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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«HUMANAE VITAE»: VENTI ANNI DOPO
Roma, novembre 1988

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Quis sicut Dominus Deus noster?

 


La celebrazione del ventesimo anniversario dell’Enciclica Humanae vitae (H.V.), nel contesto di questa solenne celebrazione dell’Atto Accademico di apertura, non può ridursi, in questa Università che ha legami particolari con il Vescovo di Roma, ad una mera cerimonia. Essa deve essere l’occasione per riflettere sempre più profondamente sul significato ultimo che la dottrina insegnata in quel documento papale portava in sé, e che questi venti anni trascorsi hanno già sufficientemente mostrato. Mi sia consentito di esprimere, fin dall’inizio, in forma sintetica, questo significato.

L’H.V. costituisce uno dei momenti più intensi nel Magistero della Chiesa: perché difende il punto dell’incontro di Dio con l’uomo, nell’affermazione della Gloria di Dio, e la suprema dignità della persona umana, chiamata a realizzare sé stessa nell’auto-donazione. In una parola: è la causa di Dio e dell’uomo che è qui in questione.

 

1. L’incontro di Dio con l’uomo: “la gloria di colui che tutto muove”

 

È ben noto che il problema, la cui soluzione Paolo VI intese offrire, non era la liceità o l’illiceità della contraccezione. Era più precisamente, la liceità o l’illiceità di un particolare metodo contraccettivo: la contraccezione chimica.

In questi venti anni trascorsi, abbiamo potuto constatare quali erano le radici profonde di questo problema, a prima vista molto particolare. Le radici sono venute alla luce: esse sono piantate nel rapporto dell’uomo con Dio Creatore.

Esistono esperienze, nella vita umana, così cariche di “mistero” da suscitare nell’uomo quell’ammirazione e quello stupore che sono la sorgente di ogni ricerca metafisica e religiosa.

Fra queste una è del tutto singolare, nella sua ovvia semplicità: nessuno di noi è entrato nell’essere per sua decisione; ciascuno di noi si è trovato nell’essere. Questa “fatticità” della nostra esistenza può trovare — e di fatto ha trovato — tre spiegazioni: ciascuno di noi è frutto del caso; ciascuno di noi è frutto di una inspiegabile necessità; ciascuno di noi è frutto di un libero atto dell’amore creativo di DIO. L’affermazione della casualità del nostro esserci impedisce coerentemente l’ulteriore affermazione della presenza di un senso indistruttibile della nostra esistenza. L’affermazione della necessità del nostro esserci impedisce coerentemente l’ulteriore affermazione dell’esistenza di una ragione per cui valga la pena di vivere, più importante del vivere stesso. L’affermazione di un atto creativo divino all’origine del nostro esserci, genera la ulteriore affermazione di una dipendenza radicale (quanto cioè all’atto stesso di essere) da Dio, nella quale il soggetto umano è chiamato a collocarsi sempre più profondamente, per non ricadere in quel non-essere dal quale è stato tratto. Ed è nello spazio che si apre all’interno di questa triplice spiegazione, che la libertà è chiamata a decidersi e a decidere del destino supremo della persona. O nati dal caso, si muore per caso e si vive per caso, riducendo l’esercizio della libertà a possibilità di tutte le possibilità. O nati per necessità, si muore per necessità e si vive per necessità, riducendo la persona ad un punto nel quale si incrociano forze impersonali, governate da leggi impersonali: non “io” sono, ma “si” esiste; non “io” muoio, ma “si” muore; non “io” vivo, ma “si” vive. O nati per l’atto di un amore liberamente creativo, ciascuno di noi è chiamato ad acconsentire ad un amore, che — obbedito — porta l’uomo dalla sua esistenza mortale nell’eternità dell’Essere, dalla sua vanità nella luce della Verità, dalla sua originaria solitudine nella comunione della Bontà. Le due prime sono la caduta di una libertà che, rifiutando l’atto creativo come spiegazione ultima del nostro esserci, si vede incamminata o verso la noia di un puro sperimentalismo ( = pura possibilità - casualità) o verso la disperazione di un fatalismo cieco (= pura necessità). Collocata fra questi due abissi esistenziali, la libertà si erge nella scelta di una obbedienza ad una Legge divina che porta alla Vita.

Che cosa ha a che fare — si chiederà qualcuno — tutto questo con l’H.V.? Questo ventennio trascorso ha mostrato chiaramente che non solo tutto questo ha a che fare, ma che questa è la vera, ultima “causa del contendere” che si è accesa attorno a questa Enciclica.

Consentitemi di iniziare in modo estremamente semplice. Noi iniziamo il nostro Credo, dicendo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore…”. Possiamo chiederci: “quando Dio mi ha creato?”. La risposta non può essere che una: nello stesso momento del mio concepimento, poiché non è possibile alcun attimo nel mio esserci che non sia il termine dell’atto creativo di Dio.

E per questa ragione che il Concilio ha parlato dell’atto procreativo umano come di una certa cooperazione coll’amore creativo di Dio (cfr GS 50).

Sulla base di questo semplice richiamo, ci è possibile continuare la nostra riflessione. L’esercizio della sessualità coniugale, quando essa è fertile, costituisce il punto misterioso di tangenza fra l’universo creato dell’essere e l’amore creativo di Dio; anzi, il punto in cui questo amore creativo si pone dentro all’universo creato dell’essere, in ordine al termine nuovo della sua potenza. Una nuova persona creata diventa in quel momento — nel momento in cui un atto coniugale fertile è compiuto — realmente e prossimamente possibile. L’uomo e la donna hanno la responsabilità di rispettare questa possibilità o di rifiutarla, distruggerla mediante la contraccezione. La fertilità inerente all’atto coniugale non è un fatto puramente biologico. Essa colloca obiettivamente gli sposi in un rapporto reale con Dio Creatore, ne siano essi coscienti o non.

Posti in questa relazione, la loro libertà è chiamata al suo atto supremo: riconoscere che Dio è il Creatore di ogni persona oppure riconoscere che l’uomo è il creatore dell’uomo. Cioè: che l’uomo è affidato nel suo stesso atto di essere ad una Libertà che lo trascende oppure che l’uomo è affidato esclusiva mente a sé stesso, nella casualità o nell’impersonale necessità dell’evento del proprio esserci.

Paolo VI aveva visto profeticamente il progressivo oscurarsi dello splendore della Gloria di Dio nell’universo creato dell’essere: “egent gloria Dei” (Rm 3, 23).

E molti sono i fatti accaduti in questi venti anni che hanno tragicamente confermato questa profezia. Mi sia consentito richiamarne sinteticamente almeno due.

 

A) Il primo è costituito dalla progressiva artificializzazione dell’esercizio della sessualità umana.

È a tutti noto che uno dei punti centrali di H.V. è l’affermazione della connessione inscindibile fra il significato procreativo e il significato unitivo. Questa affermazione proviene immediatamente da una tesi centrale nell’antropologia cristiana: la tesi dell’unità sostanziale della persona umana. L’atto coniugale fertile, in quanto e in ragione del fatto che esprime e realizza l’unità delle persone coniugate, nel reciproco dono di sé, non può escludere da sé ciò che costituisce la persona umana nella sua integra unità. L’atto coniugale fertile, in quanto e in ragione del fatto che pone le condizioni del processo biologico che può portare al concepimento di una nuova persona umana, non può non essere il linguaggio dell’amore coniugale. Questa visione dell’atto coniugale, propria di H.V., comprende in unità e la sua dimensione biologica e la sua dimensione spirituale, poiché né quella è esclusivamente biologica né questa è esclusivamente spirituale: il corpo è personale e la persona è corporale.

Quando questa visione cristiana della persona umana viene ad oscurarsi nella coscienza dell’uomo, accadono due eventi nella vita spirituale, di particolare gravità: il primo già descritto da H.V.; il secondo, accaduto per logica necessità in questi ultimi anni.

Il primo è la separazione della sessualità dalla procreazione, separazione che si esprime nella contraccezione. Penetrando profondamente in questo primo fatto, si vede che questa separazione implica un rapporto della persona col suo corpo, pensato nei termini di uso, con una coerente e progressiva spersonalizzazione del medesimo. Il corpo umano è una realtà puramente biologica di cui si può/si deve fare uso, in vista del raggiungimento di determinati scopi. Dal punto di vista spirituale e culturale, questa reificazione del corpo è un evento di tragica portata. Per molteplici ragioni. Poiché il corpo, in realtà, è costitutivo della persona; poiché ogni relazione inter-umana è sempre mediata nel e dal corpo, la reificazione di questo medesimo conduce alla reificazione della persona come tale e alla costruzione progressiva di una cultura nella quale la norma utilitaristica ed edonistica prende il posto della norma personalistica.

Il secondo è la separazione della procreazione dalla sessualità, separazione che si esprime nella procreazione artificiale. Se la dimensione biologica, infatti, è solamente tale, cioè esclusivamente biologica, essa può essere, come tale, sostituita da un procedimento tecnico, qualora ci siano ragioni per farlo. Solo la persona, nella sua irripetibile singolarità, è insostituibile: “qualcosa” può sempre prendere il posto di “qualcosa”; “qualcuno” non può mai prendere il posto di “qualcuno”.

Riflettendo attentamente su questa duplice separazione, possiamo scoprire che ambedue hanno un identico logos, una medesima legge interna. Essa può essere colta, osservando quale concetto di ragione e di libertà è in opera dentro questa visione. La ragione non è capace di cogliere, di vedere una verità della corporeità umana, un “significato” ad essa intrinseco e in esso inscritto, che non sia definibile in termini di uso calcolato in ordine al raggiungimento di scopi prestabiliti. Anzi, durante questi venti anni, si è arrivati a negare la esistenza di una verità ulteriore, che sia più che questa. A negare, cioè, l’esistenza nella corporeità-sessualità-fertilità umana di una preziosità, di una bontà, di una bellezza che non può essere se non venerata. In una parola: la ragione tecnica ha preso il posto della ragione etica. Per usare un linguaggio più preciso: la facoltà procreativa appartiene al fare e non all’agire umano. I problemi, allora, che questa ragione deve affrontare sono i problemi dell’efficacità dei risultati (contraccettivi sempre più sicuri; procedimenti procreativi artificiali sempre più certi del risultato) e i problemi di un bilanciamento, di un calcolo dei vari beni possibili con i possibili danni emergenti.

All’interno di questa razionalità, la libertà non è più concepita né vissuta come responsabilità di sé di fronte a Dio Creatore e Legislatore supremo, ma come responsabilità di raggiungere un bene con un minor numero di danni: un bene, che la libertà stessa costituisce, nella sua decisione.

Ho parlato di una artificializzazione della sessualità umana. Spero di avere mostrato il senso ed il contenuto di questo processo. Già Aristotele, ed ancora più chiaramente san Tommaso, aveva chiaramente distinto due significati fondamentali di ragione pratica. L’uno connota l’esercizio di una razionalità, la messa in atto di una progettazione autonomamente concepita, attraverso la manipolazione (’artificium’) di un materiale che riceve forma solo da e in questa progettazione medesima. L’altro connota, al contrario, l’esercizio di una razionalità, la messa in atto di una progettazione non inventata ma scoperta, non discussa ma venerata, attraverso l’obbedienza di una libertà che si sottomette alla verità.

Ciò che H.V. ha insegnato, affermando l’inscindibile connessione fra significato unitivo e significato procreativo, è che la sessualità umana non può essere vissuta nel contesto del primo tipo di razionalità, ma solo del secondo. E c’è una consequenziale catena di ulteriori artificializzazioni: dalla separazione della sessualità dalla procreazione si è passati alla separazione della procreazione dalla sessualità, fino all’artificializzazione della società familiare, attraverso la separazione della maternita-paternità biologica da quella gestazionale, da quella legale.

 

B) Questo primo fatto — l’artificializzazione della sessualità umana — che in questi venti anni ha mostrato la veritas per contrarium dell’H.V. è stato la causa e l’effetto, al contempo, di un secondo fatto che ha coinvolto più direttamente ed intimamente il pensiero cattolico.

Come scrive Dante all’inizio della terza cantica, la Gloria di Dio “per l’universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove”. Esistono luoghi nell’universo creato dell’essere nei quali la Gloria di Dio risplende, si dona a vedere con un particolare splendore. Uno di questi luoghi è costituito dall’atto coniugale fertile. In esso, infatti, attraverso esso, si apre nell’universo creato lo spazio per un atto creativo di Dio, si costituisce un luogo santo nel quale Dio mostra il suo amore creativo. L’oscurarsi nella coscienza dell’uomo contemporaneo della verità insegnata da H.V. non poteva non avere come conseguenza inevitabile una crisi profonda nel modo di pensare il rapporto dell’uomo con Dio creatore: rapporto che è, contemporaneamente, il cuore della riflessione metafisica, della riflessione etica e dell’esperienza religiosa.

Il secondo fatto che ha tragicamente confermato la profezia di H.V. è precisamente costituito dalla progressiva evacuazione dell’esperienza etica.

L’uomo vive l’esperienza etica — come già Platone aveva visto chiaramente e mirabilmente espresso nel Critone — quando la sua libertà si trova interpellata, provocata da un’esigenza incondizionata ed assoluta. Agostino, nei primi capitoli del dodicesimo libro del De Civitate Dei, analizzando la caduta degli angeli, fa, di questa “provocazione”, un’impareggiabile descrizione. La creatura, dotata di una soggettività spirituale, è posta in una situazione di equilibrio ontologico instabile. In quanto creatura, essa, venuta dal non-essere, è mutevole nel suo essere, esposta all’errore nel suo pensare, inclinata verso la solitudine nel suo volere. In quanto spirituale, essa, non può trovare la sua pienezza che in Dio medesimo, divenendo vivente nella vita di Dio, vera nella luce del Verbo, amante nel dono dello Spirito. L’uscita dalla sua mutabilità è l’atto supremo della sua libertà, la quale costituisce la persona nell’essere pieno, nella verità e nell’amore o la fa cadere nella mutabilità del non-essere, nell’insignificanza dell’errore, nel deserto dell’egoismo. Quando l’uomo vive l’esperienza etica, si trova precisamente nel “punto” in cui tempo ed eternità si incrociano, dentro la sua libertà: chiamato ad elevarsi e realizzarsi nell’ordine della sapienza del Verbo e dell’amore dello Spirito.

Ecco perché l’uomo elevatosi allo stadio etico, non si interessa più minimamente o ultimamente delle possibilità, conseguenze, risultati storici del suo agire: egli è collocato al di sopra di questo calcolo. A Critone che gli esponeva tutte le conseguenze della sua decisione di subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, Socrate non sa rispondere che questo: ciò che tu chiedi è ingiusto e l’ingiustizia non può mai essere compiuta. Abramo, richiesto di sacrificare il suo unico figlio, il figlio della Promessa, non ha alcun interesse per le conseguenze che questo sacrificio avrà per la sua discendenza: il suo interesse ultimo è l’obbedienza al Signore e non le conseguenze storiche del suo agire.

Quando l’esperienza etica viene evacuata? Quando è ridotta ad essere l’impegno di far trionfare la giustizia nel mondo, e non vissuta come l’esigenza assoluta ed incondizionata di agire con giustizia nel mondo, come l’impegno di massimalizzare i beni di questo mondo (i beni pre-morali), minimizzando il più possibile i mali (pre-morali) e non come l’esigenza pura e semplice di “fare il bene ed evitare il male”. Ma qui la riflessione deve farsi teoreticamente assai rigorosa.

San Tommaso scrive che “l’ultimo fine dell’uomo non può essere il bene dell’universo” (1,2, 9.2, a. 8, ad 2um), dal momento che tutto il bene dell’universo è un bene creato, limitato dunque, mentre solo il Bene increato è la suprema vocazione dell’uomo.

E in questo, non in altro, consiste la suprema dignità dell’uomo “ut, licet sit ipsa mutabilis, inhaerendo tamen incommutabili bono, id est Summo Deo, beatitudinem consequatur” (S. AGOSTINO, De civitate Dei, 12, 1). Questa relazione immediata e diretta a Dio, che l’uomo è chiamato a istituire mediante la sua libertà, fonda l’assolutezza e l’incondizionabilità della norma morale, separandola per la sua essenziale diversità, da qualsiasi altra norma del fare umano. Infatti, queste regolano l’agire umano in ordine al conseguimento di un bene creato e limitato, che — proprio perché è tale — non merita un interesse ultimo, assoluto e incondizionato, ma solo penultimo, relativo e condizionato; le norme morali, al contrario, regolano l’agire umano in ordine al conseguimento del Bene increato ed illimitato: il solo che merita di essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. La disobbedienza al primo tipo di regole, generando un male limitato, può sempre essere giustificata per evitare un male maggiore: per definizione, infatti, di ogni male finito si può pensare che ne esista uno maggiore. La disobbedienza alla norma morale, generando un male infinito in ragione del suo termine, non può mai essere giustificata per evitare un male maggiore, poiché, semplicemente non esiste un “più che l’infinito”.

L’esperienza etica è evacuata quando non ha più in sé il respiro dell’eternità; quando si afferma, cioè, che non esiste norma morale, regolante l’agire intramondano dell’uomo, che non ammetta eccezioni; quando si afferma, cioè, che l’uomo vive l’esperienza etica quando compie un bilanciamento di beni-mali sempre limitati, al fine di compiere quella scelta che, nel tempo, massimalizza i primi e minimizza i secondi. È evacuata, perché cessa di essere “il caso serio” della vita.

Che cosa è accaduto, precisamente, in questi anni dopo H.V., in larga parte del pensiero cattolico?

La dottrina dell’Enciclica è la difesa della santità di un luogo in cui la Gloria di Dio penetra e risplende più che altrove, di uno spazio santo in cui Dio manifesta la sua Gloria di Creatore: non a caso, essa inizia richiamando il grande testo della lettera agli Efesini, nel quale l’autore contempla la Paternità di Dio come la fonte di ogni paternità in cielo e in terra. A quale condizione questa dottrina poteva essere contestata? E, nello stesso tempo, a quali conseguenze avrebbe portato questa contestazione?

La condizione radicale era che nessun evento, nessun atto appartenente all’agire intramondano dell’uomo, avesse in sé stesso e per sé stesso una portata, un significato, una valenza decisiva in ordine al rapporto dell’uomo con Dio Creatore e supremo Legislatore. Diciamo, in linguaggio scolastico: che non esistessero “atti che, per sé stessi e in sé stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto” (Esortazione Apostolica Reconciliatio et Paenitentia, n. 17). A quale conseguenza avrebbe portato la negazione della dottrina di H.V.? Essa è stata descritta molto bene da uno di questi teologi: “many theologians are arguing that one cannot isolate the object of an act and say that it is always wrong in any conceivable circumstances” (Mc CORMICK R., Notes on Moral Theology, 1977, in «Theological Studies» (1978), pp. 76-103). Le due negazioni — della dottrina di H.V. e dell’esistenza di atti intrinsecamente illeciti, cioè dell’assolutezza delle norme morali — si sono strettamente congiunte, influendo l’una sull’altra, dimostrando come la difesa che Paolo VI aveva fatto della santità dell’atto coniugale non era, in fondo che la confessione e la lode della Gloria di Dio che “per l’universo penetra e risplende”, come il grande teologo K. Barth riconobbe subito, all’indomani della pubblicazione dell’Enciclica. Non era, in fondo, che l’adempimento di un dovere proprio del Pastore della Chiesa: che l’esperienza etica non venisse evacuata.

Benché, in se stesso considerato, il problema risolto da H.V. sia un problema assai specifico nel contesto generale della riflessione etica, tuttavia, la soluzione che si dà ad esso investe ed orienta la soluzione ai problemi più profondi dell’esistenza umana e dunque dell’etica.

 

2. La dignità dell’uomo: “Gloria Dei vivens homo

 

Fin dall’inizio ho detto che H.V. non è solo la difesa della Gloria di Dio, ma è anche la difesa della dignità dell’uomo. In questa seconda parte della mia riflessione, vorrei mostrare brevemente questo, sempre nella luce di ciò che è accaduto in questi venti anni.

Le due cause — quella della Gloria di Dio e quella della dignità dell’uomo — sono inseparabili, secondo la dottrina cattolica. Dio non fa risplendere la sua Gloria sopra le ceneri dell’uomo, ma, secondo la nota espressione di sant’Ireneo, la Gloria di Dio è che l’uomo viva.

In che senso la dottrina insegnata da H.V. è la difesa della dignità dell’uomo? In che senso, la contestazione, verificatasi in questi venti anni contro H.V., porta in se stessa — anche contro le intenzioni di chi la compie — i germi patogeni di una distruzione della dignità della persona umana? In questa seconda parte, vorrei rispondere a queste due domande.

 

2, 1. Per rispondere alla prima domanda, è necessario, ancora una volta, partire dall’affermazione centrale dell’Enciclica, della connessione inscindibile del significato unitivo e procreativo dell’atto coniugale. Una inscindibilità che può essere spezzata da un duplice punto di vista, come abbiamo visto: separando la sessualità dalla procreazione o la procreazione dalla sessualità.

L’inscindibile connessione della sessualità coniugale colla procreazione è la conseguenza della visione cattolica della comunione coniugale come comunione di amore, come comunione di amore ordinata al dono della vita.

È in primo luogo, la conseguenza della visione cattolica della comunione coniugale come comunione di amore: la contraccezione è la negazione della verità dell’amore coniugale. Nel testo già sopra citato di sant’Agostino, questi pone la differenza essenziale fra la scelta degli angeli fedeli e la scelta degli angeli decaduti in questo, che “dum alii costanter in communi omnibus bono, quod ipse illis est Deus, atque in eius aeternitate veritate charitate persistunt, alii sua potestate potius delectati, velut bonum suum sibi ipsi essent, a superiore communi omnium bono beatifico ad propria defluxerunt” (De civitate Dei, cit.). Viene qui richiamata, in sintesi, la teo-drammaticità dell’amore creato, di cui l’amore coniugale è una forma singolare. Essa teo-drammaticità ha la sua radice in ciò che abbiamo chiamato poc’anzi l’equilibrio ontologicamente instabile della creatura spirituale. In possesso di un suo proprio atto di essere e non riducibile all’evanescente forma di un Unum divino; in possesso di una libertà vera e propria, essa (la creatura spirituale) può ritenere essere suo bene ciò che le è stato donato ed operare la scelta di un amore di sé, esclusivo ed escludente. Oppure, riconoscendo il proprio essere come dono, decidere di realizzare se stessa nel dono di se stessa. La vicenda di ogni spirito creato è racchiusa interamente in questo aut-aut: il grano di frumento, caduto in terra, o non muore e resta solo o muore e porta frutto. L’atto contraccettivo s’inscrive in questa logica, come una delle due possibilità inscritte in ogni amore creato, e quindi anche nell’amore coniugale. Infatti, nel momento in cui i due coniugi si esprimono e realizzano il loro amore coniugale, c’è qualcosa che essi non intendono donarsi reciprocamente: la loro rispettiva capacità di rendere l’altro/a padre/madre. L’amore dice di ogni essere e ad ogni essere: “come è bello, come è bene che tu sia!”, poiché, come dicevo, l’amore è l’affermazione della bontà dell’essere, non del mio essere. L’atto contraccettivo dice: “non è bello, non è bene che tu sia ciò che sei!” cioè fecondo, capace di donare la vita. “A superiori communi omnium beatifico bono ad propria defluxerunt”, scrive — come abbiamo visto — sant’Agostino. Si ha qui, cioè, la caduta a picco della libertà creata da un grado dell’ordine dell’essere a un grado infinitamente inferiore. Che cosa, in realtà, significa: “come è bello, come è bene che tu sia!”? Significa il riconoscimento, la venerazione, la lode della bontà dell’essere come tale, della preziosità dell’essere come tale: una bontà e preziosità che deriva dal Bene sommo. E questo è l’atto di amore che pone la persona creata nell’eternità, nella verità, nella comunione. Che cosa, al contrario, significa: “non è bene, non è bello che tu sia!”? Significa la negazione della bontà dell’essere, della sua intrinseca bellezza e, pertanto, la decisione di porre qualcosa d’altro: l’astuzia della vanità ha preso il posto della certezza della verità e l’utilità di ciascuno ha preso il posto della comunione della carità.

La qualità della persona è la qualità del suo amore. Negando, con negazione che non ammette eccezioni, la liceità della contraccezione, H.V. ha richiamato l’uomo — chiamato a vivere l’amore coniugale — alla sua suprema capacità: alla capacità di amare nella verità. Così come, circa un anno prima (26 giugno 1967), colla Sacerdotalis coelibatus, aveva richiamato a questa stessa suprema grandezza l’uomo chiamato a vivere l’amore verginale.

La comunione coniugale nell’amore è ordinata alla procreazione. L’evidente e ovvia distruzione di questa finalizzazione, da parte della contraccezione, ci fa scoprire un’altra dimensione della difesa che l’H.V. ha fatto della dignità della persona umana.

Come è stato recentemente sottolineato, nella legge universale della Chiesa, dal 13° secolo al 1917 (cfr Decret. Greg. IX, lib. V, tit. 12, cap. V, in Corpus Juris canonici 2, 794) fu inclusa un’espressione assai forte nei confronti di chiunque — sposato o non — ricorresse alla contraccezione: “tamquam homicida habeatur”. L’analogia che la legge canonica ha istituito per secoli fra omicidio e contraccezione non stupisce più, se non badiamo esclusivamente alla materialità dei due comportamenti, ma all’intenzione o movimento della volontà che ricorre alla contraccezione. La decisione, infatti, è ultimamente ragionata e motivata dal giudizio: “non è bene che esista una nuova persona umana”. La caduta ontologica ed etica che avviene dentro l’amore coniugale, di cui abbiamo appena terminato di parlare, si continua anche in ordine alla possibile persona, anche nel rapporto fra coniugi e la possibile nuova persona. L’anti-amore insito nella contraccezione è identicamente l’anti-vita, poiché in essa è sempre implicito il rifiuto della bontà dell’essere, di esclamare: “come è bello, come è bene che tu esista!”: “ad propria defluxerunt”, scriveva, appunto sant’Agostino.

Siamo così giunti a scoprire il senso ultimo nel quale H.V., affermando l’inseparabilità della sessualità dalla procreazione, ha difeso la dignità dell’uomo. È l’affermazione della verità dell’amore, come il destino dell’uomo; è l’affermazione della bontà e della bellezza dell’essere. H.V. si inscrive in quell’impegno di ricostruzione di una cultura della verità e dell’amore, che caratterizzò il ministero pastorale di Paolo VI.

La connessione inscindibile della procreazione colla sessualità, non esplicitamente affermata da H.V., ma in essa implicita, si è resa necessaria in questi ultimi anni, a causa dei nuovi processi procreativi artificiali. L’Istruzione Donum vitae non ha fatto che sviluppare coerentemente quanto era già fondamentalmente insegnato da H.V., proseguendo nell’impegno della Chiesa a difesa della dignità dell’uomo.

Della dignità degli sposi, in primo luogo, e del loro amore coniugale. Gli sposi, infatti, non possono mai essere ridotti, in ordine alla procreazione, a chi offre le cellule germinali ad un tecnico, perché, questi, con le opportune manipolazioni, possa dare inizio al processo procreativo. Né l’atto coniugale può essere ridotto all’azione produttiva di queste cellule stesse.

Della dignità del “concepiendus”. Egli, infatti, non può essere introdotto nell’universo dell’essere attraverso un’attività, che istituisce un rapporto di “dominio”. Le persone non possono essere fatte; possono solo essere generate.

L’affermazione della reciproca inabitazione di significato unitivo e significato procreativo, all’interno dell’atto coniugale fertile, è il riconoscimento della grandezza propria della creatura spirituale, unica nell’universo creato dell’essere. È il riconoscimento che il suo “modus” proprio, cioè la misura del suo essere, che la sua “species” propria, cioè la sua intrinseca bellezza, che il suo “ordo” proprio, cioè la sua interna legge, non possono essere ridotti al modus-species-ordo di nessun’altra creatura. La difesa della “causa” di Dio ha coinciso perfettamente colla difesa della “causa” dell’uomo: è questa coincidenza il centro di tutta l’Enciclica.

 

2, 2. La contestazione verificatasi in questi venti anni contro questa coincidenza ha ora mostrato, certamente contro le intenzioni di chi l’ha condotta e la conduce, tutta la sua carica anti-umana, perché anti-teista. È su questa delicata situazione ecclesiale che ora, terminando la mia riflessione, vorrei brevemente soffermarmi.

Comincio da una constatazione. Una delle ragioni, ritenuta di non ultima importanza, per la difesa della liceità della contraccezione, erano e sono le (supposte) esigenze dell’amore coniugale. Se ora ci chiediamo quanto la diffusa mentalità contraccettiva abbia favorito il benessere della comunità coniugale, il nostro bilancio non può non essere che tragicamente negativo. Si è arrivati ormai alla messa in discussione del valore stesso della comunità coniugale come tale, coi tentativi, già iniziati in alcuni ordinamenti civili, di equipararvi qualsiasi tipo di unione. Si è arrivati alla negazione di una qualsiasi difesa legale del diritto alla vita della persona umana già concepita e non ancora nata. Si è arrivati alla pura e semplice produzione di persone umane, per la loro utilizzazione sperimentale. Questi fatti hanno in sé una loro logica ed esigono una seria riflessione.

Ho parlato di una carica anti-umana perché anti-teista, presente nella contestazione ad H.V.: di questa ora vorrei parlare.

La cosa più sacra che esista nell’uomo è la coscienza morale, perché è in essa che si ha l’originaria rivelazione che Dio fa della sua Gloria all’uomo; su questo J.H. Newman ha scritto riflessioni impareggiabili. È nella coscienza, infatti, che risuona quella vocazione all’Alleanza con Dio, quella voce divina che ci chiama, con potenza incondizionata ed assoluta, alla comunione col Signore. Davanti a Dio non esiste la specie umana: esiste il singolo uomo, poiché ogni singola persona è voluta in se stessa e per se stessa. E questo rapporto del singolo col Singolo è radicato nella coscienza morale (“solus cum Deo”: GS 16): sradicati dalla coscienza morale, si cade inevitabilmente nella sceneggiata degli inutili discorsi sugli impegni storici, sul senso generale della storia umana e così via. La “serietà scientifica” di cui spesso questi discorsi si ammantano sono in realtà le foglie di fico, con cui si cerca di coprire la vergogna della vacuità. Da ciò deriva che ogni attacco contro la coscienza morale inquina non il percorso, ma la sorgente stessa di tutta la vita spirituale dell’uomo.

A me sembra che la coscienza morale sia stata attaccata, in questi venti anni dopo H.V. da parte di chi si è opposto all’Enciclica, da tre punti di vista.

Il primo è costituito dalla negazione dell’esistenza di atti intrinsecamente illeciti, dall’affermazione che non esistono norme morali, riguardanti l’agire umano intra-mondano, che siano ineccepibili. Attraverso questa duplice negazione, infatti, la coscienza morale cessa di essere il luogo in cui l’ordine della divina Sapienza penetra nella reale, quotidiana vicenda di ciascuna persona. La persona, proprio nella sua vicenda temporale, che è la sua vicenda, proprio nel suo camminare verso la vita eterna, che è il senso del suo rimanere nel tempo, cessa di essere “sola cum Deo”, e diviene “sola cum seipsa”. E ciò che già Agostino aveva notato: “ad propria defluxerunt”. In nessuna delle scelte che tessono la concreta trama della nostra quotidianità, l’uomo si trova confrontato con un incondizionato che è “intimior intimo suo”, perché è “superior superiori suo”.

Ma questo primo attacco ne sottintende un secondo: il più grave che la storia spirituale dell’umanità abbia conosciuto. Esso è costituito dall’affermazione della creatività della coscienza. La coscienza non è più luogo dell’ascolto della voce divina, ma è essa stessa la fonte che ultimamente decide ciò che nell’agire intra-mondano dell’uomo è moralmente lecito o illecito. Il versante ecclesiologico dell’affermazione della creatività della coscienza è ben noto: è la negazione dell’esistenza di un magistero morale propriamente detto, avente competenza nell’ambito dell’agire intra-mondano dell’uomo. E proprio durante questi venti anni si è elaborata la teoria secondo la quale una competenza di questo genere non esisterebbe.

Se si riflette un momento, si vede subito che questo duplice attacco in fondo nasce dalla negazione della verità della creazione. Ed allora non è stato un caso che esso sia partito proprio dalla precisa contestazione ad H.V. che — come abbiamo già visto — è l’affermazione pura e semplice della stessa. Oscurando lo splendore dell’atto creativo precisamente nel luogo in cui esso rifulge particolarmente, l’atto coniugale fertile, viene tolta all’uomo la principale possibilità di esserne illuminato e così la coscienza morale è perduta.

Ma che cosa è l’uomo, violentato in ciò che ha di più sacro, cioè la sua coscienza morale? Privato di ciò che lo fa emergere sopra tutto, perché lo rapporta direttamente ed immediatamente al suo Creatore, egli diviene solo la parte di un tutto: è il consenso dei più che crea le norme dell’agire, il consenso sui valori comuni. Ma quando si va a vedere su che cosa si ha il consenso, si osserva che esso diviene sempre più piccolo e alla fine puramente formale oppure che chi non può consentire è inevitabilmente non riconosciuto nella sua dignità. Non si è forse consentito che la persona umana già concepita e non ancora nata non sia una persona e non meriti un rispetto assoluto ed incondizionato? E cosi milioni di innocenti vengono soppressi. Già Socrate ammoniva il suo giovane amico Critone che in queste questioni non l’opinione dei più è criterio, ma la stessa verità, ben prevedendo ormai l’esito tragico della sua vicenda in una società del consenso: la soppressione del giusto.

Proprio perché H.V. ha difeso la “causa di Dio”, essa difende la “causa” dell’uomo: la santità e l’individualità della sua coscienza morale, della sua dignità.

 

Conclusioni 

 

Come esergo a queste pagine, ho preso l’espressione del salmo:“Quis sicut Dominus Deus noster, qui habitat in coelis et humilia respicit?” Ho pensato che nessuna espressione biblica potesse meglio sintetizzare la vicenda di questi venti anni. Chi è come il Signore nostro Dio, che abita nei cieli? L’Enciclica H.V. nasce dalla certezza che nessuno e niente è come il Signore nostro Dio: che la Gloria di Dio non può essere attribuita ad altri. Ma la stessa Rivelazione ci dice che il Signore, che non ha l’uguale, posa il suo sguardo sulle creature. E lo posa in un modo del tutto singolare, unico, su una di esse: la creatura spirituale. Fatta oggetto di questo sguardo, essa “in tanta excellentia creata est ut, licet sit ipsa mutabilis, inhaerendo tamen incommutabili bono, idest summo Deo, beatitudi nem consequatur” (De civitate Dei, loc. cit.). L’Enciclica H.V. nasce dalla volontà e dall’impegno che l’uomo non sia degradato da così grande dignità e schermato dallo sguardo di Dio sopra di Lui: “ut non evacuetur Crux Christi”.

L’atto redentivo di Cristo riporta l’uomo alla dignità della sua prima origine, svelandogli pienamente lo splendore della Gloria del Padre e rendendo l’uomo partecipe di esso. Poiché, alla fine, tutto passa. Due sole realtà sono eterne: Dio, per essenza e la creatura spirituale, per partecipazione.