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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Da Avvenire - 8 giugno 2008

"Liberi perché cristiani l’insegnamento di Biffi"
Caffarra: oggi rischiamo di perdere la nostra identità

DAL NOSTRO INVIATO A BOLOGNA
MARINA CORRADI


Ottanta, sono gli anni che il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, compirà il 13 giugno. Settanta, sono quelli che pochi giorni fa ha compiuto il cardinale Carlo Caffarra, suo successore. Ventiquattro, sono gli anni che complessivamente, uno dopo l’altro, hanno passato sulla cattedra di san Petronio. Bologna, la sua gente, la fede: l’arcivescovo di oggi parla del predecessore, della città, e di uno sguardo sugli uomini che da Biffi ("padre, maestro e amico") ha ereditato.
L’amicizia, fra loro, è di lungo corso. Risale a quando Biffi invitò Caffarra, giovane docente alla Università Cattolica di Milano, a quel laboratorio culturale che fu la Scuola di San Vittore. Teologi entrambi; Biffi cultore di Ambrogio, Caffarra di Agostino; tutti e due padani — il primo milanese, l’altro di Busseto — già condividevano, dice oggi l’arcivescovo di Bologna, "una profonda affinità di prospettiva, che si faceva poi condivisione del giudizio sulla realtà". Molto amici, quei due, lo sapeva anche Giovanni Paolo II: che, racconta il cardinale, "nel 1995 mi disse che avrebbe voluto ordinarmi personalmente vescovo a Fidenza, ma poi, non potendo, suggerì come in una scelta naturale: chiama Biffi, tocca a lui". E così fu. Oggi Caffarra siede nella sua stanza nel secentesco palazzo di via Altabella, mentre attorno alla cattedrale i bolognesi sciamano sbracciati nel primo caldo, all’ora della chiusura degli uffici. A un botteghino del lotto ti stupisce una lunga coda di gente in cerca di fortuna.


D. Eminenza, il motto del suo predecessore era "Ubi fides ibi libertas". Un motto attuale?

È forse l’insegnamento più forte di Biffi: la convinzione che la proposta cristiana è sommamente ragionevole. In un’anticipazione, quasi, di un tema centrale di Benedetto XVI. E cioè che solo da una rinnovata amicizia fra fede e ragione può nascere quella grande testimonianza di carità che è la forza creativa del cristianesimo. Ma in questo stesso punto si incontra la profonda difficoltà di evangelizzazione dell’occidente, oggi. Da una parte, una ragione che si è automutilata e quindi non riconosce nella fede alcuna dimensione veritativa. Dall’altra, una fede che in non pochi cristiani si contenta di essere esclamata e non interrogata, professata e non pensata. E, di conseguenza, una ragione che si è interdetta la possibilità di guidare l’uomo verso gli interrogativi ultimi, e una fede che non sa più mostrare la sua ragionevolezza. In questa frattura, a rischio è l’umanità (e la libertà) della persona. Quella adombrata nel motto che Biffi prese da Ambrogio, è la nostra sfida.

D. Resta famosa del suo predecessore la definizione di Bologna che diede oltre vent’anni fa: "Sazia e disperata". Aveva visto in anticipo un malessere che oggi va ben oltre la città?

Ho appena incontrato la giunta della Caritas diocesana. Le famiglie che faticano a arrivare a fine mese sono sempre di più. Non è più così sazia, Bologna, ma purtroppo mi sembra ancora disperata. Era una volta una città coesa, amante del confronto — le grandi piazze, i portici ne sono il segno urbanistico — nel profondo rispetto reciproco. Oggi appare disgregata. Come se non ci fosse più interesse a parlarsi. I fondamentali tessuti connettivi del convivere civile si stanno sfilacciando. Se c’è una città che ha fatto storia nel senso più alto del termine, dall’Università al pensiero politico, è Bologna. Confesso però che oggi ho un timore. Temo che Bologna si rassegni al tramonto, a congedarsi dalla storia. Già Biffi notava i germi di questo malessere nella ultima sua lettera pastorale. Capisco che le mie parole, come allora le sue, possano addolorare. Ma nascono da un grande amore che entrambi portiamo a questa città. Vede, è come quando si ama una donna molto bella, e si vede che questa donna si trascura.

D. Scriveva Biffi in quella stessa ultima nota: "Si ha l’impressione che nessuno proponga più niente di magnifico e di affascinante, e anche i giovani sembrano rassegnati a vivere alla giornata".

Qui tocchiamo il nodo su cui si gioca il destino di questa città, l’emergenza educativa. È come se si fosse spezzato il racconto della vita fra i padri e i figli. Tempo fa sono venuti a trovarmi dei bambini di una scuola elementare di periferia. Ho chiesto se conoscevano la chiesa di San Petronio. "Mai sentita nominare", hanno risposto. La cosa mi ha fatto male. Da allora ripeto: attenzione, qui sta capitando qualcosa di grave. Perché un popolo continua se custodisce la sua tradizione rendendola viva nel rapporto fra generazioni. Se il tramandare ai figli si interrompe, sono come sradicati, orfani di una dimora spirituale. Senza memoria, una comunità muore.

D. Ma perché questa parola si è interrotta?

Perché i padri hanno perso autorevolezza. Autorevolezza vuole dire che io, padre o madre, offro a te, figlio, una proposta di vita, della cui bontà e verità sono certo: e ne sono certo perché la ho verificata nella mia vita. Nel momento in cui queste premesse vengono meno, non resta più niente di vero da dare ai figli. Dentro a una mentalità relativistica, l’educazione non diventa difficile, ma impossibile. L’atto educativo stesso è percepito quasi come un sopruso. "Deciderà lui, quando sarà grande", dicono oggi i genitori. Così creiamo, in realtà, degli schiavi. Contro questo idolo relativista, il cardinale Biffi ci avvertì fra i primi.

D. Un’altra affermazione di Biffi fece clamore quando disse che occorreva "salvaguardare la fisionomia della nazione dai rischi di una immigrazione incontrollata".

I fatti purtroppo gli hanno dato ragione. Se un popolo tenta di dimenticare la sua identità, e rinuncia a quella storia che la definisce; se vive, come ha scritto il sociologo Riccardo Prandini, nel "paradosso dell’identità di chi non vuole identità per non identificarsi", non diventa maggiormente capace di accoglienza — questo è l’errore madornale — ma invece sempre più spaventato dell’altro, e quindi meno accogliente o anche ostile. Al contrario, una forte consapevolezza di identità, nel senso alto del termine, rende possibile l’incontro col diverso: perché non hai paura, e dunque c’è possibilità di vero dialogo e di integrazione. Oggi la nostra perdita di identità crea il terreno per una grande paura dell’"altro", dello straniero. Anche a Bologna: anche qui si avverte questa paura. Ma la paura non consiglia mai bene.

D. Un punto su cui lei torna spesso nelle omelie è la "difficoltà di giudizio" sulla realtà di molti cristiani, come non preparati a affrontare la modernità.

Questa per me oggi la vera debolezza del soggetto cristiano: la incapacità di fare della fede un modo di stare dentro la realtà. Ciò che si celebra la domenica, per molti non ha nulla a che fare con ciò che si fa il lunedì. È solo una pia elevazione dalle bruttezze del mondo. Ma in concreto, cosa c’entra con Cristo il modo in cui pensiamo e viviamo la famiglia? Le grandi esperienze della nostra vita, innamorarsi, avere figli, lavorare, come c’entrano con Cristo? È la capacità di stare cristianamente dentro la realtà che viene meno.

D. Com’è potuto accadere?

È ancora una conseguenza della emarginazione della ragione dalla fede. La fede va pensata. Agostino disse che una fede non pensata non è fede vera. E non è una idea da intellettuali. Mia madre non aveva finito la terza elementare: la fede però le insegnava come si affronta la realtà — la realtà dura di una vedovanza precocissima, con 4 figli piccoli. Il lavoro era pesante, i soldi ben pochi, ma lei sapeva sperare, crescerci e andare avanti. Si alzava prestissimo per andare a Messa. Noi le dicevamo: dormi ancora, riposati. Rispondeva: ma non capite che senza Messa io non ce la faccio? Questa è cultura cristiana. È carne, è cosa da mangiare. Cristo è il cibo che consente di vivere una vita buona, nonostante le peggiori difficoltà. Questo oggi manca, e questo il Papa ci dice, quando afferma che da una fede divisa dalla ragione non sorgerà mai una grande testimonianza cristiana.

D. Lei ai bolognesi parla di un "bene comune" da ritrovare.

Il bene umano vero è sempre comune, lo disse già Platone. È un bene condiviso in cui ogni uomo ragionevole si riconosce, mentre gli interessi individuali dividono. Ma il bene comune nella coscienza civile può essere solamente frutto di etica condivisa, di una riscoperta di valori? L’agostiniano che è in me dice di no: perché siamo di fatto più sensibili al nostro bene privato, E però l’invocazione di salvezza che l’uomo consapevolmente o no oggi rivolge alla Chiesa è: ridateci la possibilità di vivere una vera comunione, senza la quale periamo nella nostra solitudine Cristo è venuto per questo, per raccogliere i figli divisi e dispersi, la sfida di evangelizzazione su cui Giovanni Paolo II continuava a tornare, ed è sfida aperta a Bologna. A partire dall’educazione e dalla ricostruzione della famiglia e del matrimonio, perché la comunità umana comincia fra un uomo e una donna.

D. Il cardinale Biffi colse in questa città i germi di un malessere che ora lei vede conclamato. Ma un cristiano non può mancare di speranza. In che cosa spera l’arcivescovo di Bologna?

Ho fatto da poco una meditazione sulla Lettera ai Galati. L’uomo è giustificato dalla sua fede in Cristo, dice Paolo. Io credo di dover annunciare e testimoniare come vescovo il dono della salvezza che Cristo ci ha già fatto Ma non come fosse qualcuno di morto che ci ha lasciato un insegnamento: come qualcuno di vivo. Non ci ha detto solamente, Gesù Cristo, "ascoltatemi, e imparate ciò che vi insegno", ma nell’ultima cena ci ha invitato: prendete e mangiate. Io in voi, e voi in me, e non avrete più paura. Cristo, dunque, è la mia speranza.