegaard. Il testo di san Tommaso dice:

«Come gli atti delle creature irragionevoli sono governati da Dio in quanto esse appartengono a una specie, cosi gli atti umani sono governati da Dio in quanto essi sono atti del singolo…

Ora, gli atti delle creature irragionevoli, in quanto appartengono a una specie, sono governati mediante gli istinti naturali che conseguono alla loro natura specifica. Quindi, era necessario dotare l’uomo di qualcosa di più, mediante cui potesse essere governato nei suoi atti personali. Questo di più è la legge (morale).

- La creatura ragionevole… è sottoposta alla divina Provvidenza in modo che essa stessa partecipa in qualche modo della stessa Provvidenza, in quanto essa ha il potere di dirigere se stessa nei suoi atti e le altre cose. Ciò mediante cui sono diretti gli atti di qualcuno è chiamato legge. Era dunque conveniente che Dio desse all’uomo la legge.

- La legge non è altro che una certa regola e progetto dell’atto e, pertanto, era conveniente dare una legge solo alle creature che conoscono il progetto del loro agire. Ma questo è proprio solo delle creature ragionevoli. Quindi fu conveniente che si desse la legge solo alle creature ragionevoli.

- Si deve dare una legge a chi ha il potere di agire e non agire. Ma questo è proprio solo della creatura ragionevole. Solamente, quindi, la creatura ragionevole è capace di legge.

- Poiché la legge non è altro che il progetto (ratio) dell’agire e il progetto dell’atto dipende dal fine (che ci si propone di raggiungere), si riceve la legge da colui dal quale si è orientati al fine: il muratore dall’architetto, il soldato dall’ufficiale. Ma la creatura razionale raggiunge il suo ultimo fine in Dio ed è orientato ad esso da Dio... Fu quindi conveniente che l’uomo ricevesse la legge di Dio.

Per questo Geremia dice: “Darò la mia legge nei loro cuori” (31, 33) ed Osea: “Scriverò in loro le mie leggi” (8, 12). (Summa contra Gentiles III, CXIV, 2876-2881)».

Il testo esige una prolungata meditazione se vogliamo coglierne tutte le implicazioni. La prima affermazione, quella che costituisce il fondamento di tutte le affermazioni successive, è che la persona umana è oggetto di una Provvidenza speciale. Di fronte a Dio non esiste in primo luogo la specie umana, come se la persona esistesse davanti a Lui solamente in quanto appartenente alla specie. La singola persona è davanti a Lui nella sua propria singolarità, come singolo che è più che essere membro di una specie. Ne deriva immediatamente che la cura divina nei confronti dell’uomo non può essere generica (si prende cura del genere umano), ma assolutamente personale. Ora chi dice persona, dice soggetto che liberamente costruisce, mediante il suo agire, se stessa. E così la Provvidenza divina si prende cura dell’uomo nella sua singolare vicenda quotidiana, cioè nel suo agire libero.

Ma che cosa significa “prendersi cura della persona umana nel suo agire libero”? San Tommaso lo spiega con un esempio. Come fa l’architetto per evitare che l’impresa edilizia non costruisca una cosa diversa dal progetto? Glielo mostra, glielo fa conoscere, glielo spiega. Attraverso questa conoscenza e questa spiegazione, il muratore partecipa della progettazione architettonica ed è capace di realizzarla. In modo analogo, Dio, per ottenere che la persona possa costruirsi, cioè mediante il suo agire possa raggiungere la pienezza del suo essere, gli fa conoscere, gli spiega il suo progetto.

Tuttavia, questo non è tutto e non è nemmeno il più importante. Il paragone non deve trarci in inganno. Come Dio mostra e spiega il suo progetto? Si noti bene: giustamente Tommaso nota che tutta la singolarità della persona consiste nel fatto che essa “se in suis actibus et alia gubernare potest”, nel fatto cioè della capacità di auto-governo, di auto-guida. Come è possibile prendersi cura della persona da parte della divina Provvidenza, senza togliere alla persona la sua intima verità e dignità? Senza togliere, cioè, la sua capacità di “se in suis actibus gubernare”? Inscrivendo il progetto divino sull’uomo nell’uomo stesso. È l’uomo che, mediante la sua ragione, guida il suo agire, in quanto partecipe della Sapienza divina stessa. È Dio che, mediante la Sua Provvidenza, guida l’agire della persona umana, in quanto inscrive nella ragione umana stessa la sua progettazione: “creatura rationalis finem suum in ultimum in Deo et a Deo consequitur. Fuit igitur conveniens a Deo legem hominibus dari”. Fra autonomia ed eteronomia “datur tertium”: la teonomia. Essa non distrugge la dignità della persona, ma al contrario la difende; essa non aliena la persona, ma la fa essere pienamente se stessa.

Come è possibile questo? La risposta è data nella pagina di Kierkegaard:

«La cosa più alta che si può fare per un essere, molto più alta di tutto ciò che un uomo possa fare di essa, è renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente… La creazione dal nulla esprime a sua volta che l’onnipotenza può render liberi. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre però assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso indipendente. Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della sua potenza, non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti”. (Diario, ed. it. vol. 3, pag. 240-241).

Non possiamo commentare il testo come esso meriterebbe. Mi accontento di qualche breve riflessione. La proporzionalità inversa di potere-libertà (quanto più potere, tanto meno libertà) vale solo nel rapporto fra due potenze e due libertà create. Ora l’onnipotenza divina non è la potenza umana estesa all’infinito: non esiste solo una differenza, diciamo, quantitativa. Essa è essenzialmente diversa: l’infinita potenza crea la libertà, perché Essa non ha bisogno di nulla. Qui troviamo il fondamento ultimo, quello metafisico, della economia che non è autonomia, che non è eteronomia: è libertà che si radica nella verità dell’atto creativo.

Possiamo ormai concludere la prima parte della nostra riflessione. La domanda alla quale abbiamo cercato di rispondere, era la seguente: in che senso è teoricamente possibile parlare di una guida dell’agire umano? La nostra risposta si è articolata in due momenti o parti: una pars destruens e una pars construens. Non si può teoricamente parlare di una guida dell’agire umano né nel senso dell’affermazione di autonomia del soggetto né nel senso dell’affermazione di un’eteronomia del soggetto. Si può e si deve parlare di guida dell’agire umano nel senso di una teonomia del soggetto umano. La persona umana guida il suo proprio agire in quanto è originariamente partecipe della Sapienza eterna di Dio e, quindi, capace di discernere il bene dal male per ordinare (cioè disporre) i propri atti al conseguimento del suo ultimo Fine.

Quando la tradizione ed il Magistero della Chiesa parlano dei Comandamenti di Dio e della coscienza morale come guida dell’agire umano, intendono parlare di questo fondamentale e fondante rapporto, quello di teonomia, che costituisce la verità più profonda della persona creata. Ora possiamo rispondere alla seconda domanda.

 

2. Comandamenti di Dio e coscienza morale

Si tenga sempre presente la prospettiva di questa seconda parte della nostra riflessione: perché e in che senso i Comandamenti di Dio e la coscienza morale sono guida dell’agire umano? La riflessione seguente si deve immergere dentro la soggettività umana e cristiana. Si immerge cioè nella persona umana nel momento in cui ella si decide all’agire, decide cioè la configurazione del suo proprio volto, del suo destino ultimo. È in questo “spazio” fra persona e atto libero che si inserisce il comandamento di Dio ed il giudizio della propria coscienza morale, come guida della persona al suo agire. In che cosa consiste questa funzione, come esercitano la loro funzione di guida? Questo è il tema della seconda parte della nostra riflessione.

 

2, 1. Riflettendo sulla soggettività cristiana, ci rendiamo facilmente conto dell’importanza centrale della scelta. In realtà la scelta è come il punto di tangente sul quale poggia tutto il volume della sfera posta sul piano. La Tradizione etica della Chiesa ha sempre sottolineato questa importanza decisiva. È la scelta che ci fa esistere in un modo o nell’altro; è nella scelta che ciascuno di noi diventa, come scrive Gregorio di Nissa, padre e madre di noi stessi.

Che cosa è che può far scegliere la volontà? Si noti bene: ho detto “può far scegliere”, non ho detto “fa scegliere”. La scelta infatti è atto prodotto esclusivamente dalla volontà. Nessuna altra facoltà umana esercita una causalità efficiente. È il fatto che la persona intra-vede nell’atto possibile una bontà, una preziosità tale che lo rende degno di essere voluto: senza questa valutazione non ci può essere scelta in senso vero e proprio. Infatti, il fatto che un bene si mostri alla volontà, rende possibile che questa spiri da sé un atto di amore (= scelta) di quel bene. Ma si faccia bene attenzione. Il bene deve mostrarsi come tale, nella sua forma di bene. La volontà può scegliere quel bene precisamente in quanto e perché è bene. Si tratta cioè di una vera e propria auto-determinazione, di un vero e proprio muovere se stesso. Si ricordi il testo di san Tommaso: “se in suis actibus... gubernare potest”. È più che la semplice consapevolezza: posso rendermi consapevole della mia attività respiratoria, ma non per questo l’atto del respirare è una scelta. È una necessità naturale che tale rimane, anche se ne divento consapevole.

Grazie a questa valutazione, a questa visione della bontà inerente all’atto che posso compiere, la persona non segue semplicemente inclinazioni e desideri dati, che di fatto possono anche essere buoni, ma è in grado di spirare da sé, di produrre in sé e da sé un movimento del tutto volontario che va ad un bene operabile, in quanto è rappresentato dalla ragione pratica. Senza la mediazione di questo atto valutativo non si ha scelta; al massimo ci può essere un comportamento semplicemente spontaneo. Ma la spontaneità non è libertà.

Orbene, questa valutazione, questo giudizio valutativo che rende possibile la scelta è ciò che chiamiamo giudizio di coscienza o coscienza morale. Essa si pone, nell’ambito della soggettività umana e cristiana, alle spalle, per così dire, dell’atto della scelta. Se abbiamo capito bene questa collocazione, ora possiamo capire la natura intima di questo giudizio che è la coscienza e in quale senso preciso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza, e in quale senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Dunque, prima di tutto la natura di questo giudizio. Si tratta di un atto della nostra ragione pratica, di un giudizio mediante il quale la persona conosce la qualità morale dell’atto che puo compiere, che sta per compiere. Ma per capire bene la natura di questo giudizio e della conoscenza che raggiungiamo per mezzo di esso, è necessario distinguere accuratamente il giudizio che è la coscienza dal giudizio di scelta. Il giudizio della coscienza è un giudizio per sé puramente razionale. Esso dice: “questa è l’azione che devo fare/non devo fare in questa situazione”. Si tratta di una valutazione che riguarda l’azione già circostanziata, ma considerata ancora in se stessa: cioè indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni dell’individuo. È per questo che questo giudizio non è immediatamente pratico, come dimostra il fatto che esso può essere contraddetto dalla scelta libera. E, infatti, la scelta scaturisce dalla volontà, dai desideri e dalle intenzioni della persona.

Il giudizio della coscienza, pur essendo un giudizio particolare, ha in sé una esigenza di universalità. Esso cioè ha una sua giustificazione che non si fonda su riferimenti così personali da essere ineffabili e incomunicabili. Nel giudizio di coscienza la persona dice al contempo: “questa è l’azione che devo compiere” e “qualunque persona al mio posto dovrebbe compiere questa azione”. Donde deriva alla coscienza questa capacità di essere giudizio particolare-universalizzabile? Scopriamo qui un’altra importante dimensione del giudizio di coscienza.

La ragione elabora i suoi giudizi secondo leggi universali e necessarie. La coscienza è un giudizio della ragione che ha per oggetto un atto circostanziato al massimo, ma giudicato alla luce della verità della persona, della dignità della persona. Quando la coscienza dice “questa è l’azione che devo compiere”, lo dice perché ha visto che in questa azione la persona umana come tale si afferma, si realizza. Ho detto “la persona umana”, non “il mio io”. La coscienza non giudica secondo ciò che mi piace, ciò che mi è utile: in riferimento, direbbe san Bernardo al seguito di Agostino, a ciò che “tamquam privato sui ipsius amore desiderat anima” (De diversis, Sermo 8, 9). In questo sta la grandezza (ma anche la miseria) della coscienza. In essa l’uomo diventa consapevole della sua verità di persona, della bontà propria del suo essere personale, della singolare preziosità della sua persona, ma in quanto quella verità esige ora di essere affermata e non negata; in quanto quella bontà esige ora di essere amata e non odiata; in quanto quella preziosità esige ora di essere salvata e non perduta. Affermazione, amore, salvezza che la coscienza vede realizzarsi nell’atto, il quale pertanto viene giudicato doveroso. È nella coscienza che l’uomo resta come “imprigionato” dentro la sua verità, nel senso che ora è costretto a... essere libero, a fare la sua scelta. Cioè: la coscienza libera in questo senso l’uomo. Libera l’uomo perché lo sottopone alla verità: per questo siamo liberi — scrive sant’Agostino — perché siamo sottoposti alla verità.

Ed è precisamente in questo profondo rapporto fra coscienza-verità-scelta che possiamo ora dire in che senso si può e si deve parlare di autonomia di coscienza.

Il senso primo, da cui derivano mi sembra tutti gli altri, è che l’uomo non può fare una scelta libera senza la mediazione del giudizio della sua coscienza: radix totius libertatis judicium rationis, scrive san Tommaso. Non può fare una scelta libera se non in quanto segue il giudizio della sua coscienza. In questo senso, allora, l’uomo deve sempre seguire il giudizio della sua coscienza, perché semplicemente deve agire umanamente, cioè liberamente. Agire in coscienza e agire liberamente sono come la condizione e il condizionato.

Di conseguenza, l’autonomia della coscienza significa che l’uomo nel suo valutare non deve lasciarsi guidare dalle passioni, dai suoi desideri, ma esclusivamente dal puro desiderio, dal disinteressato desiderio di sapere la verità sulla scelta, sull’atto che afferma il suo essere persona. Non da considerazione di utilità, di calcolo. Quando la persona comincia a sbirciare verso le conseguenze utili o dannose del suo atto ha già rinunciato all’autonomia della coscienza.

Ancora, autonomia della coscienza significa non accettare il criterio della maggioranza come criterio di verità su ciò che è bene o male, di seguire l’opinione dei più. La Familiaris consortio dice stupendamente: “Seguendo Cristo, la Chiesa cerca la verità, la quale non è sempre lo stesso che l’opinione della maggioranza. Essa ascolta la coscienza e non il potere e in questo modo difende i poveri” (5, 2). Giudicare liberi dal condizionamento delle opinioni alla moda; giudicare liberi dalle proprie passioni e dai propri interessi; giudicare solo nella sottomissione alla verità: questa è l’autonomìa della coscienza.

E ora possiamo, per contrarium, dire in che senso non si può e non si deve parlare di autonomia di coscienza.

Anche qui si ha un senso originariamente errato di autonomia di coscienza. È l’errore che nasce dal ritenere identici il fatto di riconoscersi obbligati e il fatto di obbligare se stessi. Sulla base di questo errore, si intende autonomia di coscienza il fatto che il fondamento, la sorgente ultima che causa l’obbligazione è il giudizio di coscienza. Cioè: il giudizio di coscienza non è solo ciò mediante cui (principium quo) riconosco di essere obbligato a..., ma ciò che (principium quod) mi obbliga a... Autonomia di coscienza, quindi, significa che non esiste una verità, una bontà, una preziosità della persona che precede la coscienza e la illumina, ma che questa verità, bontà e preziosità è costituita nel e dal giudizio di coscienza.

Autonomia di coscienza, quindi, finisce (ha finito) col significare puramente e semplicemente libertà di agire: la confusione è qui semplicemente tragica! Poiché la coscienza non ha alcun punto di riferimento che le si imponga, ma è essa stessa che pone i propri criteri, essa è libera. E siamo al concetto di “libertà di coscienza”, nel quale risiede una tremenda ambiguità. Libertà di coscienza che si capovolge in coscienza della propria libertà.

Infine, terzo significato errato, autonomia della coscienza significa che nessuna autorità puo entrare nell’ambito proprio della coscienza: in questo ambito ciascuno è assolutamente autonomo. Ciò che l’autorità può e deve fare è costituire alcune regole di convivenza fra le varie libertà (ambito della giustizia), ma non può attribuirsi l’autorità, come fa il Magistero della Chiesa, di dettare norme di comportamento riguardanti la propria vita diciamo privata. È un attentato contro l’autonomia della coscienza, che va combattuto.

La realtà è che, con questa esaltazione della autonomia e libertà della coscienza, forse mai come ora si è manipolato l’uomo, si è organizzato una così potente strategia di produzione del consenso attraverso la manipolazione dell’opinione. Col richiamo alla coscienza si è distrutto la coscienza e la soggettività umana e cristiana.

Ma siamo ormai arrivati al momento di parlare dell’altra realtà, la legge morale, sempre nel contesto della soggettività.

 

2, 2. Parlando del giudizio di coscienza, abbiamo visto come esso sorga dal confronto fra un atto che in data situazione si presenta come possibile e la verità, la bontà, la dignità della persona umana come tale. Verità, bontà, dignità che può essere affermata/negata, amata/odiata, salvata/perduta nell’atto precisamente della persona. È in questo contesto che possiamo capire che cosa è la legge morale e la funzione che essa esercita nell’ambito della soggettività umana e cristiana.

Prima di tutto la natura della legge morale. Partiamo ancora una volta da un esempio. Esiste nella persona umana la tendenza, l’istinto al rapporto sessuale colla persona dell’altro sesso e la scienza dimostra come la sessualità sia “costruita” in modo tale che può dare origine a un nuovo individuo umano. Dunque, possiamo dire che il fine proprio (si noti bene: proprio) della sessualità è la congiunzione sessuale per dare origine a una nuova vita. Possiamo anche dire che questo è anche il fine dovuto (debitus finis)? che fine proprio (della sessualità) e fine dovuto (della sessualità) è lo stesso? Questa identità deve essere negata. Perché?

La persona umana colla sua ragione comprende che: a) essere persona è essenzialmente diverso e più che essere qualcosa; b) il corpo è corpo personale e la persona è persona corporale; c) la sessualità, quindi, è sessualità personale e la persona e persona sessuata (uomo e donna lo creò). La persona ha conosciuto se stessa: è illuminata dalla verità su se stessa. In questa luce si chiede: quale esercizio della sessualità, quale atto sessuale afferma questa verità? quale atto nega questa verità? E arriva alla seguente conclusione: solo l’atto dell’amore coniugale aperto al dono della vita afferma (cioè realizza) la verità della persona; ogni atto diverso da questo nega (cioè non realizza) la verità della persona. In questo momento, cioè nel momento in cui la persona umana giunge a conoscere questo rapporto fra un atto e la persona, essa ha scoperto una legge morale.

La legge morale, quindi, nella sua essenza è in senso proprio un giudizio della ragione mediante il quale conosco il rapporto esistente fra un atto e l’essere della persona in quanto realizzabile (perfezionabile) mediante l’atto libero. La legge morale è questo giudizio.

Per analogia, però, legge morale può anche significare non formalmente il giudizio razionale mediante cui conosco il rapporto atto-persona, ma questo stesso rapporto. È come dire “cibo sano”, nel senso di “cibo che causa la salute”. Ora si comprende perché il fine proprio non è il fine dovuto.

L’inclinazione come tale non è la legge morale; la legge morale si costituisce mediante la ragione.

È importante che vediamo la differenza fra la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la legge morale e la conoscenza che raggiungo attraverso quel giudizio razionale che è la coscienza morale. La prima conoscenza è universale e solo potenzialmente particolare; la seconda è particolare e solo potenzialmente universale. Mi spiego. Ciò di cui parla la legge è l’atto della persona non considerato dal punto di vista delle circostanze in cui la persona concreta lo può compiere né dal punto di vista dello scopo che una persona concreta si propone nel compierlo. È l’atto della persona considerato in sé e per sé, nel suo rapporto puro colla persona come tale, in quanto può essere oggetto della libera volontà prescindendo da qualsiasi altra considerazione nel volerlo. Si capisce, quindi, perché questa conoscenza sia universale: ovunque esista una persona che compia quell’atto è vero ciò che afferma la legge morale. E si capisce anche perché questa conoscenza sia potenzialmente particolare e quindi solo remotamente praticabile: l’atto considerato dalla legge morale non esiste in realtà, nel senso che l’atto reale è sempre più che l’atto così considerato. Non è una conoscenza falsa, ma limitata e incompleta.

È per questo che è necessaria la conoscenza che raggiungo attraverso la coscienza: questa mi fa conoscere l’atto nella sua particolarità, alla luce anche della legge morale come vedremo fra poco.

Vista la natura della legge morale, possiamo chiederci quale è la sua funzione nella soggettività umana e cristiana. È questo un punto assai importante.

Ripartiamo ancora dall’esempio già fatto. È chiaro che la persona sente la tendenza naturale, precedente la sua volontà, al rapporto colla persona di altro sesso. È ugualmente però certo che questo rapporto non si realizza umanamente se non si realizza liberamente. La libertà è chiamata ad assumere questa inclinazione: ciò verso cui inclina è un bene umano. Ma è precisamente questo il punto: verso che cosa inclina? o, il che è lo stesso, quale è il bene proprio della sessualità, in che cosa consiste propriamente la bontà della sessualità? È questa una domanda della ragione, a cui cioè la ragione deve rispondere. In che senso deve? nel senso che la persona deve chiarire a se stessa e in se stessa questa inclinazione; nel senso che è la ragione che deve presentare quella bontà nei confronti della quale la libertà può muovere la persona e fare le sue scelte. Ora la ragione giunge a conoscere quel bene che non solo è possibile (operabile), ma è dovuto (operandum). Che cosa significa dovuto? un bene tale che appartiene come tale alla volontà razionale, per cui se la volontà sceglie, deve scegliere quel bene, se non vuole rinnegare se stessa auto-distruggendosi nel momento stesso in cui si afferma. Ecco, ora siamo in grado di rispondere alla domanda. La funzione della legge morale nella soggettività umana i quella di fare conoscere quali sono quei beni che sono dovuti alla persona come tale. “Dovuti” significa: originaria convenienza per cui bene (indicato dalla legge morale) e volontà razionale si appartengono reciprocamente. Quel bene è il bene proprio della persona: la volontà razionale orientata a quel bene. La legge morale indica quindi la via della vita.

Tuttavia l’esperienza sembra smentire tragicamente tutto questo. E qui entriamo nella soggettività cristiana. Se, infatti, la legge morale esprime questa reciproca appartenenza, originaria convenienza fra bene e volontà razionale, perché la volontà razionale si sente inclinata piuttosto in direzione diversa? Questo fatto fa assumere alla legge morale la funzione di “accusatore”, nel senso che essa fa prendere coscienza all’uomo di essere “venduto al peccato”. E questa consapevolezza fa invocare il Redentore. Egli rigenera la soggetività della persona, liberando la sua (della persona) libertà.

 

2, 3. Abbiamo visto il sorgere della coscienza morale e della legge morale nell’interno della soggettività umana e cristiana. Ora dobbiamo vedere in che rapporto sono fra loro e quale è il servizio che il Magistero morale della Chiesa è chiamato a svolgere nei confronti della soggettività umana e cristiana, e quindi della coscienza e della conoscenza morale. Questo è il terzo e ultimo punto della seconda parte della nostra riflessione.

La legge morale e la coscienza rappresentano i due momenti fondamentali nei quali si attua la vita dello spirito alla ricerca della verità sul bene della persona. Sono due tappe dello stesso cammino verso la conoscenza della verità sul bene. Esse si radicano in quella attitudine spirituale che gli antichi chiamavano “sinderesi”, cioè quella innata capacità dell’intelletto di intuire la bontà, di produrre in sé la nozione di bene e i supremi principi dell’ordine morale. E si radicano in quella tensione spirituale della persona verso la pienezza dell’essere che muove la persona a ricercare in che modo la libertà può raggiungerla, cioè a ricercare la verità sul bene. È su questo scopo comune alla legge morale e alla coscienza che vorrei richiamare la vostra attenzione. Sia la legge morale, sia la coscienza connotano, come abbiamo visto, un’attività razionale, cioè una conoscenza della verità. Se l’esposizione precedente ha messo in risalto, per ragioni didattiche, soprattutto la loro distinzione, ora dobbiamo recuperare la loro profonda unità.

Se noi prendiamo coscienza profonda di quell’evento spirituale che è l’esperienza etica, aiutati dai grandi maestri che l’hanno descritta, da Platone a Newman, noi vediamo che essa (esperienza etica) è l’esperienza di una bontà che esige di essere riconosciuta, amata dalla mia persona non in quanto e non perché sono io e non un altro. Dalla mia persona in quanto soggetto razionale. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa. San Tommaso dice che chi afferma la dipendenza del bene dalla volontà divina e non viceversa, bestemmia. La cosa è profonda. È la volontà razionale come tale che è chiamata in causa; quindi ogni volontà razionale, quella di Dio come quella della creatura, quella dell’angelo come quella dell’uomo. L’esperienza etica è la percezione di un ordine che è intrinseco all’essere come tale, di una Misura trascendente ogni essere e immanente a ogni essere.

Tuttavia, l’esperienza etica non è solo questo. In essa ciascuno di noi è interpellato nella sua singolare irripetibilità: nessuno può prendere il mio posto. È colla mia scelta che mi è chiesto di riconoscere, di amare quel bene, quell’ordine intrinseco all’essere.

L’esperienza etica è questo incrocio di universalità e singolarità, di eternità e di temporalità: è il respiro dell’eternità nel tempo. È per questo che la conoscenza del bene avviene attraverso una visione di un ordine che esige di prendere corpo nella nostra concretissima scelta (= la legge morale) e attraverso una visione del bene proprio della concretissima scelta nella luce dell’ordine dell’essere (= coscienza morale). È come un circolo che si istituisce nella vita dello spirito.

Quando questo “circolo” si spezza? quando si contrappone legge morale e coscienza? È proprio questa disarticolazione interiore che è accaduta in questi anni.

Quel rapporto si spezza quando si espelle dalla riflessione etica il concetto di verità. Questa espulsione significa che la domanda di felicità che abita nel cuore umano non può ricevere una risposta che possa qualificarsi come “vera” o “falsa”. Chiedersi se si possa distinguere una vera felicità da una falsa felicità non ha senso, poiché essere felici significa sentirsi felici. La progettazione quindi della propria esistenza sfugge a ogni giudizio avente carattere di validità universale. La stessa cosa vale anche per le scelte che concretizzano e realizzano quel progetto.

Ma l’uomo non vive solo, vive in società. È necessario, quindi, che si pongano delle regole così che a ciascuno sia consentito di realizzare nelle proprie scelte libere il progetto esistenziale liberamente elaborato. Queste sono leggi che valgono per tutti: la loro è solo una funzione di regolamentare gli interessi opposti: chiedersi se siano vere o false non ha significato. Bisogna solo chiedersi se sono funzionali o non funzionali. E a questo punto l’espulsione del concetto di verità dall’etica è totale: un’etica senza verità.

In questo contesto il rapporto coscienza morale e legge morale è pensato come il rapporto fra l’autonomia della persona (che realizza nelle sue libere scelte il proprio progetto esistenziale) e le regole che limitano questa autonomia. Non ha più senso che un’autorità possa imporre regole che entrino a regolare il campo dell’autonomia della coscienza. Un esempio: non ha senso che la legge civile consideri matrimonio solo quello fra uomo e donna, poiché qui si tratta di progettare la propria sessualità. E si chiede il matrimonio omosessuale.

Nel piano della società civile si ha la distruzione del tessuto connettivo della società umana; nell’ambito dell’esperienza di fede si ha quello sradicamento del soggetto dalla comunione ecclesiale di cui ho già parlato. Né poteva essere diversamente. Solo la verità sul bene crea comunione; non il privato sentimento del bene.

E ora finalmente possiamo capire facilmente il compito del Magistero morale della Chiesa, considerando le due situazioni spirituali sopra descritte.

A) Nel contesto di una soggettività umana e cristiana sana, il compito del Magistero è visto correttamente come ciò che aiuta la ragione dell’uomo a scoprire la verità sul bene della persona. Esso compie questo servizio in due modi: insegnando quale esercizio della libertà, quale atto della persona distrugge il bene di essa (ed è il caso per es. di Humanae Vitae) oppure mostrando quali atti realizzano il bene della persona.

Ora, è chiaro che il Magistero non può sostituirsi alla coscienza, poiché nessuno può farlo: è questo — come abbiamo visto — il senso corretto di autonomia. Esso, coll’insegnamento delle norme morali negative dice che cosa la coscienza non deve mai giudicare bene; delle norme morali positive, indica i criteri mediante i quali la coscienza deve giudicare l’atto che la libertà sta per compiere.

B) Nel contesto di una soggettività umana e cristiana ammalata, il compito del Magistero è semplicemente impensabile. Non lo si accetta poiché la sua accettazione è impensabile. Per ciò che riguarda l’ambito della propria vita o è considerato una indebita ingerenza (“Il Papa non ha il diritto di insegnarci come vivere la nostra sessualità coniugale”) o è al massimo visto come uno dei tanti punti di riferimento che è prudente tenere in conto. Dire più di questo è negare l’autonomia della coscienza (qui intesa nel modo scorretto).

Per ciò che riguarda la dimensione più sociale, il Magistero può essere accettato in quanto istanza che aiuta a produrre un consenso su valori comuni, su alcune fondamentali regole di comportamento sociale.

E siamo cosi arrivati al punto da cui siamo partiti: il vero problema è la ricostruzione di una vera soggettività umana e cristiana, quella rigenerazione dell’uomo di cui Gesù parla a Nicodemo.

 

Conclusioni

 

L’Apostolo (2 Cor, 4, 2) si pone davanti alla coscienza dell’uomo: alla persona cioè nel momento in cui progetta e giudica quelle scelte che realizzeranno o non la sua persona. Egli, pertanto, non può dissimulare vergognosamente la verità o falsificarla. Sarebbe un traditore dell’uomo e diventerebbe responsabile della sua perdizione. Alla fine, porsi davanti alla coscienza dell’uomo è stare al cospetto di Dio, poiché Dio è colui che vuole che ogni uomo si salvi e quindi arrivi alla conoscenza della Verità.

Ciascuno di noi deve collocarsi di fronte alla coscienza, non di fronte alla società o di fronte all’opinione della maggioranza. Di fronte a ogni persona nella sua infinita preziosità. La persona è se stessa in modo eminente nella sua scelta. Servire la coscienza significa dire, senza vergognose dissimulazioni, la verità sul bene dell’uomo: perché l’uomo non sbagli nelle sue scelte.